di Franco Pezzini
John Williams Brodie-Innes, L’amante del Diavolo, trad. dall’inglese di Bianca Ferri, nota di Adriano Ercolani, pp. 400, € 17, Venexia, Roma 2025.
La narrativa sulle streghe interessa spesso più per il fascino dei dati antropologici che per le qualità letterarie o la suggestioni di trama – i copioni tendono spesso a riproporsi senza grosse sorprese a base di cattivi inquisitori e confessioni febbricitanti, pathos romantici e melodrammi, orrende detenzioni e supplizi finali. Non è questo il caso, fortunatamente, di un romanzo di più di un secolo fa che rappresenta a suo modo un classico e riesce a inanellare colpi di scena e suggestioni inattese con un’abilità ancor oggi apprezzabile. Etichettare The Devil’s Mistress (1915) quale romanzo dell’orrore – come spesso viene indicato nel tamtam internet – suona improprio: certamente è un godibile romanzo gotico aperto al sovrannaturale, capace di temperare psicologie e dati culturali in un modo assai meno ovvio di quanto ci si potrebbe attendere.
Partiamo dall’autore, una figura interessante dell’alta marea occultistica tra Otto e Novecento. John William Brodie-Innes (1848-1923), avvocato e bibliofilo – è membro e poi presidente della Sette of Odde Volumes di Londra – nonché figlio di un amico personale di Charles Darwin, spicca tra gli esponenti di alto livello della leggendaria Golden Dawn, l’Ordine magico più celebre dell’Occidente moderno: resterà legato in particolare al tempio di Amen-Ra a Edimburgo, sua sezione scozzese fondata nel 1893, al tempo in cui l’Ordine andava alla grande.
La Golden Dawn esploderà malamente nel 1900, per una serie di concause tra cui spiccano lo sgomitare di un iniziato un po’ particolare, Aleister Crowley, e l’autoritarismo del Grande Capo Mathers, a quel punto resosi indigeribile ai confratelli della sede centrale londinese: il frantumarsi dell’esperienza tra gruppi diversi e l’abbandono della magia da parte di una porzione consistente di adepti – in direzione di una mistica cristiana paludata di estetismi medievaleggianti – segna la fine dell’epoca d’oro. Brodie-Innes, inizialmente coinvolto a tenere insieme i cocci dell’Ordine durante la ribellione, tornerà a rappacificarsi con Mathers; ma insieme si dedicherà alla scrittura sui temi che gli sono cari, e The Devil’s Mistress ne è l’esito più celebrato. Bello dunque che sia stato proposto in italiano.
L’autore è di origini scozzesi, e sulla vicenda – un caso molto particolare di stregoneria contestato nel 1662, che combina credenze demoniache e storie di fate e fa discutere gli antropologi ancor oggi – oltre a consultare documentazioni storiche sostiene di attingere ad autentici ricordi di famiglia.
Protagonista assoluta, simpatica e seducente della vicenda è Isabel Goudie – come l’autore riporta il nome, variamente trascritto (spesso Isobel Gowdie, qualche volta Gaudie – nella Scozia del tempo le donne non assumevano oltretutto il cognome del marito): una figura di cui storicamente sappiamo poco, a lasciar libera mano al narratore, ma che ha offerto una dettagliata testimonianza (in apparenza senza il ricorso a torture) sulle attività e la condizione personale di una strega. Le sue quattro confessioni rilasciate in sei settimane – e pubblicate per la prima volta nel 1833 – offriranno a quel punto ampio materiale non solo a Margaret Murray per le sue criticatissime tesi sul culto delle streghe, ma a letterati, drammaturghi, musicisti, ad attribuire a Isabel una statura paradigmatica che lei probabilmente mai avrebbe immaginato, neppure nelle sue più febbricitanti fantasie. Il tutto con le affascinanti promesse di una storia aperta, visto che a dispetto delle scelte narrative non siamo neppure certi che Isabel sia stata alla fine effettivamente giustiziata – il che pure resta probabile. Consideriamo il peso delle storie streghesche nella terra di Macbeth (qui lo sfondo è appunto quello delle Highland), dove da più di un secolo legislazione e attenzioni istituzionali – si citi solo il re demonologo Giacomo – sono particolarmente occhiute sul tema. E anche l’opposizione degli occupanti inglesi alle antiche storie dell’età papista gioca il suo ruolo.
Il contesto è drammatico. Crisi agricola da cattivo tempo tra 1649 e 1653; crisi delle agenzie istituzionali con esecuzione di Carlo I nel 1649, quando dilaga una nuova ondata di caccia alle streghe; nuovo scossone con Carlo II dichiarato re di Scozia nel 1660; Grande Caccia alle streghe scozzesi del 1661-62, ultima ma più virulenta ondata di persecuzioni nel paese. Se da altri punti di vista l’attenuarsi del rigore puritano con la Restaurazione apre in Gran Bretagna a splendori e licenze, non è questo che accade in Scozia. E appunto nel 1662 ecco la vicenda di Isabel.
Che la donna soffra di ergotismo (con allucinazioni tipicamente associate a fantasie streghesche) o che la sua immaginazione strabordi fino a esiti che lasciano perplessi – e conducono piuttosto all’orizzonte ellittico e sfuggente di storie notturne alla Ginzburg, fitte di miti sepolti e memorie rimosse – resta la sensazione di un’affabulatrice dalla visionarietà rutilante, ancorché illetterata. Brodie-Innes sovviene creativamente ai dubbi, ma con scelte intelligenti che lasciano una certa libertà all’immaginazione dei lettori. Con un passo sornione qui e là evidente (come a suggerire al lettore di interpretare correttamente i dati al di là del loro tenore letterale), fa dunque di Isabel “la figlia di un avvocato di campagna […] straordinariamente ben educata per la sua classe sociale”, di famiglia in origine cattolica e rimasta “fedele ad alcuni dei loro vecchi rituali”: una donna di bell’aspetto frustrata dal matrimonio con uno zotico e taccagno bacchettone – impalmato per pendenze economiche del padre di lei –, socialmente isolata e disperatamente bisognosa di reinventarsi l’esistenza. Fino a farle considerare attraente il corrispettivo seicentesco dell’ultimo incontro sui social. Che in effetti le spalanca un mondo…
Questa parte è forse la più bella del romanzo: la pressione psicologica e ambientale su una donna ancora giovane deprivata di ogni tipo di sogno permette di intercettare le lusinghe da lei ravvisate, le speranze legate a un incontro sulla strada, i piccoli passi per riempire di possibilità gesti in fondo banali. Incontra il diavolo? probabilmente sì (lei stessa resta a lungo dubbiosa), ma potrebbe essere chiunque, un tipo gentile in grado di farla fantasticare a prezzo contenuto, di farla sentire non solo amata ma prediletta, di donarle eccitazione ed estasi, di farla mangiare bere amoreggiare e sognare vendetta contro chi l’ha umiliata… Di farcire magari di materiali fantasmagorici il suo delirio ergotico e proiettare sui resti di un cattolicesimo della sua infanzia inaudite latitudini magiche. Di lì le scorribande – indubbiamente sciamaniche – con l’allegra compagnia del diavolo; di lì la crisi, per lei in fondo non cattiva, che la conduce a usare magie diaboliche per salvare vite e amori altrui. Resta persino, per un periodo, ospite delle fate… e non si dice di più per non spoilerare troppo. Merita solo notare che la fine di lei, appena accennata tra le righe ma non vi assistiamo, sembra in fondo l’ultima tentata evasione da un asfittico orizzonte sociale: a concedere a Isabel Goudie, almeno in conclusione, di smarcarsi da un mondo di uomini (non importa, alla fine, quanto buoni) che hanno fatto di tutto, sempre, per chiuderla in qualche gabbia.