di Marco Pittaluga
Michel Nieva, Ciencia ficción capitalista. Cómo los multimillonarios nos salvarán del fin del mundo, Barcelona: Anagrama, 2024
In Ciencia ficción capitalista, lo scrittore argentino Michel Nieva legge lo stato presente del capitale attraverso la lente del rapporto fra fantascienza e capitalismo. È una scelta di metodo che appare al passo coi tempi. Oggi le pratiche imprenditoriali, i rapporti con i dipendenti, gli stili di vita e le dichiarazioni pubbliche dei capitalisti di punta, per semplificare al massimo l’élite che controlla le aziende della Silicon Valley, parlano di una fase nuova nella storia del capitale. Stiamo attraversando una di quelle turbolenze di solito spiegate col fatto che là fuori sta avvenendo un cambio di paradigma. Tratto decisivo di questo passaggio è l’individualismo assoluto del capitalista, che è appunto assolto da qualsiasi vincolo, nei confronti della comunità dei propri simili, che possa limitarne le scelte in materia di impresa, investimenti e vita. “È proprio quando opero in regime di totale irresponsabilità”, dice il plurimiliardario tipico del XXI secolo, “che faccio l’interesse dell’umanità (del quale, sia chiaro, non mi importa nulla). Se accettassi di limitarmi, soprattutto concettualmente, pensando cioè che esista un interesse sociale in linea di principio superiore al mio, non farei affatto un favore alla mia specie, tutt’altro. Agendo in questo modo priverei infatti gli umani dell’infinita capacità di innovazione che possiede un individuo come me quand’è dedito, con successo, al proprio arricchimento. Tale abilità innovativa si traduce in una ricaduta, nei termini di maggior invenzione e produzione, di cui beneficiano tutti, anche se ovviamente, e giustamente, in misura infinitamente minore della mia”.
Si potrebbe sostenere che è sempre stato così da quando esiste il capitalismo. Ma la novità del nostro tempo è che la rivendicazione da parte del capitalista della propria totale libertà in nome della sacralità del proprio egoismo si accompagna all’esplicito abbandono della democrazia. Quando Peter Thiel, il padrone di PayPal, dichiara, nel 2009, di non credere più che libertà e democrazia siano compatibili, compie una mossa decisiva1. È una svolta in grado di cambiare quel particolare rapporto fra capitale e Stato che sin dalla Grande Depressione degli anni Trenta e dalla sconfitta del nazi-fascismo nel 1945 caratterizza la vita sociale in Europa occidentale e Nord America. Qui non avrebbe torto chi dicesse che anche a Gianni Agnelli, tanto per citare un capitalista di un certo nome, della democrazia non importava assolutamente nulla. Però non lo diceva, anzi non lo poteva dire. Che non è un punto da poco. Come è misura dell’abisso in cui siamo caduti il fatto che oggi Thiel lo possa dire.
L’opzione antidemocratica adottata dal tecnocapitalismo della Silicon Valley costituisce la fase suprema dell’Ideologia Californiana, nata durante gli anni Sessanta lungo la costa Ovest degli Stati Uniti e oggi capace di coniugare valori e mentalità hippie con i loro omologhi yuppie. È un approccio al mondo basato su due principi: da una parte il rifiuto dell’autorità statale, responsabile, un tempo, delle cartoline precetto che mandavano i loro destinatari in Vietnam e oggi di un’insensata tassazione della ricchezza, e dall’altra la visione della tecnologia come utopia libertaria ed ecologista. Questo a dispetto sia del devastante impatto ambientale esercitato da molte delle tecnologie in voga nella Silicon Valley sia del lavoro supersfruttato che le rende possibili.
In questo contesto, per continuare a immaginarsi un futuro, il tecnocapitalismo si appropria della fantascienza. Qui siamo a un punto chiave dell’analisi di Nieva, perché il tipo di capitalista descritto sopra, quello alla Thiel, non può vivere nel presente. L’anarco-miliardario deve, al contrario, proiettarsi in continuazione nel futuro, perché è un visionario. L’insaziabile fame di ricchezza che lo tormenta lo costringe a immaginarsi sempre nuovi modi di guadagnar denaro, così da muoversi anni luce davanti al resto degli umani, quelli che si accontentano di quel che passa il convento. Così, mentre Mark Zuckerberg, insoddisfatto della realtà in cui vive la sua specie, lancia se stesso e le sue aziende in una realtà virtuale, il Metaverso, Elon Musk si prepara a colonizzare Marte. Jeff Bezos, infine, vuole rendere possibile l’immortalità; investe così in Unity Biotechnology, un laboratorio della ricerca contro l’invecchiamento cellulare. I tecnocapitalisti propongono il futuro come soluzione delle crisi del presente, con mossa tipica di chi scrive fantascienza. Ma si tratta di un genere del tutto nuovo, la fantascienza capitalista, basata sull’aporia che le crisi provocate dal capitalismo possano essere risolte solo attraverso più capitalismo. Esempio di questa fallacia è l’idea che il capitalismo possa utilizzare nella colonizzazione di altri pianeti le stesse tecnologie che hanno distrutto il nostro.
Nieva vede nel racconto fantascientifico narrato nella Silicon Valley l’ultima fase di una corrente della fantascienza iniziata con un articolo di Jules Verne, “La fin des guerres navales” (1903). In quel saggio, l’autore di De la Terre à la Lune (1865) sostiene che la fantascienza “scrive su carta quel che poi altri scolpiranno nell’acciaio” (18)2. La fantascienza capitalista compie un salto di qualità rispetto alla “hard science fiction” che si sviluppa negli anni fra il 1930 e il 1970, che specula “sul progresso tecnico-scientifico con la maggior verosimiglianza possibile nel quadro delle conoscenze esistenti” (p. 21). Il primo a tematizzare questo sottogenere della fantascienza è Hugo Gernsback quando, nel settembre del 1928, conia il termine scientifiction sulla sua rivista Amazing Stories, fantascienza che mette l’enfasi sui fatti scientifici3.
Si tratta di una fantascienza profetica, praticata da scrittori che posseggono un retroterra scientifico: Isaac Asimov (chimico), Arthur C. Clarke (fisico e matematico), James Blish (microbiologo), Rober A. Heinlein (ingegnere aeronautico) e Larry Niven (matematico). A questi dati si aggiungono le collaborazioni di Heinlein e Clarke con l’industria aerospaziale. All’inizio del terzo millennio, alcuni imprenditori di punta, Richard Branson (Virgin Galactic), Jeff Bezos (Blue Origin) e Elon Musk (Space X), entrano nel settore aerospaziale: “in un contesto marcato dalla minaccia urgente portata dal cambio climatico, camuffarono il verde dollaro della loro avidità speculativa con eroici progetti ambientalisti per salvare l’umanità portandola su altri pianeti” (p. 29). Nel 2001 nasce Space Adventures, che da allora invia turisti alla stazione spaziale. Negli anni successivi si aggiungono Virgin Galactic, Blue Origin, SpaceX, OrionSpan, United Launch Alliance, Aerojet Rocketdyne, Northrop Grumman, Maxar, Rocket Lab. Il luogo del commercio fra fantascienza e imprenditoria, a cominciare dal racconto che i milionari fanno di se stessi come raffinati lettori del genere, è naturalmente Silicon Valley. Così Nieva si chiede se la fantascienza non rappresenti la fase superiore del capitalismo e se i casi appena citati non siano esempi di una nuovissima tecnica di copiatura e riscrittura, “quella del lettore-imprenditore che trasferisce le infinite possibilità speculative della finzione letteraria alla speculazione finanziaria nel settore economico” (p. 33).
Tutti gli eroi della fantascienza capitalista sono dei ricconi con soluzioni eroiche ai problemi del mondo, bianchi, maschi, gringos, più Musk che si fa passare per afroamericano perché nato in Sud Africa4. Nel racconto fantascientifico del capitalismo, il maschio bianco imprenditore salva il mondo perché i problemi politici ed economici del pianeta sono in realtà insufficienze tecnologiche che soltanto il virile valore degli dei della Silicon Valley può risolvere. Se la tecnologia e il capitalismo sono responsabili del disastro ambientale, solo più capitalismo e più tecnologia troveranno la soluzione. Questo approccio ha un nome, “ecopragmatismo”, un ecologismo che mantiene rapporti amichevoli col ceto imprenditoriale. Mentre l’ambientalismo tradizionale genera soltanto più regolamenti statali e più pastoie burocratiche, la soluzione ecopragmatica dà vita a un “capitalismo verde ed efficiente”, senza limiti: energia nucleare, cibo transgenico, auto elettriche. Al vertice dell’ecopragmatismo si colloca la “geoingegneria solare”, ovvero l’approccio militaresco alla crisi climatica: “bombardare la stratosfera con enormi nubi di gas che, come una cappa atmosferica artificiale, proteggerebbero la Terra dalle radiazioni del Sole e ridurrebbero l’impatto del riscaldamento globale” (p. 40).
Una volta chiarito come il capitalismo fantascientifico sia la scorciatoia per complicarci terribilmente la vita sul pianeta, il passaggio chiave per immaginare una soluzione del presente disastro ambientale viene dall’osservare l’omologia fra la conquista dello spazio e la colonizzazione delle Americhe nei quattro secoli che seguono il 1492. Nelle dichiarazioni dei miliardari impegnati nella nuova corsa allo spazio, appaiono di frequente parole come “conquista” e “colonizzazione”, le stesse usate, dal viaggio di Colombo in poi, per descrivere le operazioni degli europei sul continente americano. Se le cose stanno così, solo i popoli indigeni della Terra, quelli che conoscono per esperienza il vero significato di “colonizzazione”, riusciranno a spiegarci cosa davvero hanno in testa i padroni di Silicon Valley quando discorrono dello spazio. Le uniche esperienze che possono essere avvicinate alla presente crisi socioambientale sono infatti quelle dei popoli colonizzati, per oltre quattro secoli decimati dalle malattie e dalla crudeltà europea: soltanto le comunità indigene sopravvissute al colonialismo possiedono un sapere in grado di immaginare modi nuovi di abitare un pianeta altrimenti posto davanti a una fine irreversibile. Quelle comunità ci diranno che dobbiamo passare dal territorio come fonte di merci morte al territorio come essere vivente. In altri termini, è necessario abbandonare l’idea che il territorio si possa sempre sostituire con un altro, fino al punto di mettere Marte al posto della Terra, per assumere quella che il territorio sia unico. Se la fantascienza capitalista è parte di una lunga storia – dalla distruzione delle popolazioni indigene nelle Americhe fino alla colonizzazione di nuovi pianeti – allora solo la decolonizzazione e il divenire indigeni, e non la ripetizione delle violenze originarie, come ci propongono i miliardari di Silicon Valley, ci possono salvare. Non a caso, a scrivere così, è uno scrittore cresciuto nel paese, l’Argentina, dove la fantascienza ha prodotto un grande racconto di una colonizzazione mortifera, l’Eternauta di Héctor German Oesterheld e Francisco Solano Lopez (1957-59), storia a fumetti della calata degli alieni a Buenos Aires.
Le varie meraviglie tecno-scientifiche che i tecnocapitalisti ci sciorinano davanti non illuminano il futuro, ma il passato. Si incamminano verso una fessura temporale dove i razzi di SpaceX con destinazione Marte “arrugginiscono nella polvere degli archibugi spagnoli”. È tutto un ammasso di ferraglia che si tinge del sangue della mattanza indigena, “in una violenza senza tempo che per non essere mai stata riparata si ripete con il ritmo di una catastrofe che non smette mai di ricominciare” (p. 65). Sembrerebbe, argomenta Nieva, che solo “il divenire indigeni” e “l’appartenere invece del possedere” costituiscano l’unica politica di respiro cosmico che “se obbedita salverà l’umanità dal crollo del cielo” (p. 65). In questo contesto la fantascienza acquista una centralità prima imprevista: si trova di fronte a un bivio. O la celebrazione idiota e il collaborazionismo tipico dei prodotti narrativi del capitalismo da una parte, o la politicizzazione tecnologica dell’arte, la critica politica della tecnologia posta al servizio dell’estrattivismo capitalista dall’altra. “Ma se la fantascienza capitalista […] ha sempre favorito la collaborazione di scrittori nordamericani, […] “la politicizzazione tecnologica prepara molto meglio chi scrive fantascienza a partire dell’esperienza del Sud, per la maniera in cui lì, storicamente, la tecnologia ha facilitato il saccheggio delle risorse, la repressione e il massacro” (p. 71).
L’epilogo di Ciencia ficción capitalista rappresenta un esempio di scrittura operante dentro un quadro di politicizzazione tecnologica. Mentre stavo scrivendo il saggio, scrive Nieva, mi arriva la lettera di un professore nordamericano che mi chiede di scrivere un racconto di fantascienza. Insieme ad altri oggetti d’arte, scelti fra i prodotti di letteratura, musica, arti plastiche e audiovisive, avrebbe formato una selezione della creatività umana da inviare sulla Luna con un razzo, alla fine del 2024. Dopo settimane di riflessione Nieva decide di rispondere affermativamente alla richiesta e inizia a scrivere “Criptolombrices”. Nel racconto, ambientato nel secolo XXVI, la terra è inabitabile e i multimilionari, compreso Musk che ha sconfitto la mortalità, vivono su Marte. Sul pianeta rosso c’è un inquinamento pazzesco, prodotto dagli umani per creare un effetto serra capace di riscaldare l’atmosfera. La vita consiste nel bruciare le maggiori quantità di carbonio possibili e nel mangiar la carne prodotta da enormi allevamenti di animali, necessari per la loro capacità di rilasciare grandi quantità di peti che contribuiscono al riscaldamento globale. Si ripete l’economia che ha distrutto la Terra, ma questa volta in maniera virtuosa: inquinare protegge la vita. Ma l’innalzamento della temperatura risveglia i “criptolombrichi”, una specie congelata da millenni, un parassita intestinale che migra fino a Muskonia e provoca la prima pandemia marziana.
L’epidemia distrugge la colonia umana su Marte: i pochi sopravvissuti, Musk compreso, si rifugiano in una stazione spaziale. Ma il fatto inesplicabile è che i vermi espulsi, con atroci dolori, dal ventre degli ammalati si distribuiscono ogni volta in gruppi di quattordici lombrichi, ordinati sempre in base alla stessa sequenza:
Dopo un lungo lavoro di interpretazione, la direttrice della commissione creata per spiegare la sequenza dei quattordici lombrichi, rende pubblico il messaggio finalmente decifrato: “FUCK YOU ELON MUSK”. “Magari lo mandassero sulla Luna!” è la battuta che conclude sia il racconto sia il libro.
Quinn Slobodian. Crack-Up Capitalism: Market Radicals and the Dream of a World Without Democracy. New York: Holt, 2023. 1-2. ↩
La responsabilità delle traduzioni da Ciencia ficción capitalista è mia. ↩
Dall’editoriale di Hugo Gernsback intitolato “Science Fiction vs. Science Faction” in Wonder Stories Quarterly, vol. 2, n.º 1, 1930, p. 5:
Non c’è dubbio che in futuro la fantascienza sarà guardata con grande rispetto da ogni persona ragionevole. Il motivo è che la fantascienza ha già contribuito non poco al progresso e alla civiltà e lo farà sempre di più con il trascorrere del tempo.
Tutto è iniziato con Jules Verne e il suo Nautilus, che è stato il precursore di tutti i moderni sottomarini. La brillante immaginazione di Jules Verne ha senza dubbio contribuito in modo determinante a stimolare gli inventori e i costruttori di sottomarini. Ma naturalmente Jules Verne era un’eccezione in quanto sapeva usare i fatti scientifici e combinarli con la fantasia.
Nei prossimi anni, inoltre, i nostri autori opereranno una netta distinzione tra la science fiction e la science faction, se posso usare questo termine.
La distinzione dovrebbe essere abbastanza ovvia. Nella fantascienza l’autore può dare libero sfogo alla sua immaginazione e, purché non trasformi la storia in una favola scontata, rimarrà comunque nei limiti della pura fantascienza. La fantascienza può essere profetica, nel senso che gli avvenimenti immaginati dall’autore potrebbero avverarsi tra qualche tempo, anche se questo “qualche tempo” potrebbe significare tra centomila anni. Poi, naturalmente, si deve tenere conto che si possono applicare diversi gradi di fantasie nella fantascienza stessa. Si può spaziare tra previsioni probabili, possibili e quasi impossibili.
In netta controtendenza rispetto alla fantascienza, c’è la science faction. Con questo termine intendo la fantascienza in cui sono presenti così tanti elementi scientifici che la storia, per quanto riguarda la parte scientifica, non è più una fiction ma diventa più o meno un rendiconto reale.
Per esempio, se qualche anno fa si parlava di velivoli con motori a razzo, queste macchine sarebbero state ovviamente classificate come fantascienza. Oggi questi velivoli rientrano propriamente nella fantascienza, perché la propulsione a razzo è ormai a uno stadio molto avanzato. Sebbene questa tecnica di propulsione sia oggi ancora in fase sperimentale, come era stato per il prototipo dei fratelli Wright per l’aeroplano, i ricercatori che hanno lavorato con la propulsione a razzo sono stati sufficientemente incoraggiati da permetterci di prevedere con sufficiente sicurezza che nei prossimi venticinque anni il volo con questi tipi di propulsori diventerà all’ordine del giorno.
Qual è la storia migliore, quella che tratta di pura fantascienza o quella che si occupa di scienza? È difficile dirlo. Dipende, ovviamente, interamente dalla storia, dal suo trattamento e dall’ingegno dell’autore.
Naturalmente, l’uomo di scienza, il ricercatore e persino l’uomo d’affari più ostinato guarderanno con più favore alla fantascienza, perché qui otterrà informazioni preziose che possono essere di utilità immediata; mentre le informazioni contenute nella fantascienza più diffusa possono forse essere troppo in anticipo sui tempi e spesso possono essere ritenute troppo fantastiche per essere di utilità immediata per l’umanità. Quindi, tra la fantascienza e la science faction ci sarà sempre un grande divario, e ognuna avrà migliaia e forse milioni di appassionati.In Argentina, gringo si dice dello straniero bianco, inizialmente di lingua inglese, poi in particolare italiana, a causa del prevalere dell’immigrazione dall’Italia nella regione rioplatense, specialmente negli anni fra il 1880 e il 1930. In Ciencia ficción capitalista il termine è usato nel primo senso, così da indicare sia cittadini statunitensi–per quali esiste l’alternativa, più comune in Argentina, di yanqui – sia britannici come Branson. ↩