di Valentina Cabiale

Sei un archeologo atipico, con un percorso professionale curioso: di formazione preistorico, hai lavorato per trent’anni a Trento, dove negli ultimi anni, fino al 2023, sei stato direttore dell’Ufficio Beni Archeologici della provincia; in quel contesto sei approdato, o sei stato trascinato, nell’archeologia del moderno e contemporaneo, in particolare della Prima guerra mondiale. Come riassumeresti in breve la tua biografia?

Beh, come prima cosa ho avuto una esperienza di sliding doors: avrei voluto fare l’archeologo preistorico nell’Egeo, poi un giorno, tanti anni fa, ho perso il traghetto che mi doveva portare a Creta e ho cambiato i programmi, dall’Egeo sono passato alle Alpi. Ho fatto il concorso a Trento e sono arrivato nell’Ufficio Beni Archeologici nel 1991. Prima avevo fatto la scuola di specializzazione a Pisa, perfezionandomi in archeologia preistorica. Tuttora tra i miei maggiori interessi c’è una fase particolare della preistoria chiamata età del Rame, il III millennio a.C., molto particolare rispetto a quello che viene prima (le grandi culture neolitiche) e dopo (le solide e molto estese strutture culturali dell’età del Bronzo). L’età del Rame è molto complessa, con una grande frammentazione culturale. Questo è quello che mi interessava, però arrivato a Trento ho dovuto occuparmi un po’ di tutto, dalla preistoria all’età romana, e a un certo punto è successo qualcosa che mi ha cambiato la prospettiva e sono passato, come dico io, dalla clava al missile.

Stavo seguendo lo scavo di un sito protostorico di produzione del rame sull’altopiano di Luserna. È un altopiano, come altri da queste parti, molto ricco di minerali di rame, un metallo che durante le fasi finali dell’età del Bronzo veniva esportato un po’ dappertutto, dalla Grecia alla Scandinavia. E in questo sito le stratigrafie protostoriche sono state tagliate dalle trincee della Prima Guerra mondiale. Era un palinsesto appassionante, dove vedevi le scorie metalliche dell’età del Bronzo insieme ai paletti e al filo spinato delle trincee. Mi ha fatto percepire qualcosa di particolare. Illuminante, per me, è stata inoltre la conoscenza dell’archeologo Armando de Guio che mi ha fatto comprendere, in maniera direi geniale, che cos’è l’archeologia. A livello accademico rimane quella disciplina che si interessa dell’antichità ma gradualmente ho capito che qualsiasi genere di passato è indagabile con metodo archeologico.

A partire da quello scavo è iniziato un mio interesse particolare per la Prima guerra mondiale, che in Trentino ha lasciato delle tracce ancora oggi impattanti e ben visibili, sia sul terreno (i forti austro-ungarici, resti di opere murarie, campali e trincee) sia nelle stratigrafie sepolte. Qui passava il confine tra impero d’Italia e quello austro-ungarico, il Trentino è stato austro-ungarico sino alla fine della Prima guerra mondiale. E qui è stata combattuta la cosiddetta Guerra Bianca: i generali pensavano che conquistando le cime si sarebbero controllate anche le vallate; pertanto, hanno quasi urbanizzato le cime più alte (sino a quasi 4000 m, come l’Ortles). Vi hanno portato materiali e soldati, in buona parte uomini capaci di andare a quelle altitudini, in parte gente che veniva da tutta Italia e non aveva alcuna esperienza delle condizioni di vita sulle alte quote.

Mi sono così trovato a lavorare in un contesto ambientale completamente diverso, in quanto si scava nel ghiaccio e non nella terra. In quel contesto, una esperienza molto forte a livello personale è stata quella di sentire l’odore degli oggetti. È una esperienza che ti fa capire che quello che generalmente trovi, negli altri siti archeologici, è solo una minima parte di quello che è rimasto. Questo tipo particolare di “archeologia glaciale” mi ha poi portato ad occuparmi anche di un altro aspetto, che non è di competenza dell’Ufficio Beni Archeologici ma del Ministero della Difesa, ovvero il recupero dei corpi dei soldati. Anche questo è un capitolo della mia vita professionale che mi ha stimolato molte domande, con quasi nessuna risposta. Il trattamento dei resti umani per l’archeologo è una cosa normale, ma quando hai a che fare con resti umani di età così recenti, che in alcuni casi tornano ad avere un nome, un cognome e dei parenti, è molto diverso. Non si tratta di archeologia forense, perché non ci può essere evidenza di reato; il reato è quello della guerra e ormai è andato in prescrizione… Tutto questo mi ha portato a riflettere sull’etica dei resti umani, di qualsiasi epoca, e mi ha fatto crescere molto umanamente. Mi sono posto e mi pongo domande che vanno al di là della sfera professionale e che riguardano “cosa resta in quel che resta”. Di quello che siamo stati, qualcosa resta a livello materiale, ma cosa c’è in quel che resta? Su questo che è il problema di tutti gli uomini, ovvero la riflessione sulla morte, continuo a pormi interrogativi, del tutto laici, ai quali non trovo e non voglio trovare risposta.

Ecco, questa è un po’ la mia storia. Negli ultimi anni sono ritornato anche agli studi preistorici. Nel 1998 avevo organizzato un convegno sul fenomeno del “bicchiere campaniforme” (in inglese Bell Beaker) nell’età del Rame. Sin da fine Ottocento si discute su questo vaso campaniforme che è stato ritrovato in mezza Europa, a macchia di leopardo, ma che non si sa come interpretare: se è parte di una cultura, di una moda, se è stato portato dai cavalieri nomadi, ecc. Non si è ancora capito. Oggi, con le scienze applicate all’archeologia, e soprattutto con lo studio del DNA, con la genetica, la genomica, la proteomica, i dati iniziano a farsi non più chiari ma più complessi, e la complessità è una cosa positiva: si iniziano a comprendere alcune storie delle persone che portavano con sé il vaso campaniforme. Con un collega di Helsinky e una di Budapest, Volker Heyd e Gariella Kulcsar, abbiamo organizzato due convegni, una prima parte a Riva del Garda, 25 anni dopo quel 1998, incentrato sulla seconda parte del III millennio, e un secondo a Budapest, sulla prima parte del III millennio (intorno al 3100-3000 a.C.) quando c’è una grande migrazione di popolazioni che dalle steppe russe-ucraine si spostano abbastanza velocemente – erano cavalieri – verso l’Europa centrale. Una migrazione ricostruibile sulla base dei dati della genetica, molto utili anche per studiare il genoma attuale. Nel gennaio dello scorso anno su Nature è uscito un articolo in cui si dice che la presenza del gene delle steppe, che si trova ancora soprattutto nelle popolazioni dell’Europa centro-settentrionale, sembra essere correlato alla maggiore presenza delle malattie auto-immuni quali la sclerosi multipla.

A livello archeologico comprendere questi movimenti di persone è più complicato. Solitamente le migrazioni lasciano poche tracce materiali, se non nessuna. Lo spostamento dei Cimbri e dei Teutoni, che conosciamo a livello letterario, non ha lasciato evidenze. Con la genetica invece si riconoscono legami parentelari tra persone distanti migliaia di chilometri. Il problema è che i processi evolutivi genetici non sono direttamente connessi, secondo me, a processi di sviluppo culturale. La mobilità è molto differenziata, e oltre alle migrazioni bisogna tenere in conto i matrimoni misti e gli scambi commerciali. In Gran Bretagna il vaso campaniforme arriva con una migrazione di queste persone con il gene delle steppe, che portano anche la metallurgia, ma in altri posti succedono cose completamente diverse.

Com’è fatto questo vaso campaniforme e a cosa serviva?

È un vaso a forma di campana rovesciata, con un profilo a “S”, di solito con bande orizzontali decorate a incisione o a pettine o a cordicella; solitamente ha un colore rossastro e si ritrova spesso nelle tombe, generalmente insieme ad altri manufatti che compongono un “kit campaniforme”: ad esempio il bracciale da arciere, ovvero una placca di osso o di pietra che doveva proteggere il polso dalla corda dell’arco, alcuni tipi di ornamento e di frecce.

Vaso campaniforme dalla Repubblica Ceca (Wikipedia)

Il vaso campaniforme lo si trova dal Portogallo alla Polonia, dal Marocco alla Danimarca, in modo discontinuo, e dovremmo anche cercare di capire perché c’è ma anche perché non c’è, in certe zone. Credo che la ricerca sia ancora molto lunga e non sia facile, anche perché ragioniamo sempre per categorie: conosciamo la cultura neolitica dei “vasi a bocca quadrata”, la cultura palafitticola “di Polada” nell’età del Bronzo, altre “culture” e in mezzo ci sono tutti questi fenomeni che non hanno le caratteristiche a cui l’archeologo dà il nome di “cultura” ma sono il segno di meccanismi culturali più complicati.

In mezzo c’è molto che non appartiene a nessuna delle “culture” note.

Esatto, o ci sono “gruppi culturali”, “sub-culture”, la nomenclatura è varia e indicativa del fatto che non sappiamo bene di cosa stiamo parlando. Il fenomeno del vaso campaniforme dura circa 500 anni ma ancora non comprendiamo che cos’è e dove è nato. Ci sono state tantissime ipotesi, ad esempio che si tratti di una moda legata a dei riti come quella del peyote nell’America centrale (dove c’è effettivamente un kit di oggetti funzionali a un rituale). L’ipotesi sarebbe sostenuta dal fatto che all’interno dei vasi si sono ritrovate tracce di bevande alcoliche, in particolare birra, in altri c’erano dei pollini di Filipendula che viene utilizzata per aromatizzare l’idromele. Le analisi chimico-fisiche permettono in effetti di comprendere storie che sarebbero inattingibili dall’archeologia tradizionale. Ad esempio, la storia dell’arciere di Amesbury, un ragazzo sepolto (con alcuni bicchieri campaniformi) vicino a Stonenhenge, intorno al 2400 a.C., dunque nel periodo in cui Stonehenge acquisisce l’aspetto monumentale che vediamo oggi. Con l’analisi degli isotopi dell’ossigeno nei denti si è visto che questo ragazzo non era cresciuto bevendo acqua di quella zona ma proveniva probabilmente dalla Germania o dalla Svizzera, quindi era migrato attraversando il canale della Manica.

È evidente che dobbiamo riuscire a costruire un quadro meno schematico, meno legato alla definizione di cultura, e più connesso alla capacità di questi individui di muoversi in maniera individuale o in piccoli o grandi gruppi. Le migrazioni dei portatori dei geni delle steppe, c.d. “cultura di Yamnaya”, sono ben riconoscibili, ed è possibile che siano state agevolate dalla diffusione di malattie: ad esempio nel periodo delle migrazioni sembrano comparire in diverse aree le prime tracce di Yersinia pestis, il batterio della peste. Quindi è possibile che queste popolazioni abbiamo trovato dei vuoti demografici, che hanno agevolato i loro spostamenti.

Ma, ripeto, le migrazioni sono molto difficili da percepire dal punto di vista archeologico. Spesso inoltre viaggiano le idee (l’idea di un vaso, ad esempio) piuttosto che le persone e gli oggetti. Però l’uomo non è un albero e ha sempre cercato posti migliori dove vivere, o a volte è migrato per necessità, per motivi di sicurezza, o ambientali. Quando sugli altopiani di Lavarone e di Luserna, e presso val dei Mocheni, intorno al 1200 a.C., hanno iniziato a sfruttare i minerali per ottenere rame, andavano sulle alte quote perché lì c’era il legname necessario per fare andare i forni. In quel periodo dobbiamo immaginare decine, centinaia di forni e di siti produttivi. La conseguenza è che hanno probabilmente pelato queste montagne come delle patate, causando un disastro ambientale. Spesso su quegli altopiani trovi i mucchi di scorie metalliche protostoriche accumulati a lato delle trincee scavate nella Prima Guerra mondiale: un palinsesto difficile da far capire a chi non è archeologo. L’archeologo è ancora percepito come quello che trova oggetti, mentre la sintassi di un contesto archeologico è ben più complessa. Provo a raccontarlo negli incontri pubblici quando cerco di spiegare perché chi va a raccogliere in giro oggetti della Prima Guerra mondiale sbaglia. Conosciamo perfettamente la storia di quella guerra, ma in mezzo a quella Storia grande ci sono tante storie di persone, soldati, che non conosciamo affatto. Quei soldati di cui ritroviamo i corpi, è come se non fossero mai esistiti. Quindi se raccolgo in maniera non corretta i loro resti, perdo la possibilità di dare loro un nome. Ci riusciamo raramente, ma qualche volta sì. E per me è un risultato importante a livello non professionale ma etico e umano.

A Trento nel 2018, in occasione del centenario della Prima Guerra, hai organizzato una mostra presso Cappella Vantini di Palazzo Thun, che si intitolava storie senza Storia. Tracce di uomini in guerra (1914-1918). Tra il 2012 e il 2017, a causa dei cambiamenti climatici, sono riemersi i resti di alcuni soldati caduti durante la guerra e in particolare due soldati dell’esercito austroungarico, dentro un crepaccio a circa 3000 m sul ghiacciaio del Presena, e due alpini italiani nel gruppo dell’Adamello.

storie senza Storia, Trento 2018

Nella mostra erano esposti i vestiti e i pochi oggetti personali che questi uomini portavano con sé, tra cui alcuni documenti cartacei che hanno permesso l’identificazione di uno di loro, Rodolfo Beretta. Gli altri tre restano anonimi. I due austriaci sono morti giovanissimi probabilmente durante un combattimento, i cappotti e le giubbe presentano tagli netti e verticali fatti per portare via i loro oggetti personali. I due italiani, invece, avevano del filo telefonico attorcigliato intorno alla vita ed erano probabilmente in cordata quando sono stati travolti da una valanga.

Quella piccola mostra trasudava umanità. È evidente che il primo obiettivo dell’archeologia di quel genere di contesti è di natura etica, in primis ridare sepoltura a corpi insepolti e un nome, dove possibile, all’individuo, e restituire il corpo a una famiglia.

Ma questa archeologia è anche un modo di andare contro alla Storia che li ha travolti, negando la formazione delle loro storie personali? Evidenziare la amoralità di quella Storia.

Senz’altro. Difatti mi piacerebbe fare alcune riflessioni a partire da una suggestione, da un titolo che ho in mente, che è “Siam pronti alla morte?”. Questi ragazzi erano pronti alla morte? Chi è pronto alla morte? È una domanda che ti poni quando ti avvicini ai resti di questi ragazzi spesso giovanissimi, a volte non hanno neanche 18 anni – gli austro-ungarici hanno arruolato non solo i ragazzi del ‘99 ma anche quelli del 1900.

Credo che l’archeologia sia una disciplina strumentale a una riflessione sul nostro passato, perché anche durante questa conversazione mi viene spontanea una domanda, ovvero: Perché facciamo archeologia oggi? Per tutelare un patrimonio? E perché lo tuteliamo? È una domanda che per il momento resta lì. Ma nel caso dei contesti della guerra ho una risposta, che è quella di dare dignità a questi resti. Quello che rimane in quei resti è proprio l’umanità, nel senso di natura umana (in inglese humanness, non humanity). I resti umani, anche il più piccolo frammento di osso, hanno due caratteristiche, secondo me, apparentemente discordanti: ogni frammento di tessuto umano contiene dentro di sé l’intera natura umana, ma al contempo è il segno (e il senso) di una individualità, perché ogni persona è unica. Queste caratteristiche rendono fondamentale qualsiasi resto umano nella nostra storia, e tutti di pari dignità. In tutti i codici etici riguardanti il trattamento dei resti umani – ne sono stati scritti diversi – si specifica che bisogna avere rispetto: ma cosa vuol dire? Lo tocco con i guanti? Per me rispetto significa ridare la dignità a questi resti, mostrare che sono vissuti: questo è il modo per dare un senso alla loro presenza nel nostro contemporaneo. Quando parlo di queste cose mi viene spesso la voglia di citare delle poesie. C’è, ad esempio, una poesia dove Ungaretti racconta di un suo amico africano che si è suicidato perché non aveva più patria. Alla fine dice “E forse io solo so ancora che visse”. Per me questo, riconoscere che qualcun altro è vissuto, significa dare un significato.

Come diceva Mortimer Wheeler, noi archeologi non scaviamo cose ma persone. Ma le persone, quando le troviamo, sono persone. Io sono più dell’idea che scaviamo parole, tutti gli oggetti sono parole che dobbiamo mettere in ordine per creare un discorso e se non lo facciamo in maniera corretta non capiremo nulla. Un fisico, Guido Tonelli, ha detto: se tu prendi le parole dell’Infinito e le metti in un computer, quello te le combina nelle migliaia di possibilità, una diversa dall’altra. Ma c’è un solo testo che è quella poesia di Leopardi: “Sempre caro mi fu quell’ermo colle”. L’ordine è importante; la successione, la grammatica, la sintassi. È la stessa cosa che facciamo noi. Non si tratta solo di raccogliere oggetti. Ogni oggetto ha una sua luce ma getta luce anche sugli oggetti accanto, e questo è il contesto. Così il nostro metodo può aiutare anche a ricostruire quelle vite che Michel Foucault chiamerebbe infami: uomini infami, gente che non è mai stata conosciuta. Preferisco scrivere biografie più che storie. Umberto Eco diceva che nelle biblioteche c’è la nostra memoria; secondo me anche nei cimiteri, dove non ci sono libri ma ogni tomba è un testo. Adoro le biblioteche ma lì non c’è tutta la nostra storia. I resti materiali sono muti ma spesso più attendibili di quelli scritti. Chi scrive lettere, diari, libri, lo fa come vuole e quando vuole. La storia recente della Prima guerra mondiale, così come tante altre, è fatta anche da persone che non hanno lasciato nulla di scritto, ma sono testimoni muti, come le loro uniformi. Bisogna sforzarsi di sentire la loro voce flebile.

Questo è uno degli aspetti che più mi ha appassionato negli ultimi anni, queste “storie senza Storia”. Pensiamo a Napoleone, che ha conquistato il mondo con un esercito che non aveva un nome, perché è soltanto dalla Prima Guerra mondiale che i soldati sono stati registrati. Battaglia di Waterloo, 1815, in una giornata muoiono tra i 10 e i 20.000 soldati, e decine di migliaia di cavalli. I colleghi che si occupano di Battlefield Archaeology hanno fatto delle ricerche sul campo di battaglia, e cos’hanno trovato? Niente. Pochissimi scheletri, di uomini e di cavalli. Dove sono finiti? Andando negli archivi si è visto che in quel periodo nella zona c’è stato un grande sviluppo di zuccherifici. Andavano a raccogliere le ossa per usarle nella raffinazione dello zucchero.

Orazio diceva Dulce et decorum est pro patria mori. Dulce senz’altro, in questo caso. Decorum, non molto. Queste persone sono scomparse, di loro non si sa più nulla. Qual è la dignità di un uomo rispetto a un altro? Io cerco chi non ha lasciato alcun segno di vita, qualcuno che è come se non fosse esistito, gli uomini infami di Foucault ricordati soltanto nei testi dei tribunali francesi dove si diceva quale crimine avevano commesso. Quelle dei milioni di soldati e di civili morti in tutte le guerre sono in qualche modo “vite infami”. Ecco, mi piacerebbe ridare un po’ di dignità a queste persone. So che propriamente il mio lavoro non è questo, ma ho una visione dell’archeologia diversa da quella dove tutto è bello e immaginifico. Vorrei una archeologia beauty-free, perché della bellezza non ne posso più. Questo è il motivo per cui, secondo me, su qualsiasi resto umano, ad esempio anche sulla sepoltura isolata, medievale, che trovi in un contesto urbano e che ovviamente non è identificabile con nome e cognome, bisognerebbe fare le indagini antropologiche, biologiche, genetiche. Per me, da non credente, è il modo per ridare la dignità umana a quei resti. Ricostruire parte della loro vita, il curriculum vitae ma anche il curriculim mortis (pensiamo a quei soldati austriaci con i tagli sulle giacche).

Articolo di Dino Buzzati, Corriere della Sera 13 agosto 1952

Lasciarlì lì, sulle alte vette, come chiedeva Dino Buzzati in un articolo sul Corriere della Sera dei primi anni Cinquanta, non si può più fare sia perché le “bare di cristallo” (il ghiaccio) si stanno sciogliendo, sia perché sono a rischio di vilipendio: ci sono persone, rapaci dal volto umano, che rubano la piastrina e altri oggetti ai cadaveri che affiorano. È chiaro che non basta riportarli giù con le fanfare, e poi dimenticarci di loro.

Qualche settimana fa sono andato alla scuola Gandhi di Villa Raverio, il paese dove è nato Rodolfo Beretta. Ho parlato agli studenti, c’erano anche i pronipoti di Beretta. Sono felice di poter fare questo e lo considero importante. Scoprire l’identità è fondamentale, anche se si riesce raramente. Il nome ha una grande forza. Non è un caso che Ötzi abbia ricevuto un nome: all’inizio lo chiamavano Iceman, l’uomo del Similaun, l’uomo venuto dai ghiacci, alla fine ha ricevuto un vero nome, senza il quale sarebbe restato un oggetto.

Prima parlavi di Waterloo, hai letto Il colonnello Chabert di Balzac? È la storia di questo colonnello che viene colpito da una sciabolata al cranio durante la battaglia napoleonica di Eylau e viene gettato in una fossa comune. Solo che non era morto e dopo qualche ora si risveglia. Esce dalla fossa, passa attraverso tutta una serie di peripezie e finalmente dopo un po’ ritorna a casa, dalla famiglia. Ma molte cose sono cambiate, perché tutti lo credevano morto. È un racconto che fa riflettere sul fatto che, quando qualcuno è dato per defunto, è sparito, non esiste più, può dare un po’ fastidio se poi ricompare, perché scombina il corso delle vite degli altri che dopo il lutto si sono ricomposte.

Non conosco questo racconto però recentemente ho letto il libro di Pete Flamm dal titolo Io?, pubblicato da Adelphi: è la storia di un soldato semplice che torna dalla Prima Guerra mondiale e, in un intreccio espressionista (il libro è del 1926), si rende conto un po’ alla volta di aver rubato l’identità di un ufficiale morto in battaglia. Quel punto di domanda dopo l’Io del titolo fa intuire il vortice psicanalitico a cui va incontro il protagonista.

Tra l’altro, tutto questo mi fa venire in mente un aneddoto, ancora a proposito di Rodolfo Beretta. Dopo averlo identificato, grazie al restauro del materiale cartaceo che portava nella giacca, ho chiamato l’ufficio di Onorcaduti (oggi si chiama Ufficio per la Tutela della Cultura e della Memoria della Difesa) per dire che eravamo risaliti al nome. La prima cosa che mi hanno chiesto è stata: lei come fa ad essere sicuro che quella sia la sua giacca? È una osservazione molto importante. Tempo dopo ho scoperto ad esempio che in Valsugana, dopo la Seconda Guerra mondiale, un tale tornato dalla guerra era stato preso per un fantasma, perché nel frattempo era stato ritrovato un corpo che indossava la sua giacca, con i suoi documenti. In realtà lui aveva imprestato la giacca a un commilitone. Si tratta di situazioni probabilmente non così infrequenti. Su Rodolfo Beretta i dubbi si sono poi sciolti perché abbiamo trovato il certificato di morte, i documenti che parlavano della valanga e quindi abbiamo avuto la certezza dell’identificazione. Ma le biografie di chi torna dalla guerra sono spesso estremamente interessanti.

Gli oggetti di Rodolfo Beretta, tanto più perché appartenenti a un individuo di cui conosciamo nome e cognome, sono commoventi: gli scarponi, una pipa, un pettine, un bossolo di proiettile trasformato in penna stilografica (finta), un anellino femminile forse di una fidanzata, la ricevuta di un pacco che gli era stato spedito e che conservava il suo nome. Sono una materia memoriale stabile, che non muterà; però potranno cambiarne l’interpretazione e le modalità di percezione, perché la memoria è un processo in continuo divenire. Che futuro immagini per questi reperti? Entreranno prima o poi in un museo, non usciranno mai più dai magazzini, tra qualche decennio chi li recupererà da qualche cassetta non sentirà più alcuna prossimità emotiva con essi?

Non so. A me ha fatto piacere che i familiari abbiano concesso gli oggetti per quella mostra, cosa non scontata. Mi piacerebbe molto che andassero a finire da qualche parte, ad esempio al Museo degli Alpini al Doss Trento, però se presentati come un contesto particolare, non come parte del mondo degli alpini, della guerra, dei militaria. Non come oggetti, ma come biografie. Le divise che abbiamo esposto nella mostra non sono le divise o gli scarponi che si trovano nei musei della guerra, di cui si specifica modello, anno ecc., ma contengono ancora le persone che li hanno indossati, sono quelle persone.

Mostra storie senza Storia, Trento 2018 (da www.cultura.trentino.it)

Una cosa che vorrei fare è una pubblicazione completa su tutti i recuperi di resti umani che abbiamo fatto. I contesti di ritrovamento, dagli altopiani sino ai 3200 m di quota, sono di vario genere: scene di battaglia, sepolture opera di altri soldati, caduti sotto valanghe, fosse comuni. Vorrei presentare i risultati delle analisi bioantropologiche e tutti i materiali rinvenuti; raccontare le storie singole, laddove riusciamo. Ad esempio, stiamo studiando una fossa comune austro-ungarica rinvenuta al passo del Tonale. Il rinvenimento deriva dalla notizia che un signore bresciano ha trovato nel diario di suo nonno, dove si dice che una notte, dopo l’“Operazione valanga” (gli austro-ungarici al passo del Tonale volevano infilarsi nelle linee italiane e scendere verso Milano ma non ci sono riusciti, in una notte sono morti migliaia di uomini), in una fossa di granata sono stati buttati 94 soldati austro-ungarici. Abbiamo fatto uno scavo e abbiamo trovato una fossa contenente 12 uomini, gli altri non sappiamo dove siano. I corpi sono stati deposti uno sopra l’altro, su quattro strati, sepolti in fretta con poca terra sopra (infatti abbiamo trovato le tracce di insetti di superficie, non di quelli fossatori). Intrecciando i dati derivati dalle analisi bioarcheologiche e degli isotopi con quelli degli archivi viennesi e con gli elenchi dei dispersi, stiamo cercando di identificare almeno alcuni individui. Se riuscissimo a identificarne anche solo uno, sarei una persona più felice.

Se penso a questi ragazzi che avevano ancora addosso i contenitori con le maschere antigas e i ramponi, morti a cataste e buttati in una fossa comune: cosa rimane di loro? Quello che resta ci dovrebbe dire non solo chi erano, cosa mangiavano, se soffrivano il mal di denti, ma dovrebbe anche farci riflettere. Dovremmo domandarci se fossero pronti alla morte oppure no. In una delle scuole superiori dove sono stato, uno dei ragazzi mi ha chiesto: “Pensa che siano morti per qualcosa?”. I ragazzi riescono a guardare al di là. Qualche anno fa, un insegnante ha fatto scrivere agli studenti delle poesie a partire dal mio racconto, ed è molto interessante che alcune di queste poesie o piccoli racconti vadano molto oltre rispetto a quello che facciamo noi. Noi inseriamo Rodolfo Beretta o quello che è il nostro oggetto di ricerca nel contesto storico. I ragazzi giovani, che hanno la virtù poetica dell’immaginazione, riescono ad attualizzarlo, a farlo arrivare qua, nell’oggi, a farlo diventare uno di loro. Alcuni di questi scritti, per quanto a volte naïf, mi hanno davvero commosso. Questo è uno dei modi per far capire che queste vite non sono finite ma continuano. Il nostro compito è di non dimenticare. La memoria non è un fatto, è un atto. La Storia ha smontato tutte queste vite, noi dobbiamo rimetterle in azione. Altrimenti, come per quell’amico di Ungaretti, soltanto qualcuno saprà che sono esistite.

Nell’atto della memoria, gli oggetti sono fondamentali. Hai scritto, riguardo alla mostra, che la scelta di esporre gli oggetti personali voleva essere una sorta di liturgia laica per celebrare la vita, il loro non essere stati: questo era possibile facendo diventare quegli oggetti personali, quei cappotti esposti sui manichini, soggetti e non oggetti, presenza invece che rappresentazione. Ma questo forse è l’intento che molte comunità e società del passato, anche non troppo lontano, hanno tentato di mettere in pratica seppellendo i loro defunti con un corredo, ad esempio il “kit campaniforme” dell’età del Rame di cui parlavi prima: una scelta di oggetti che in qualche modo assumono funzione vicaria e permettono la continuazione della vita. Quelli esposti componevano un corredo laico, per quanto in differita di un secolo dalla morte?

Sì, il corredo ha un valore molto importante. Però c’è anche da dire che nella sepoltura non c’è solo la persona fisica, ma soprattutto la persona sociale. Come diceva Robert Hertz, la morte è una rappresentazione collettiva. Non è il morto che si auto-rappresenta e si mette il corredo; chi lo fa sono i parenti, che gli mettono quello che, secondo loro, identifica e rappresenta la sua natura. È un rituale collettivo che deve dimostrare a tutta la comunità il valore sociale di quella persona. Quindi quando in una sepoltura neolitica trovi dei vasi bellissimi, le punte delle frecce che erano nella faretra, una ascia in pietra levigata, è tutto parte della rappresentazione collettiva della morte di quell’individuo. Noi conosciamo sempre e solo la morte degli altri e generalmente non prendiamo decisioni sulla nostra.

Gli oggetti di Rodolfo Beretta e degli altri soldati compongono invece un “corredo” che si erano scelti. Le scelte legate alla materialità sono estremamente complesse. La signora che dopo il crollo delle Torri Gemelle ritrova del marito soltanto le scarpe, e tuttavia decide di fargli un funerale, non è una cosa banale: per lei, quelle scarpe sono il marito. Dal punto di vista della percezione gli oggetti sono le persone. Quando c’è stata la mostra a Rovereto sulla Prima guerra mondiale, hanno fatto una installazione di arte contemporanea con molti oggetti provenienti da Punta Linke (una postazione austro-ungarica della Guerra Bianca), disposti in file verticali, come delle colonne. Subito non ne avevo capito il senso. Poi quando hanno finito l’opera, alla base di ogni fila hanno messo un paio di corpiscarponi. Quella era la presenza, per me: non la rappresentazione ma la presenza. Che è cosa del tutto diversa da quella che si può vedere a Redipuglia dove c’è scritto “presente”: quella è una rappresentazione. Le mie sono suggestioni, ma sono convinto che gli oggetti che troviamo con questi soldati e anche in altri contesti archeologici raccontino e incorporino molto di più di quello che solitamente comprendiamo.

Mucchio di soprascarponi in paglia, Punta Linke

Tra i contesti più interessanti della Prima guerra mondiale in cui ho lavorato c’è stato quello presso il Passo del Menderle, dove ci siamo trovati di fronte a una scena di battaglia, vicino a una trincea austro-ungarica, verso la Vallarsa. Ci erano stati segnalati i resti scheletrici di un individuo, recuperati da qualcuno e abbandonati in un sacchetto di plastica. Abbiamo deciso di scavare un tratto della trincea, che era ancora riconoscibile sul terreno. La trincea era vuota ma all’esterno c’erano i resti di tre soldati italiani, uccisi da una granata italiana. Attraverso gli studi degli archivi storici siamo riusciti a ricostruire bene l’accaduto. I resoconti storici dicono solo che gli attacchi italiani avvennero nel luglio del 1916 e fallirono. Non abbiamo nomi dei caduti. Possiamo ricostruire che questi soldati sono arrivati lì di notte, quando si svolgevano operazioni di questo tipo, e si sono appostati all’esterno della trincea mentre gli austro-ungarici si ritiravano in quelle poste più in alto. La mattina dopo aspettavano il contrattacco austro-ungarico da est, perché uno dei tre aveva già indossato gli occhiali anti-riflesso, quindi era pronto a combattere con il sole in fronte. Però con una granata italiana, di cui è stata ritrovata una parte, sono stati uccisi. Siro Orfelli, che ha fatto l’indagine archivistica, ha scoperto che qualche settimana prima gli austriaci avevano catturato un pezzo di artiglieria agli italiani, comprese le munizioni. Facendo il calcolo della gittata, non era possibile che i tre fossero stati colpiti da fuoco amico. Erano gli austro-ungarici che stavano usando l’artiglieria italiana.

Sembra che sul versante della Vallarsa si vedessero sul terreno, fino agli Ottanta-Novanta, diversi elmetti italiani. Sono stati falciati come le mosche. Vedendo queste cose uno non può non domandarsi: a cosa è servito? Quando i ragazzi me lo chiedono, rispondo che non è servito a nulla.

Però questi contesti saranno recenti ancora per qualche generazione, e poi? La memoria è destinata a mutare in fretta e la prossimità emotiva a diluirsi. Non hai l’impressione che questa sia una archeologia provvisoria, temporanea?

Sì, però il contemporaneo diventerà qualcos’altro. Mi sono avvicinato alla Prima Guerra mondiale ma ci sono molti altri passati recenti importanti, ad esempio per me lo sono tutti quei luoghi che sono abbandonati, dimenticati, isolati perché non si devono vedere. Mi interessano perché c’è l’intenzione di volerli abbandonare, non sono ancora sottoterra ma sono messi in disparte, perché non servono più. Il relitto in questo caso non è quello che sta sotto, ma quello che sta fuori da noi. Può essere un contesto anche di pochi anni fa. Un approccio archeologico verso questi contesti è molto più vivo nelle culture dove non c’è una grande archeologia dell’antichità, mentre noi soffriamo, paradossalmente, di un patrimonio antico enorme.

Un altro tema che mi interessa è quello del passato che noi lasceremo: il tempo del futuro anteriore, quando tutto sarà stato, noi non ci saremo più ma sarà restato qualcosa di noi, cosa? Sicuramente sarà qualcosa di diverso da quello che abbiamo trovato noi del passato perché oggi c’è il sistema della tabula rasa. Quando costruiamo qualcosa non manteniamo le fondamenta di quello che c’era prima. Qui dove siamo [Piazza Cesare Battisti, Trento], sotto i nostri piedi c’è la città romana, ci sono le cantine medievali di questo quartiere che si chiamava Sas e che è stato abbattuto negli anni Trenta per realizzare questa piazza. Oggi, invece, quando costruiamo edifici e infrastrutture demoliamo completamente le strutture degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta, Sessanta, a meno che non siano entrate in un regime vincolistico. Quello che potrà vedere l’archeologo del futuro sarà la traccia in negativo dell’azione dell’uomo. Tra qualche decennio, chi farà l’archeologo del mondo contemporaneo probabilmente dovrà ragionare in modo diverso da noi, perché ci saranno molti di questi contesti dove a prevalere sarà l’assenza, quello che manca.

Questa è la ragione, peraltro, per cui in molti cantieri ci sono gli archeologi che fanno l’assistenza agli scavi dei mezzi meccanici: per documentare eventuali tracce antiche che saranno del tutto cancellate dalle nuove costruzioni. Ti pongo ora una domanda che riguarda, invece, il livello individuale. L’archeologia come la conosciamo e pratichiamo è una disciplina moderna. Noi che sappiamo che esiste, ne siamo in qualche modo condizionati? Giochiamo di più a fare i morti di quanto facessero i nostri avi? Siamo più attenti alla eredità materiale che lasciamo, sapendo che qualcuno potrà ritrovarla nel futuro?

Non credo. Personalmente non penso di comportarmi nella consapevolezza che qualcuno vedrà cosa lascerò. Ma un esercizio psicologico che mi piacerebbe fare è proprio questo: chiedere a un gruppo di persone quali cose personali vorrebbero che venissero ritrovate dopo la loro morte. Gli oggetti ma anche i contesti. A ognuno di noi può succedere di uscire di casa la mattina pensando “questa cosa la sistemo stasera”, poi di avere un incidente e morire. Ed entrare nel mondo di una persona morta è davvero straziante. C’è un romanzo di Paul Auster, L’invenzione della solitudine, che parla proprio di questo, riguardo alla morte di suo padre. Di cosa significa entrare nella casa, nella cucina, nel bagno, nella camera di una persona che è morta e non sapeva di morire e quindi pensava di tornare a sistemare tutto: la bottiglia di vino lasciata a metà, il bicchiere sporco, i piatti ancora nel lavandino. Questo è il contesto che noi lasciamo senza sapere che lo lasciamo. Mi piacerebbe sapere cosa le persone vorrebbero che rimanesse dopo che loro non ci saranno più.

Risponderebbero onestamente?

Forse sì, e in ogni caso sarebbe interessante. È un esercizio di futuro anteriore. Cosa sarà quando tutto sarà stato, quando il mondo per noi sarà finito ma ci sarà ancora? Me lo sono chiesto più volte. Credo che tutti noi vorremmo che rimanesse qualcosa. Magari non il corpo. Però ognuno ha un desiderio di permanenza e permanere vuol dire lasciare qualche traccia. Cosa si desidera che permanga di noi? Il ricordo prima o poi scompare, quello che rimane è proprio la traccia materiale. E qualcuno, trovandola, ci potrà tirare fuori.

Ho scritto un articolo su tre contabili che lavoravano in un palazzo qui vicino negli anni Cinquanta. Prima parlavi di giocare a morire. Loro hanno fatto proprio questo, secondo me. Hanno scritto una lettera riportando i loro nomi, dove sono nati – come se fosse una lapide – l’hanno chiusa nella stagnola e messa nell’interno di un muro in corso di costruzione. Sapevano perfettamente che qualcuno prima o poi li avrebbe tirati fuori. Sulla busta c’era scritto “Ai posteri”, non era un message in a bottle senza destinatario. Quello che dà idea del loro desiderio di permanenza è che iniziano la lettera con una domanda: “Perché avete abbattuto il muro?”. Il quel momento si ripresentano, sono lì, e tu li tiri fuori. Ecco qual è il nostro ruolo, come archeologi. Li rendiamo per un po’ permanenti. Nella lettera spiegano che scrivono nel maggio del 1951, che c’è stata la guerra, che non si sa se la Russia abbia la bomba atomica, e dicono “voi sapete com’è andata e noi no”. E alla fine scrivono: siamo tre contabili, un contabile capo (sottolineato tre volte) e due signore, arrivederci. Nella naïveté di questa storia c’è proprio il gioco della morte, è come se avessero inscenato la propria sepoltura, i loro corpi trasformati in nome, messi dentro una busta e poi “sepolti”. Solo se ti seppellisci poi puoi tornare, non sarebbe stato lo stesso se avessero lasciato quella busta in un cassetto della scrivania. Quel muro ha funzionato da tomba. Il gioco della morte finisce quando qualcuno ti trova. E qualcuno li ha trovati. Magari erano ancora vivi quando è stata trovata la busta. Ho provato a fare qualche ricerca, poi mi sono fermato. Ovviamente nell’articolo i nomi sono stati oscurati.

Mostra Futur Antérieur

Mi ha affascinato molto quel desiderio di non finire. La scrittura di una lapide su carta. Il discorso del futuro anteriore sta tutto nell’immaginare. E immaginare può aiutare anche gli archeologi. C’è il catalogo di una piccola mostra molto intelligente fatta alcuni anni fa al Museo Romano di Losanna, Futur Antérieur, dove si immagina che gli archeologi del 4000 d.C. (il futuro anteriore) guardino i reperti che abbiamo lasciato noi.

Questi immaginari archeologi del futuro hanno ritrovato, ad esempio, un ritaglio di giornale con la foto di un calciatore con le braccia aperte, e per analogia ci accostano la figura di Cristo senza la croce, che viene interpretato come uno sportivo. L’analogia è uno degli strumenti più utilizzati in archeologia ma è anche rischioso. Proiettarsi in avanti e da lì guardare quello che sarà il futuro anteriore mette anche noi nelle condizioni di capire quali sono le difficoltà che abbiamo, gli sbagli che possiamo fare, i meccanismi mentali ed epistemologici che mettiamo in campo.

Tra il 2009 e il 2013 hai diretto lo scavo archeologico a Punta Linke, effettuato nel ghiaccio, invece che nella terra. Punta Linke, durante la Prima guerra mondiale, è stata una delle più importanti postazioni austriache del fronte alpino, a 3629 m di altitudine, nel gruppo Ortles-Cividale, oggi in Trentino al confine con la Lombardia. I resti della postazione sono stati riportati alla luce, restaurati e oggi sono visitabili in estate: è il luogo della memoria più alto d’Europa.

A Punta Linke la guerra, e il passato, si possono annusare. Hai spesso parlato dell’odore che oggi ancora emanano gli oggetti ritrovati (il legno della baracca, il vaso con i crauti, i soprascarponi in paglia, il motore della teleferica, ….) e hai scritto in modo molto efficace che a Punta Linke “non siamo noi ad essere portati indietro nel tempo, è il passato che ci viene addosso”. La sensazione del “passato che ci viene addosso” l’hai provata solo a Punta Linke, e nei contesti dell’archeologia che si occupa del passato recente, o anche in qualche contesto archeologico “tradizionale”?

Una percezione simile l’ho provata quando abbiamo trovato una sepoltura del Mesolitico, di quasi 8000 fa, a Mezzocorona, a venti chilometri da Trento. Sono rarissime le sepolture di quel periodo in Trentino, ne abbiamo due in tutto. Abbiamo scavato la tomba con estrema cura, lavorando senza sosta, di giorno e di notte, è in una zona isolata e temevamo potesse essere depredata. E quando mi sono trovato da solo davanti a questa signora – era una donna piuttosto matura per quei tempi – ho avuto un po’ la sensazione che non fossi io ad andare da lei ma lei che venisse da me. Lo so, può sembrare un po’ naïf, ma ho percepito in modo particolare la profondità del tempo e anche un senso di destino e nello stesso tempo di spaesamento. Dopo quasi 8000 anni, uno dei pochissimi individui del Mesolitico l’ho incrociato io nella mia vita, con tutto il mondo e i suoi miliardi di persone che nel frattempo ci sono girati attorno. Per questo ho avuto la sensazione, a livello psicologico, che sia stata lei a venirmi incontro, e che il passato mi sia piombato addosso.

A Punta Linke invece è stato soprattutto per via dell’odore. Quando sei lì il passato ti sovrasta, a livello epidermico e di suggestione. Non è un escamotage museale con il quale ti fanno sentire l’odore ricostruito, o i suoni, è proprio una sensazione materiale. L’odore lì è un reperto archeologico, è materia. Quando l’ho sentito per la prima volta mi ha spiazzato, e la prima volta non è stata a Punta Linke ma a Punta Cadini: stavo mangiando un piatto di pasta dentro una vecchia baracca, e sentivo l’odore della pasta e nello stesso tempo quello della carta catramata e del legno di cento anni prima. È una delle sensazioni più forti che abbia mai avuto nel mio lavoro. L’odore è il senso della memoria. C’è un odore che, quando lo sento, raramente ma capita, lo collego automaticamente alla morte di mio padre. Ma anche l’odore di Punta Linke è diventato un odore della mia memoria. Una memoria che ho creato.

 

Crediti foto Punta Linke: “Punta Linke. Archivio Ufficio beni archeologici UMSt Soprintendenza per i beni e le attività culturali della Provincia autonoma di Trento”

La seconda puntata dell’intervista sarà pubblicata il 20 maggio 2025