di Franco Pezzini


Francesco Gallo, L’estate del diorama, illustrazioni di Alida Pintus, pp. 192, € 17, Piuma, Calco LC 2025.

“Infelice colui che possiede dei ricordi tristi legati all’adolescenza”. Stava scritto sopra a un segnalibro dimenticato sotto alla cattedra dalla maestra preferita di Teo: lui l’aveva custodito come un cimelio. Oggi lo stesso segnalibro è infilzato sulla lavagna di sughero che troneggia nel suo studio. È una persona infelice, Teo, da adulto? Possiamo dirci di sì. Una persona infelice, dotata di una buona memoria e infestata dagli incubi. Una definizione piuttosto efficace di scrittore, a ben pensarci.

Che appartenga al tessuto della nostra vita o invece a narrazioni frequentate, il non-detto condivide la stoffa dei fantasmi: qualcosa rimasto appena sotto il pelo della realtà o della parola e che non ha potuto prendere forma, carne verbale, o piuttosto a essa radicalmente irriducibile. C’è un peculiare non-detto, per esempio, dei bambini e degli adolescenti: una cosa la sapevamo, certo, ma non la plasmavamo in parole – per mille motivi, dall’incompetenza nomenclatoria all’imbarazzo, dal timore, disagio o fastidio a un sentore di alienità da quanto giudicato “importante”.
La provocazione emerge molto bene in questo bel romanzo di Francesco Gallo per lettori giovani ma perfettamente adeguato agli adulti che possono apprezzarlo con occhi – ovviamente – diversi. Una scrittura elegante, letteraria, sostiene una storia in sé esile ma in realtà ricca e profonda, densa di impliciti, passaggi ellittici e appunto non-detti, e dove i fantasmi – quelli classici, da ghost story – si riservano alcune raggelanti comparsate. Ha in sé del resto natura fantasmatica quello stesso tempo “vuoto” dell’estate – evocato dal titolo – in cui i ragazzi, alla ventura fuori da rigidità di ritmi quotidiani (scuola in primis), incontrano una qualche dimensione di alterità – tale che a volte vi muoiono, come il giovane Alessandro Nobile. Che di questa storia è idealmente il primo fantasma, sia pure in forma metaforica di figura continuamente richiamata ma in fondo sfuggente, e sulla cui stessa fine tanto gravida di effetti sappiamo pochissimo.
Al romanzo sovviene poi un percorso grafico di alta qualità e grande originalità di Alida Pintus, che sfugge – giustamente – le maniere stereotipe da cartolina sole/mare della Campania (dove la storia si ambienta, e che l’autore descrive con vivida efficacia in grazia delle sue radici e avventure di adolescente) per organizzare piuttosto una wunderkammer congrua alla situazione. Valorizzata da una veste grafica bellissima, a suggerire anche materialmente il diorama del titolo. Oggetto che per inciso è oggi quasi dimenticato ma vantava per la generazione di chi scrive (e quelle immediatamente precedenti e successive) motivi di inesausta fascinazione. Lo ricordate? Così l’Enciclopedia Treccani, alla voce “Diorama”:

Strumento inventato da L.J.-M. Daguerre e C.-M. Bouton nel 1822 per ottenere effetti tridimensionali nella rappresentazione di luoghi, persone e oggetti; è costituito da teloni trasparenti dipinti disposti verticalmente a diverse distanze e opportunamente illuminati da fonti di luce nascoste allo spettatore. Il termine è usato per estensione a indicare panorami, convenientemente colorati e illuminati, che, osservati con opportune lenti, diano impressioni di realtà, oppure panorami di cui siano esaltati con opportuni artifizi gli effetti prospettici. […] è chiamata d. anche la ricostruzione tridimensionale di paesaggi, habitat di animali, luoghi di lavoro ecc., realizzata con intenti didattici.

In effetti quelli che noi avevamo in mente erano diorami piccolini, cartone coccoina figure ritagliate e tenute sollevate con linguette di carta alla base – o inglobanti statuette plastiche di animali o soldatini. Spazi altri modicamente schiusi alle nostre fantasie pre-elettroniche, con un gioco tridimensionale di sfondi quasi da teatro. Ormai è materia per rari cultori, come Sofia, sorella di Alessandro e secondo fantasma della storia, la cui morte imminente – a distanza d’anni dai fatti narrati – ci è preannunciata abbastanza all’inizio. Per il resto, si tenterà qui di non spoilerare.
Bacoli, a un passo da Baia, Cuma e Miseno dagli echi antichi, un’estate di un quarto di secolo addietro: e la storia emerge come le antiche statue tritoniche coperte di alghe. Ad aprire le porte di quel diorama dolente è appunto Sofia, che recupera Teo – a sua volta, per lei, figura fantasmatica – in un tentativo ultimo di ricostruzione d’una forma della propria vita.
La situazione liminare del ragazzo Teo, goffo e timido, di classe sociale modesta ma di qualche cultura, idealmente a metà tra il Gruppuscolo degli amici di famiglie subalterne e la classe sociale elevata della famiglia Nobile (nomen omen) degli scintillanti Alessandro e Sofia, lo rende non solo perplessa interfaccia con gli opposti mondi, ma portatore di un’identità sociale problematica e di sogni/ambizioni nel segno dell’ingenuità. Possiamo stupirci che veda i fantasmi, i rimossi di un territorio e della sua storia? Che una sostanziale insoddisfazione connoti i suoi dialoghi con gli amici del Gruppuscolo, separati da prospettive totalmente diverse? Che verso Sofia, segnata dal lutto e incapace di dialoghi fluidi coi coetanei, sviluppi un rapporto strano e scostante di non-detti, di attrazioni reciproche non definite e non sbocciate, di entrata/uscita dal ruolo di bussola che la ragazzina è portata ad attribuirgli a rimpiazzo del fratello perduto? Che il mondo di Teo resti più quello dei libri che non delle persone, con il grande enigma – ennesimo non-detto sui cui Teo cercherà d’indagare – per cui il narratore Milo Zaniboni abbia smesso di scrivere i suoi amatissimi romanzi? Fino a scoprire che si tratta di Furio Nobile, opaco padre dei due ragazzi ammirati…
Nella casa-castello infestato dove vive la famiglia Nobile, Teo frequenta a lungo Sofia senza riuscire a capirla: ma qualcosa resta, se proprio lui verrà cercato da lei tanti anni dopo. Si può non concordare con la scheda editoriale quando afferma “Teo si rivelerà cinico ed egoista per ragioni tutte sue, Sofia disperata e oltre ogni salvezza”: Teo non è cinico né egoista, è solo molto giovane e confuso, e Sofia presenta le reazioni selvatiche di chi è alle prese con eventi troppo grandi. Il tutto in una latenza degli adulti – per limiti di formazione quelli di Teo, per ubbie e (stavolta sì) egoismi quelli di Sofia – che lascia i due giovanissimi disarmati. Impossibilitati a salvare chicchessia: impresa del resto impossibile persino per i “grandi”, come constatiamo fin troppo spesso con impotenza e dolore nei diorami delle nostre vite, tenuti in piedi come dalla colla su linguette di carta.