di Fabio Ciabatti

Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, pp. 320, € 20,00.

Sentimento di impotenza di fronte alla tragedia, senso di “colpa metafisica” per non aver fatto tutto il possibile per evitare l’abisso, sensazioni di vertigine, di caos e di vuoto. Il libro Il mondo dopo Gaza ci descrive queste angoscianti emozioni del suo autore, lo scrittore e saggista indiano Pankaj Mishra, di fronte al terrificante destino riservato ai palestinesi. Reazioni più che giustificate se è vero che la posta in gioco, politica ed etica, non è mai stata così alta come quella che ci propongono le vicende della martoriata Striscia di terra tra Israele e Egitto: le atrocità commesse a Gaza, approvate senza vergogna dall’élite politica e mediatica del cosiddetto mondo libero e sfacciatamente rivendicate dagli israeliani, non si limitano a minare la nostra fiducia nel progresso, ma mettono in discussione la nostra stessa concezione della natura umana, soprattutto l’idea che essa sia capace di empatia.

L’antisemitismo, oramai lo sappiamo, è stato cinicamente trasformato nella foglia di fico dietro cui si nasconde la ferocia di un genocidio trasmesso in diretta. Ma “La narrazione secondo cui la Shoah conferisce legittimità morale illimitata a Israele non è mai apparsa più debole”.1 Infatti “molta più gente, dentro l’Occidente e fuori, ha iniziato ad abbracciare una contronarrazione secondo cui la memoria della Shoah è stata pervertita per consentire degli omicidi di massa, mentre al tempo stesso si oscurava una storia più ampia di moderna violenza occidentale al di fuori dell’Occidente”.2
Come è possibile che tanta atrocità abbia un appoggio internazionale così ampio, nonostante il comportamento israeliano neghi alla radice qualsiasi forma di autorappresentazione della civiltà occidentale? Certamente ci sono fondamentali ragioni di natura geopolitica. Ma c’è anche qualcosa di più che ha a che fare con il fatto che il cosiddetto mondo sviluppato si rispecchia in qualche modo nello stato sionista.

Tra i movimenti maggioritari c’è un forte senso di identificazione con uno stato etnonazionale che scatena la sua forza letale senza alcun vincolo. Questo spiega, molto meglio di qualsiasi calcolo di interesse geopolitico ed economico, la sorprendente complicità di molti occidentali in quella che è una trasgressione morale assoluta, vale a dire un genocidio3

Tutto ciò ha a che fare con il ritorno del suprematismo bianco nel cuore dell’Occidente che, a differenza del passato, non è la baldanzosa ideologia di una civiltà che si impadronisce del resto del mondo, ma l’espressione delle paure di quella stessa civiltà che oggi si percepisce sotto assedio.

Il 7 ottobre 2023 il suo feroce atteggiamento difensivo si è infiammato, quando Hamas ha distrutto, in modo definitivo, l’aura di invulnerabilità di Israele. Quest’assalto a sorpresa da parte di persone che si presumeva fossero state schiacciate rappresenta, per molte maggioranze bianche turbate e inorridite, la seconda Pearl Harbor del Ventunesimo secolo, dopo l’11 settembre. E, come è già successo, la percezione diffusa che il potere bianco sia stato pubblicamente violato, ha ‘scatenato’, secondo le parole di John Dower, ‘una rabbia che rasenta la furia genocida’4.

Insomma Israele è assurta al ruolo di avamposto ideologico di un mondo sviluppato che si sente asserragliato nelle cittadelle del suo benessere ed è pronto a respingere con la più feroce violenza i barbari invasori. Non è un caso che “La vecchia linea del colore separa oggi chi tra gli ex colonizzati è istintivamente solidale con i palestinesi dalle classi dominanti dei vecchi domini […], che difendono Israele”.5 Già nel 1972 lo storico israeliano Jacob Talmon, citato da  Mishra, aveva scritto che era difficile aspettarsi “che lo straordinario successo del piccolo Stato di Israele nella sua lotta per l’esistenza contro milioni di persone che lo assediano non ricordi loro il successo dei conquistatori bianchi nel loro tentativo di dominare le razze di colore”.6 Non è un caso l’opera inaugurale degli studi post-coloniali, Orientalismo, sia stata scritta da un palestinese, Edward Said. 

Oggi, la risonanza mondiale dell’accusa a Israele di genocidio davanti alla Corte dell’Aia da parte del Sud Africa, attesta la diffusione di un’indignata consapevolezza di massa sull’interconnessione tra i destini dei miserabili della terra. Come risponde l’Occidente a questa nuova consapevolezza? Solo per citare alcuni esempi riportati da Mishra, sull’Atlantic, una delle più antiche e prestigiose riviste degli Stati Uniti, mentre esplodono le proteste pro-palestinesi nei campus universitari, si afferma che la decolonizzazione è una “teoria tossica e disumana” che sta corrompendo le giovani menti al pari della teoria critica della razza, null’altro che un mix di marxismo, propaganda sovietica e antisemitismo. Dal canto suo Elon Musk vuole vietare la parola decolonizzazione che, secondo il suo illuminato parere, è generata dal “virus della mentalità woke” e comporta “necessariamente” un genocidio.
In questo scontro ideologico assistiamo a “Un’identità ebraica fondata sulla memoria di essere state vittime [che …] è aggressivamente sfidata da altre identità costruite in modo simile”.7 Dalla memoria dei popoli colonizzati. Se in un recente passato sembrava possibile costruire una società civile globale attorno alla ridefinizione della Shoah come l’atrocità suprema e dell’antisemitismo come la forma più odiosa di intolleranza, oggi altri gruppi avanzano rivendicazioni analoghe e, denunciando genocidi, schiavitù e imperialismo razzista, chiedono riconoscimenti e risarcimenti. E tutto questo si inscrive in un processo storico di respiro ancora più ampio.

Se gli occidentali bianchi hanno affermato di aver creato il mondo moderno, oggi molte più persone si riconoscono in una narrazione della decolonizzazione altrettanto avvincente, in cui i bianchi hanno soggiogato e denigrato gran parte della popolazione mondiale e ora devono rinunciare alle loro crudeli prerogative8.

Detto altrimenti l’evento più importante del secolo scorso per una parte consistente dell’umanità non è stata la prima o la seconda guerra mondiale e neanche la Shoah, ma la decolonizzazione: non si è trattato soltanto di “un processo di liberazione per la maggioranza non bianca del mondo” ma anche di “una promessa seducente e perpetuamente rinnovabile di uguaglianza”.9 Tutto bene dunque? Abbiamo trovato il villain della storia, il suprematismo bianco e il suo campione israeliano, nonché l’eroe che sconfiggerà il male, i popoli del Sud globale in viaggio verso la definitiva decolonizzazione?
Non proprio, sottolinea l’autore, perché autocrati come il premier indiano Modi e il presidente turco Erdoğan incarnano il tradimento delle promesse della decolonizzazione e il decadimento morale e politico di molti stati postcoloniali. 

I nazionalisti indù e gli islamisti turchi usano spudoratamente narrazioni di vittimizzazione ereditaria per fa passare come emancipatrici politiche autoritarie ed escludenti e per forgiare una nuova identità nazionale ipermaschile dai loro racconti di umiliazione, impotenza e insicurezza10

Modi ha addirittura lanciato una politica commemorativa che imita da vicino quella di Israele: il giorno della memoria indiano celebra le sofferenze degli indù durante la partizione dell’ex colonia britannica che nel 1947 ha stabilito la creazione del Pakistan a maggioranza musulmana. Le nuove identità derivanti dalla vittimizzazione ereditaria rivendicano un’innocenza storica simile a quella degli ebrei, escludendo vaste aree dell’esperienza individuale e collettiva e creando uno stallo politico apparentemente insolubile.  

È ormai evidente che il pregiudizio etnico-razziale costituisce una forza politica permanente della modernità, potente e mutevole. Inseparabile sia dal nazionalismo sia dal capitalismo, fiorisce su entrambi i lati della vecchia linea del colore e divora continuamente nuove vittime: ieri ebrei europei, asiatici e africani, oggi musulmani e immigrati11.

Non basta essere stati delle vittime per stare dalla parte giusta della storia. E questo vale sia per gli israeliani sia per i popoli del Sud globale. Oggi sappiamo che “la sofferenza, lontana nel tempo e nello spazio, si trasforma in uno spettacolo competitivo”.12 Se questo è vero,  dobbiamo forse cambiare prospettiva, sostiene l’autore. Solo se partiamo dall’intuizione “di una sofferenza indivisibile, possiamo iniziare a cercare modi per conciliare le narrazioni contrastanti della Shoah, della schiavitù e del colonialismo”.13 Non è stato forse il palestinese Edward Said a definirsi “l’ultimo intellettuale ebreo”, in quanto portavoce di un popolo perseguitato che sostiene le virtù della solidarietà e della fratellanza?  Per resistere alla barbarie che avanza, Pankaj Mishra fa appello a un’etica della solidarietà tra gli esseri umani che non “finisce con la linea di colore”. Solo una “memoria multidirezionale”, secondo l’espressione coniata da Michael Rothberg, può avere la capacità di unire storie separate e di scoprire una versione più ampia di solidarietà umana che vada al di là delle comunità etnico-raziali.
Lo scrittore indiano non è certo ottimista. Ritiene molto probabile che Israele riesca a portare a termine la pulizia etnica a Gaza e anche in Cisgiordania. Pensa però che i crimini israeliani e i numerosi atti di complicità che li hanno resi possibili abbiano avuto un impatto più profondo tra i giovani nella tarda adolescenza e nei ventenni, molti dei quali, ebrei compresi, si sono mobilitati a loro rischio e pericolo. Anche se la loro sconfitta appare probabile, le loro manifestazioni e i loro atti di resistenza “potrebbero avere in qualche modo alleviato la grande solitudine del popolo palestinese. E possono offrire una speranza per il mondo dopo Gaza”.

Personalmente, sono ben lontano dal minimizzare questo livello etico-morale della resistenza. Ma temo che difficilmente potrà bastare. A cos’altro appellarsi? Qualche indizio lo troviamo nello stesso testo di Mishra. Per esempio quando afferma che “In un mondo in cui flussi economici indisciplinati compromettono la sovranità nazionale, le vecchie fantasie di purificazione culturale e di unità etnico-razziale sono diventate più forti”.14 Oppure quando rileva che India e Israele hanno avuto traiettoria storica molto simile essendo passati da un regime secolare e di ispirazione socialista a uno di natura religiosa e millenarista praticamente in contemporanea. Per quello che qui ci interessa, questo passaggio è stato favorito dal rifiuto degli ideali di una crescita inclusiva ed egualitaria in favore delle idee reaganiane-thatcheriane di privatizzazione, liberalizzazione e decimazione dello stato sociale. L’enorme crescita della diseguaglianza economica ha contribuito a creare nuovi panorami elettorali in cui si sono facilmente inseriti demagoghi ultranazionalisti che hanno riversato la frustrazione sociale su nemici esterni ed interni. Senza considerare queste dinamiche socio-economiche diventa difficile comprendere i processi politico-ideologici che Mishra descrive, compresi quelli che accomunano India e Israele.

I dalit indiani, probabilmente il più numeroso tra i gruppi storicamente vittime di persecuzioni, si erano uniti ai loro aguzzini di casta superiore nell’uccidere e stuprare i musulmani durante il pogrom coordinato nel 2002 da Narendra Modi nello stato del Gujarat. Gli ebrei di origine mediorientale, un tempo soggetti ad abusi razziali e discriminazioni da parte della classe dirigente israeliana di origine europea, ora dettavano i termini dell’umiliazione ai palestinesi15.

Insomma, in passato si è pensato, in modo troppo schematico, che bastasse la guida della classe operaia per cementare l’unione tra i popoli e le classi oppresse di tutto il mondo. Anche se oggi possiamo considerare simili idee troppo semplicistiche, rimane il fatto che la solidarietà di classe, la concreta complicità tra gli esseri umani in quanto proletari e sfruttati e non solo in qualità di vittime, è ancora necessaria per dare gambe materiali a una nuova fratellanza umana. Più facile a dirsi che a farsi, certo. Comunque da farsi, ora più che mai. 


  1. P. Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano 2025, p. 187, edizione kindle. 

  2. Ivi, p. 188. 

  3. Ivi, p. 155. 

  4. Ivi, p. 211. 

  5. Ivi, p. 174. 

  6. Ivi, p. 177. 

  7. Ivi, p. 189. 

  8. Ivi, p. 178. 

  9. Ivi, p. 176. 

  10. Ivi, p. 197. 

  11. Ivi, p. 211. 

  12. Ivi, p. 197. 

  13. Ivi, p. 220. 

  14. Ivi, p. 210. 

  15. Ivi, p. 70.