di Fabio Ciabatti

Henri Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, pp. 208,  € 20,00

Marx e Nietzsche uniti nella lotta contro Hegel? Dai, non esageriamo. Piuttosto i primi due possono marciare divisi per colpire uniti il terzo, almeno secondo quanto scrive Henri Lefebvre in Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre. Questo libro, pubblicato nel 1975 e per la prima volta tradotto in Italia dopo cinquant’anni, nasce dall’idea del suo autore di un “doppio sfondamento: attraverso la politica e la critica della politica per superarla in quanto tale, attraverso la poesia, l’eros, il simbolo e l’immaginario”. Uno sfondamento nei confronti dello stato di cose presenti condensato nella filosofia dello Stato di Hegel. Siamo negli anni Settanta del secolo scorso e la riscoperta di Nietzsche da parte del pensiero radicale di sinistra fa parte, potremmo dire, di un certo spirito del tempo. Basti ricordare autori come Deleuze, Guattari o Foucault. L’approccio di Lefebvre ha però una sua originalità: rileva punti di contatto e profondi discordanze tra Marx e Nietzsche senza tentare alcun tipo di sintesi. Si limita a invocare un pensiero che sappia farsi multidimensionale. 

Secondo Lefebvre, Hegel pone al centro della sua riflessione la rivoluzione, quella francese, e annuncia la sua definitiva cristallizzazione nello stato nazionale. Stato costituzionale e certamente non reazionario, ma, al tempo stesso, più borghese che democratico. Nello Stato, vera incarnazione dell’Idea, si perfeziona la fusione tra sapere e potere. Anche le sue capacità repressive e belliche rivelano un fondamento razionale e per questo legittimo. Questa fusione può avvenire perché la classe media porta la cultura alla coscienza dello Stato. È infatti la questa classe, luogo di elezione della cultura, che costituisce la sua base sociale in quanto bacino di reclutamento della burocrazia. L’unione di sapere e potere consente allo Stato di preservarsi come totalità coerente pur contenendo momenti contraddittori. Gli consente di inglobare e subordinare la società civile, di cementare il corpo sociale che senza di esso cadrebbe a pezzi. Lo Stato, dunque, si afferma come un automatismo perfetto, come modello di un sistema che si autoregola. Con lo Stato il tempo finisce e il suo risultato si diffonde e si attualizza nello spazio.

La rottura di Marx con Hegel, prosegue Lefebvre, è in primo luogo di natura politica: egli rompe con l’apologia hegeliana dello Stato, in modo sempre più netto dalle prime alle ultime sue opere. Questa porta con sé una rottura filosofica (dall’idealismo al materialismo) e una epistemologica (dall’ideologia alla scienza). Marx voleva stabilire razionalmente la fiducia nel possibile. Voleva riunire la scienza basata sul passato e l’apertura sul futuro, in contrapposizione alla coincidenza tra reale e possibile che la teoria hegeliana dello Stato voleva già realizzata. Lo Stato, così, da struttura portante della società diventa sovrastruttura che poggia sui rapporti sociali di produzione e che, con il modificarsi di questi ultimi, è destinato a modificarsi a sua volta e infine a crollare. La filosofia, dunque, non può realizzarsi nello stato hegeliano, ma solo nella classe operaia che, facendosi soggetto collettivo autonomo, è destinata a riassorbire nella dimensione sociale tanto quella economica quanto quella politica.
Marx, sostiene ancora Lefebvre, mantiene la concezione hegeliana di una razionalità soggiacente alla storia, ma allo stesso tempo esita nel riconoscere un senso immanente alla società capitalistica che, a buon diritto, può essere considerata assurda perché disumana e ingiusta. Mantiene il progetto di costruire un rigoroso sapere scientifico in grado di raggiungere l’essenza della società capitalistica, ma riprende anche la formula faustiana “In principio era l’azione”. Detto altrimenti, esita tra il sapere e l’agire, tra il conoscere e il vissuto pratico.
Un vissuto in cui Marx evidenzia una triade misconosciuta: sfruttamento, oppressione, umiliazione. Questi tre concetti, pur senza confondersi, si possono riassumere in un unico termine, quello di alienazione. Questo, staccato dall’architettura hegeliana, manca di uno statuto teorico solido ma, al tempo stesso, acquisisce una inesauribile fecondità per la comprensione del vissuto sociale. Concetti come plusvalore o plusprodotto hanno ben altra compattezza da un punto di vista scientifico ed epistemologico. Ma nessuno è disposto a morire combattendo contro il plusvalore, mentre moltissimi esseri umani hanno lottato fino alle estreme conseguenze contro l’umiliazione e l’oppressione, attraverso le quali hanno sperimentano lo sfruttamento.

Cosa si è realizzato del progetto marxiano? Niente, o quasi niente, sostiene Lefebvre. Una gran parte di quello di cui Marx aveva annunciato la scomparsa continua a sopravvivere, anche se “marcisce sul posto”. In nessun luogo la classe operaia ha potuto diventare un soggetto collettivo autonomo. “In entrambi i fronti, capitalista e socialista, la vita sociale scompare, schiacciata tra l’economico e il politico. Qui predomina il primo, là il secondo”.1
Sin dai tempi di Marx, mentre lui celebrava il tentativo della Comune parigina di abbattere lo Stato borghese, la già potente classe operaia tedesca stava cadendo nella trappola del nazionalismo e dello statalismo, per di più guidata da un sedicente seguace dello stesso Marx, Lasalle. E l’amara ironia della storia prosegue con l’Unione Sovietica che trasforma in dottrina di Stato la critica radicale dello Stato di Marx. Una dottrina in verità super hegeliana anche se mascherata sotto un lessico marxiano. Questo destino beffardo non deve però nascondere una fondamentale conclusione che si deve trarre dalla teoria del pensatore tedesco: se la rivoluzione si fa contro lo Stato, quest’ultimo, a un dato momento, diventa controrivoluzionario.
Cosa ne conclude Lefebvre? “Fallimenti del pensiero marxista? Sì. Morte? No”.2 Il pensiero di Marx non muore perché non opera nel mondo moderno come un sistema in grado di fornire certezze granitiche, ma “Agisce come un germe, come un fermento”.3 Il rivoluzionario tedesco aspira certamente alla totalità nella sua opera teorica, ma il momento critico scuote l’edificio prima del suo completamento. Per questo il marxismo, in senso proprio, non esiste. Possono esistere solo diversi marxismi figli di differenti interpretazioni di Marx. Il problema non sta nell’oscurità o nello stato embrionale del suo pensiero, ma nel fatto che egli “annuncia, propone, progetta, anziché osservare, ratificare (apparentemente) il fatto e sistematizzare il compiuto, come l’hegelismo”.4 

Vale dunque la pena continuare, insieme a Marx, a “esplorare con la teoria il possibile e l’impossibile”.5 E in questa esplorazione Lefebvre incontra la critica di Nietzsche che ha lo stesso terreno della critica marxista: Hegel e l’hegelismo come teoria dello Stato, principio e pratica dello Stato come messa in atto della razionalità politica, particolare dell’Europa, che Hegel ha teorizzato. Stesso terreno di partenza in direzioni divergenti”.6
Nietzsche ci aiuta a risolvere i problemi che Marx lascia in sospeso? Non proprio. Verrebbe piuttosto la tentazione di commentare, utilizzando Samuel Beckett, che Nietzsche ci aiuta a “Fallire di nuovo. Fallire meglio”. Perché, pur sgomberando il campo dal surrettizio utilizzo filonazista del suo pensiero, rimangono all’orizzonte possibili esiti alquanto oscuri: l’elitismo, il nichilismo, la follia. Nietzsche non è certo un rivoluzionario. Ma di sicuro è un ribelle. La sua è una rivolta del vissuto, del corpo, della differenza, del soggettivo, del desiderio.  Una rivolta contro il Logos occidentale che si arroga il diritto di escludere tutto ciò che perturba la coesione e la coerenza sociale esercitando il peggiore dei ricatti: ogni critica della Ragione porterebbe all’irragionevolezza e all’apologia della violenza.
Nel Logos, dunque, il sapere si fa potere. E con ciò si fa Stato, ipocritamente travestito da virtù morale e da onestà intellettuale. Ma al di sotto di questa apparenza menzognera c’è solo la volontà di potenza, pura ricerca del potere per il potere e manifestazione dell’energia vitale che agisce nel corpo.
Questa energia viene però misconosciuta perché l’uomo sperimenta se stesso soprattutto attraverso il risentimento che nasce quasi sempre da un’umiliazione. Un’umiliazione rimossa da cui si trae una singolare voluttà attraverso la virtù dell’umiltà. Si finisce così per accettare l’umiliazione e, addirittura, per cercarla nuovamente  offrendosi come vittima, preda, oggetto per la volontà di potenza che l’ha atterrato. Salvo che ogni umiliato ha sotto di sé altri umiliati che lui a sua volta può umiliare. In questo modo, sostiene Lefebvre, Nietzsche “prosegue l’abissale scavo del concetto di alienazione”7 che per lui, però, ha qualcosa di irreparabile e di irreversibile.
L’alienazione, infatti, non dà luogo a un superamento dialettico. Nessuna negazione della negazione, nella versione hegeliana o marxiana. Nessuna conservazione del presente e del passato ad un livello superiore. Il passato è considerato come decadenza e non come risorsa, maturazione, preparazione al possibile. La storia è concepita da Nietzsche come “Un caos di casi, di volontà, di determinismi”.8 Una concezione che, spezzando la servitù della finalità, fa acquisire alla libertà una nuova dimensione. Solo un pensiero teologico può attribuire un senso alla storia. Ma oramai Dio è morto. Il superamento del presente si dà dunque come distruzione e non come elevazione. Il superamento nietzscheano “denega, rinnega, smentisce, confuta, rifiuta, precipita nell’abisso”,9 senza alcuna possibile previsione del suo risultato. La rivolta di Nietzsche è adesione al vissuto, alla volontà di potenza, non per accettarli come tali, ma per dare luogo a una loro metamorfosi, il salto dall’umano al sovraumano, che può avvenire qui ed ora attraverso una pratica poetica. “Pertanto, nessuna transizione in Nietzsche, ma una capriola”.10

L’analisi di Lefebvre del pensiero di Hegel, Marx e Nietzsche non vuole essere di natura filologica. A lui questi autori interessano perché ci permettono di comprendere il mondo moderno. Nel suo libro si respira un’aria battagliera che è difficile ritrovare nello stile anestetizzante degli scritti accademici contemporanei e che lo rende coinvolgente anche quando non si condividono appieno le sue conclusioni. Seguendo il suo approccio si può allora notare che alcune delle analisi del pensatore francese mostrino i segni del tempo. La rivolta nietzschiana a cui si rifà Lefebvre è figlia degli anni Sessanta e Settanta, come emerge con chiarezza quando afferma, riprendendo un celebre slogan sessantottino, che essa si oppone “alla rivoluzione politica per ottenere ‘tutto e subito’”.11 Nel frattempo,  però, questo tipo di rivolta è stata riassorbita dal capitale postmoderno che è stato in grado di mettere a valore proprio il vissuto, il corpo, la differenza, il soggettivo e il desiderio. Considerazione che, comunque, non ci autorizza a trattare con hegeliana sufficienza il vissuto soggettivo della rivolta, come si trattasse della mera espressione di “coscienze infelici” o di “anime belle”.
Rimane forse l’importanza di Nietzsche come “rivelatore”. In particolare, rilevatore delle difficoltà di alcuni passaggi fondamentali del progetto marxiano. Da un punto di vista teorico forse non c’è nulla di particolarmente oscuro quando Marx sostiene che occorre “lottare sul piano politico per porre fine al politico”12 o quando afferma che “la classe operaia […] si afferma negandosi, supera se stessa superando il capitalismo”.13 Il problema nasce quando questo discorso cerca di tradursi in prassi. Siamo nel cuore magmatico e vorticoso del momento rivoluzionario in cui dialettica si confonde facilmente con il paradosso. Da queste difficoltà non ci si può tirare fuori con il leninismo perché il suo punto più “scabroso”, sostiene Lefebvre, è proprio la teoria del sapere e del partito.

Il partito politico, sostegno o soggetto del sapere, lo trasmette agli operai, lo comunica, lo rende accessibile, senza smettere di detenerlo. Ora il partito politico tende, con lo Stato e con la copertura dello Stato, a elevarsi al di sopra della società. L’esperienza lo mostra e la teoria lo dimostra. Ogni partito politico, che lo sappia o no, è hegeliano per essenza14.

Insomma, arriva un punto in cui non c’è sapere pregresso che possa assicurare il procedere della rivoluzione se a spingere in avanti non interviene il vissuto, non del singolo individuo straordinario, ma delle masse. Giunge un momento in cui la conoscenza acquisita attraverso le lezioni della storia, per quanto necessaria, non è più sufficiente e diventa indispensabile, anche per Marx, fare affidamento sulla poesia del futuro, intesa coma capacità di produrre il novum. A quel punto, se non si vuole cadere all’indietro bisogna fare una capriola in avanti, senza avere alcuna garanzia sul fatto che si riuscirà ad atterrare sui propri piedi invece di rompersi la testa. Questo è quello che Nietzsche chiama salto nel sovrumano. Un salto che, proprio perché privo di solidi punti di appoggio, si espone al rischio dell’eterno ritorno della vecchia merda.

Questa dinamica, tutto sommato, non è estranea al pensiero di Marx che, però, ne mette in evidenza, come momento risolutivo, il lato oggettivo. In particolare quando afferma che le rivoluzioni proletarie

sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!15

Rodi marcisce sul posto, ma ancora non è crollata. I fuochi della catastrofe sociale oramai si allargano a macchia di leopardo anche nel cuore dell’impero. Le rivolte si sono certamente moltiplicate, ma spesso a prevalere è stato un nietzscheano risentimento di massa che ha portato gli individui, riuniti in pseudo-soggettività collettive, a “adorare chi ha potere su di loro […] e identificarvisi provando godimento nell’umiliazione”.16 Anche quando chi ha il potere, per rispondere a questa catastrofe sociale, spinge con sempre più forza verso l’apocalisse bellica. Di fronte al baratro occorre tutta la lucidità di cui ci rende capaci il pensiero dialettico marxiano che va alla caparbia ricerca di quelle tendenze immanenti alla realtà in grado di costituire le premesse per una sua radicale trasformazione, restringendo il grado di aleatorietà della prassi rivoluzionaria. Ma sarà anche bene predisporsi al salto se non si vuole sprofondare in un abisso nietzscheano o, se si preferisce, nella comune rovina delle classi in lotta di marxiana memoria. Non sarà Nietzsche a salvarci, ma l’idea di Lefebvre di un pensiero multidimensionale potrebbe non essere del tutto campata in aria.


  1. H. Lefebvre, Hegel Marx Nietzsche o il regno delle ombre, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 113, edizione Kindle. 

  2. Ivi, p. 31. 

  3. Ivi, p. 136. 

  4. Ivi, p. 131. 

  5. Ibidem. 

  6. Ivi, p. 190. 

  7. Ivi, p. 223. 

  8. Ivi, p. 32. 

  9. Ivi, p. 233. 

  10. Ivi, p. 253. 

  11. Ivi, p. 165. 

  12. Ivi, p. 263. 

  13. Ibidem. 

  14. Ivi, p. 167. 

  15. K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1852/brumaio/cap1.htm

  16. H. Lefebvre, cit. p. 254.