di Franco Pezzini
(Per le parti precedenti, cfr. qui)
Possessioni e ripetizioni (1917-1920)
“Ne La Notte di Valpurga, Meyrink utilizza sistematicamente due tematiche, quella del possesso e quella del parallelismo storico, che troviamo un po’ dappertutto nella sua opera e di cui dobbiamo ammettere la validità per entrare nel gioco” (Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.). Si possono senz’altro ricondurre queste due “tematiche”, chiavi o strategie narrative al linguaggio dell’esoterismo, anche se in realtà non è strettamente necessario: si tratta di maschere narrative di larghissimo uso nel fantastico moderno e in una lettura simbolica della realtà neanche troppo ermetica. Ipostasi stessa del concetto di possesso – o piuttosto possessione – è qui Zrcadlo, che persino da morto si farà cassa di risonanza di altre pulsioni ed eruzioni pneumatiche; ma gran parte dei personaggi è assoggettata a fenomeni individuali o collettivi di aweysha (in senso stretto, un controllo del pensiero altrui ottenuto con talune pratiche analoghe a quelle dello yoga).
Non è solo Zrcadlo ad essere un sonnambulo aperto a tutte le influenze: lo è qualsiasi uomo comune, eternamente sottomesso agli effetti di “più” e “meno” della storia visibile, effetti sempre equilibrati, per fare in modo che la storia giri intorno a se stessa in un guazzabuglio di orrori. Solo Flugbeil, il pinguino dalle ali mozze, sarà salvato dalla sua inclinazione alla tenerezza. Egli solo riconoscerà il proprio volto in quello del sonnambulo che gli parla e percepirà per metà il segreto della liberazione che fa sfuggire alla ruota delle ripetizioni. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.]
Dove ravvisiamo anche la diffidenza del moderato Meyrink verso agitazioni individuali e collettive. Non solo di matrice marxista o (data l’epoca) bolscevica, beninteso: nel quadro rientrano anche tutte quelle di estrema destra tanto care agli eredi del Gruppo di Ur che tuttavia tenteranno di lottizzarlo – e a maggior ragione per il legato di un tentato influsso su Storia e politica attraverso le vie sottili, tramite dimensioni esoteriche almeno equivoche. Di fatto in Italia anche questo romanzo verrà pubblicato per la prima volta dai Fratelli Bocca (1944) e introdotto e tradotto dall’ineffabile Julius Evola: la sua versione apparirà a più riprese, anche senza denunciarne il nome (come nella storica edizione La Bussola, 1979, a cui mi sono appoggiato). Una successiva edizione con nuova traduzione nell’ambito della destra seguirà nel 1999 per le Edizioni di Ar di Franco Freda: a confermare l’ossessivo (e furbetto) rimando a Meyrink da parte di aree politiche da lui totalmente lontane.
Quanto al parallelismo, o piuttosto alla ripetizione/calco di maschere e situazioni, qui troveremo presto una sollevazione popolare che richiama pagine della storia hussita, e
Molti degli eroi de La Notte di Valpurga sembrano quindi ripetere o continuare nella nostra epoca la vita di antichissime entità spirituali. L’autore non prova alcun complesso, come si usa dire, riguardo alla credibilità di questi postulati; anzi, la impone con forza trascinante, non esitando ad esempio in materia di parallelismi storici a forzare la dose ed accumulare i dettagli più minuziosi, in modo tale che alla fine il tempo s’imbrogli, le epoche si mescolino, la cronologia si cancelli, in un effetto di sregolatezza quasi mistica che permette di evocare l’eterno presente, e che si presenta anche come risultato artistico. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.]
Ma le due chiavi narrative citate trovano un punto ideale di contatto, pur senza esaurirsi, nel tema della penetrazione di un’individualità – un antenato, o come nel caso di Pernath un ventaglio di possibilità e stati di coscienza – entro un altro essere, con piani di Veglia che cercano il ricordo di ciò che è stato. Si tratta di ritrovare il proprio cammino verso il puro Sé, avvicinandosi a una coscienza relativa che possa aprire il passaggio alla rivelazione: una “libertà di passare”.
Per giungere a questa verità, gli eroi di Meyrink sanno che tutto è relativo, che non esistono differenze fra il reale e l’irreale, che, a questo livello, ci troviamo in un mondo complesso.
Ma in realtà, dov’è il reale, dove comincia la finzione? Quando cessano i valori correlativi di tempo e spazio?
Grazie alla nozione relativistica dello spazio-tempo siamo contemporaneamente futuro e passato, non essendo il passato altro che un istante assolutamente fuggitivo.
[…] in ogni opera, Gustav Meyrink identifica un essere vivente con un personaggio che ha cessato di esistere, che è vissuto in un tempo passato e tutte queste vite, per quanto un po’ diverse l’una dall’altra, formano un’entità spirituale appartenente ad un essere unico, che ci si rivela sotto molteplici sfaccettature. [Jean-Pierre Bayard, Aspetti del pensiero iniziatico di Gustav Meyrink, in AA. VV., Meyrink scrittore e iniziato, cit.]
La vicenda del romanzo ormai sta giungendo alle ultime fasi, con gli ultimi tre capitoli. Primo giugno, Flugbeil deve partire per Karlsbad, ma fatica a staccarsi da Praga. Però la notte prima il vecchio medico ha avuto un momento di rigetto per tutto e tutti – la Lisa odierna e quella di un tempo, Zrcadlo, il “Rospo verde”… e in meno di un’ora ha rovesciato alla veloce nelle valigie tutto quel che poteva essere utile al soggiorno, vagando nella stanza in ciabatte e camicia da notte. O meglio, questo è un sogno perché in realtà lui sta dormendo – e in quella situazione vede il calendario ancora fermo alla data del 30 aprile, la notte di Valpurga. Mentre già teme di dover riaprire le valigie alla ricerca degli abiti, la stanza diventa fredda e lui si trova davanti un uomo nudo dal colore scuro di pelle, una pelliccia attorno alle reni e una mitria nera sul capo.
E capisce che è Lucifero, il potere in grado di soddisfare i desideri, l’unico tra gli dei ad avere “le reni cinte; gli altri non hanno sesso”. Per questo lui solo può capire i desideri, anche se non sembrano avere a che fare con la sessualità, e dunque si presenta come “l’unico dio misericordioso”: però sente unicamente i desideri dell’anima e li porta alla luce, mentre è sordo a quelli “pronunciati dalle sole labbra dei cadaveri che camminano”, i quali di conseguenza hanno paura di lui. Dilacera i corpi se le anime lo desiderano, come un medico pietoso con membra incancrenite, mentre impone il vivere a chi solo a parole desideri morire. L’anima di Flugbeil e quella dei suoi avi “hanno desiderato il sonno dell’esistenza terrena” e dunque Lucifero li ha resi medici del corpo: ma lui sa cosa Flugbeil desideri, cioè di tornare giovane. Dubita del suo potere ma lui non lo abbandona perché sa che desidera con l’anima e per questo lui lo esaudirà. “L’eterna giovinezza è l’eterno futuro e, nel regno dell’eternità, anche il passato risorge – come un eterno presente…”. Ma mentre parla la figura è divenuta diafana, e al posto del cuore è comparsa una data, trenta aprile. Flugbeil cerca di strappare il foglietto, ma nel sogno non riesce e la notte di Valpurga può così imperversare ancora. Sprofonda nel sonno. In questo Lucifero che riapparirà a più riprese ritroviamo un archetipo narrativo già esplorato da Meyrink attraverso il golem dell’omonimo romanzo e il Chidher Grün del Volto verde, cioè una presenza disincarnata che muove gli eventi interpellando i personaggi: ma al contempo troviamo anche una versione onirica/metafisica dell’Usibepu del Volto verde, la figura dell’Ombra che funge da trickster spiazzando il lettore.
Alle cinque del mattino gli abitanti del Hradscin vengono solitamente svegliati dallo stridio di rotaie di un tram elettrico. Flugbeil vi è talmente abituato che, mancando quel suono si sveglia. Col cannocchiale il giorno prima ha visto le strade piene di gente urlante, e verso sera sulle colline a nord pareva essersi stagliata un’immagine spettrale dell’antico Zizka, accompagnata da un codazzo di voci: secondo le quali il carismatico condottiero hussita sarebbe risorto dalla morte, apparendo la notte nelle strade. In conformità con l’importanza del tema possessione, gli spettri conducono in questo romanzo un gioco persino più marcato che nei precedenti: Zizka e Polissena Lambua ne rappresentano le espressioni principali.
Flugbeil conosce il potere delle suggestioni collettive, e nel dormiveglia interpreta l’assenza del rumore del tram come segno di disordini – correttamente, perché è davvero esplosa una sommossa. Ma qualche ora dopo riceve dal domestico – è ancora a letto – il biglietto da visita del losco detective Stefano Brabetz. Che appare, grottesco com’è, bofonchiando qualcosa sulla contessina così sprecata con il giovane Vondrejc e insomma se volesse potrebbe facilitargli un incontro – al che Flugbeil rifiuta sdegnato, cosa gli viene in mente?, ma vorrebbe capire dove l’altro intenda arrivare. L’equivoco poliziotto privato spiega che così il medico non avrebbe più la necessità di andare da Lisa la boema, e allo sdegno di lui – non vi è andato certo per fini carnali – butta lì che c’è di mezzo una cospirazione e un sospetto di alto tradimento. Di cui Brabetz dovrebbe avvertire le autorità… e così spera di ricattarlo. Flugbeil ordina al domestico di buttarlo dalle scale, “e un secondo dopo poliziotto e domestico erano scomparsi, come in un film che si fosse improvvisamente interrotto” – dove torniamo alla vocazione cinematografica di quest’opera.
Ma a quel punto gli compare lì, con il vecchio cane Brock, il barone Elsenwanger buttandogli sul letto una busta ingiallita – vuota. “Purché non succeda!” si raccomanda stranito. La polizia, sostiene, è sulle sue tracce e i domestici, che lo sanno, se ne sono andati: ieri era stato da lui un tipo disgustoso, tale Brabetz, dicendo che Polissena era scappata via e cercando di ricattarlo. Brabetz è stato buttato giù dalle scale anche di quel palazzo, ma il barone è terrorizzato: ha trovato la temutissima busta forse lasciata dal fratello – ma non l’ha aperta – e teme di essere stato diseredato come evocato dalla pantomima di Zrcadlo. Ovviamente la servitù non l’ha lasciato per quello – tutta la città è in rivolta. Mentre il palazzo della contessa Zahradka è invaso dalle mosche… poi il barone se ne va, lasciando Flugbeil costernato per un altro amico ghermito dalla morte in vita. Quanto alle mosche, la contessa le paventava tanto che alla fine le ha evocate – e ripensa alle frasi sui desideri inconsci suggerite in sogno da Lucifero. Flugbeil capisce che deve partire, ma quando chiama la cameriera, invece di lei arriva la contessa Zahradka, che gli chiede come si carichi una vecchia pistola. Non vuole fuggire davanti a “quella canaglia” – la folla dei ribelli – e Polissena è sparita, forse fuggita con Ottokar. La contessa se l’aspettava… Anche da lei è comparso Brabetz tentando l’estorsione e finendo cacciato: ha affermato di sapere che Ottokar è un suo figlio illegittimo… Pare anzi che circoli la voce che lei ha avvelenato il marito e l’ha sepolto in cantina, e sostiene che tre persone siano penetrate nella cripta per dissotterrarlo (Flugbeil pensa piuttosto che cercassero il leggendario tesoro presuntamente nascosto lì) – ma lei si domanda se il dissotterramento di un morto dopo molti anni porti a un proliferare di mosche. Solo da un morto recente, spiega Flugbeil, e lei si allontana.
“Gli spettri della mia vita si congedano da me. Che orrore! In una città di dementi e di assassini ho lasciato intristire la mia giovinezza. E non ho visto nulla, non ho udito nulla. Sono stato un sordo e un cieco”. In più la servitù sembra sparita. Nella piazza sottostante non c’è nessuno, ma i ponti sono pieni di folla. Si risolve allora a cercare un paio di pantaloni nelle valigie, ma l’operazione si rivela tanto fallimentare – devono essere nell’unica che non riesce ad aprire – che alla fine, desolato, rimpiange di non essersi sposato. E soprattutto di aver cercato di far tacere goffamente un bisogno di intimità comprandosi ciabatte come fossero un regalo di qualcuno, e constata – come un pinguino, appunto – di non aver mai saputo volare. Soprattutto, “Lo si vede cercare per lungo tempo una chiave simbolica che crede perduta e che in realtà porta appesa al collo” (Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.): anche se poi, come rimprovera Scholem, con il suo mischione esoterico e lo straordinario clima reso sulla pagina, Meyrink ha soprattutto una rara capacità di épater le bourgeois. “Quest’ultimo rimprovero è quello in cui più facilmente può incorrere qualsiasi opera espressionistica, nella misura in cui si trova obbligata ad accumulare i fatti strani e gli interventi esterni, senza un legame causale visibile” (Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.). Il che non significa però esagerare la presunta gratuità di queste soluzioni drammatiche:
Semplicemente, questa logica non è sufficientemente smontata, ricostituita, resa esplicita e posta in rapporto con una genetica della coscienza. Nella sua biografia, Eduard Frank fa opportunamente notare che in Meyrink non si ha l’impressione di una successione di opere in svolgimento lineare, di modo che si può dire che tutto accada come se egli avesse cominciato a scrivere solo una volta portato a compimento il proprio sviluppo interiore. Ci accorgiamo infatti che i suoi successivi romanzi traggono ispirazione dalle diverse discipline esoteriche – cabala, yoga, taoismo, alchimia – studiate nel corso della sua vita; questi romanzi però, come dice Eduard Frank, sono come raggi diversi di una stessa sfera e partono tutti da un medesimo centro definitivamente conquistato. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.]
Al successivo bussare alla porta, a comparire è invece Lisa la boema. Dapprincipio il medico vorrebbe investirla a male parole o almeno chiederle di cercare i suoi pantaloni, ma lei si scusa per essere lì, nessuno l’ha vista entrare, però se necessario è pronta a gettarsi dalla finestra per non ispirare cattivi pensieri su di lui.
Dapprima infastidito, Flugbeil si rende poi conto che rispetto al panorama di idioti e disonesti la povera Lisa mantiene una dolente dignità; e non può sopportare, aggiunge, che patisca la fame. Lei lo fa tacere e spiega che lui deve fuggire, ne va della sua vita. La gente è impazzita e il tamburo che ode battere, il tamburo di Zizka, è confezionato con la pelle di Zrcaldo, uccisosi nella stanza di lei – diventando così un’ennesima maschera di possessione – mentre Ottokar è stato proclamato re. Stanno massacrando tutti i sodali dell’aristocrazia, Lisa ha visto un tipo curvarsi e bere il sangue corso dagli spurghi… e ora è in ansia per il vecchio amante. Lui cerca di tranquillizzarla, stia serena e mangi qualcosa, ma lei ribatte di non stare sragionando: i ribelli sono giunti alla piazza dei Walsdtein, i servitori lealisti erigono barricate guidati da Molla Osma, “il Tartaro del principe Rohan”, ma il Hradscin è stato minato e può esplodere… Lui fatica a non crederla fuori di sé, i soldati arriveranno in fretta: non così in fretta, oppone lei, e sarà tardi. Gli fa venire in mente che la chiave che ha al collo possa essere quella della valigia che non riesce ad aprire, e così lui riesce a vestirsi. È commosso che, abbandonato da tutti, proprio Lisa corra da lui per salvarlo: e le ventila di ingaggiarla al proprio servizio, potranno raggiungere un piccolo centro dove nessuno li conosce… Si commuovono entrambi, Lisa vorrebbe baciargli le scarpe.
Ma dopo un momento lei si riprende, e appare diversa sia della vecchia cadente del “Nuovo Mondo” che dalla donna di un tempo. È venuta lì, gli dice, per indurlo a fuggire prima che sia troppo tardi, ma anche per un altro motivo che aveva dimenticato. Una delle ultime sere, le era caduto il ritratto di lui e s’era spezzato: disperata, era corsa da Zrcadlo a farsi aiutare, il sonnambulo era ancora vivo. Per parecchio tempo era stato capace di restarle vicino nel suo modo peculiare, assumendo per lei il sembiante – volto, voce – del medico tanto amato (un’aweysha anche in quel caso): ma quella sera non si era trasformato in Flugbeil, bensì in un alto, a lei sconosciuto. “[…] un essere nudo, coi fianchi ravvolti da una pelle, magro, con qualcosa di nero e di alto sulla testa, che tuttavia sfavillava nell’oscurità” – cioè lo stesso Lucifero sognato da Flugbeil. La figura così epifanizzata le aveva detto di rallegrarsi che il ritratto si fosse spezzato, in quanto immagine menzognera. Poi le aveva parlato di un’immagine vivente nel suo petto, che mai si sarebbe infranta. E ora lei confessa al vecchio di averlo amato come lui neppure può immaginare, lui solo: e poco prima le ha offerto l’immagine più bella che potesse darle. Si congeda dunque da lui, augurandogli di essere felice. Flugbeil cerca di trattenerla, ma un’esplosione lacera l’aria, il fedele Ladislao si precipita annunciando che i ribelli stanno occupando Palazzo Reale e la città sta per esplodere. Il vecchio medico vorrebbe una spada per combattere, ma il domestico gli impedisce di uscire a farsi ammazzare. Lisa è fuggita, il servo aiuta il padrone a finire di vestirsi, per farlo scappare – ma, nell’attesa del momento giusto col buio, per prudenza lo chiude dentro a chiave.
Diviso tra furia e rassegnazione, Flugbeil è anche scisso sulle reazioni verso Lisa e sulla stessa proposta che le ha rivolto. E mentre fuori la rivolta infuria, medita che quello sarà il suo ultimo viaggio. Presente che a quella notte di Valpurga della sua vita seguirà un giorno radioso, senza più spazi alla vergogna. Si fa la barba con attenzione, e per il viaggio sceglie l’uniforme di gala, non più indossata da anni. A quel punto scrive sulla busta vuota lasciatagli da Elsenwanger – come da lui richiesto – che gli appartiene, inserisce in una postilla del testamento che lascia denaro e titoli a Lisa o, se deceduta, al domestico Ladislao, e vieta di seppellirlo a Praga. Conclude poi il diario di famiglia (non ha eredi) e nota un pacchetto abbandonato da Lisa: contiene un fazzoletto con le iniziali di lei ed è lo stesso a cui ha pensato tanto intensamente al “Rospo Verde”.
A quel punto – è ormai sera – il domestico lo libera e lui può raggiungere la carrozza. In quel momento non c’è pericolo, sono tutti al duomo dove Ottokar III Borivoj “sta per essere coronato Imperatore del mondo”. Flugbeil ordina però al perplesso cocchiere di portarlo anzitutto al “Nuovo Mondo” da Lisa: ma quando vi giunge, trova delle donne attorno alla bara di lei, uccisa con un colpo alla testa mentre tentava di impedire l’accesso al Palazzo. Per difendere il vecchio amante… Così Flugbeil solleva quella testa sfondata tra le mani e la bacia in fronte, poi torna a coricarla e ordina al cocchiere di andare avanti.
Evitando la via provinciale, prendono la via dei campi. Ma nel buio, a un tratto, l’asse della carrozza si rompe. Allora Flugbeil scende e procede a piedi, invano richiamato dal cocchiere: si arrampica su una scarpata, prende a percorrere dei binari… e quando ode tremare il suolo come al rumore di gigantesche ali invisibili, vagheggia siano le sue, che finalmente gli permetteranno di volare. Poi, vedendo arrivare qualcosa di scuro con piccoli punti rossi, immagina sia “colui che esaurisce ogni desiderio” e ringrazia il cielo. Ma è la locomotiva del treno di soldati bosniaci: “Un minuto dopo la macchina lo aveva travolto e sfracellato”. Il fatto è che
le sue ali non sono ancora che moncherini, ed anch’egli quindi, credendo di poter volare via, soccomberà in un fracasso di ferraglia. È un personaggio simpatico e ottimista, Flugbeil, e l’autore, che non ha abbastanza nero per annerire la sua Notte, lo tratta con una dolcezza singolare, e sempre in modo sfumato. Nello scatenamento dei fantasmi e dei vampiri, La Notte di Valpurga non è un libro in cui si respiri agevolmente, ma grazie a Flugbeil e all’amante decaduta che ne è il supporto tantrico, grazie anche al suo fedele valletto e al cane Brock, si ode a tratti quel che Zrcadlo, abitato in questo caso da una memoria angelica, chiama il canto dell’usignolo. [Raymond Abellio, La Notte di Valpurga, cit.]
E si arriva così all’ultimo capitolo, Il tamburo di Lucifero: con Polissena che, nella sacrestia del duomo, viene rivestita di un’antica, consunta e preziosa veste rubata al tesoro imperiale. “Gli ultimi giorni erano trascorsi per lei come un sogno”, da quando era fuggita dalla Daliborka per tornare alla casetta dove l’amato giaceva svenuto: l’ha vegliato tutta la notte con il proposito di non lasciarlo più e ha archiviato tutto il proprio passato come vissuto non da lei ma da un’immagine disanimata. Di lì le immagini di Zrcadlo trasformato in Jan Zizka – o almeno ciò viene creduto dalla gente e da Ottokar, mentre lei sa che sono ricordi tramite i quali lei involontariamente fa aweysha su di lui, diretta dall’antenata Polissena Lambua. O forse è stato un effetto della preghiera udita nella Corte dei Tigli, che anche solo per un’ora Ottokar sia incoronato; ma di nuovo sotto sotto, ad agire è una schiatta di incendiari assetati di sangue, che attendono gli orrori che si compiranno… e la ragazza prevede che lo spettro di Zizka condurrà gli allucinati alla morte. Da sogno assurdo, attraverso l’aweysha si compie la realtà: Zrcadlo/Zizka comanda di incoronare del ragazzo, di fare un tamburo con la propria pelle e poi si uccide… e Polissena si ferma ad assistere alla sanguinosa opera del conciaiolo.
Poi altre immagini: Ottokar che l’abbraccia promettendole meraviglie e rendendola immortale tramite un figlio che lei sente di aver accolto in sé; i nuovi Taboriti che li portano in trionfo per strade fitte di bandiere rosse, e le pare estraneo il nome Polissena scandito dalla folla, probabilmente per influsso dell’antenata; e il tamburo rullante del conciaiolo Havlik, che davanti alla folla digrigna i denti in una ferocia estatica. Chi cerca di resistere loro viene massacrato e Polissena è felice che Ottokar – sorretto in alto verso il duomo – non sia responsabile di quel sangue, ma tutto venga dall’immagine vivente nel petto di lei.
Ora lì a San Vito Bozena le bacia la veste con orgoglio e fierezza (nessuna gelosia per il partner che le ha rapito); poi Polissena assiste all’omicidio del prete che ha rifiutato di benedire il matrimonio con Ottokar, e all’ingresso forzato di un monaco – quello che faceva la guida nella cripta di san Giorgio –pronto a unirli ma non davanti all’altare. Lei sa che dopo il rito uccideranno anche lui, spinti dallo spettro di Zizka…
Porgono a Ottokar l’antico scettro del duca Borivoj I (più precisamente Bořivoj, primo duca di Boemia storicamente documentato, circa 852-889), i due nubendi si inginocchiano, il rito si compie. Al termine tra la folla si reclama a gran voce la corona imperiale, conservata al palazzo Waldstein: i due sono sollevati a spalle e Polissena è ansiosa di vedere le mitragliatrici dei soldati fare strage della folla pronta a entusiasmo e saccheggio. Prega solo che Ottokar non si desti dal suo assopimento interiore, mentre è indifferente sulla propria sorte.
Visto che la porta del palazzo Waldstein è stata barricata, la sfondano con una trave ed entrano, trovandovi il cavallo impagliato di Wallenstein. Ottokar vi viene caricato sopra, mentre il palazzo è vandalizzato. La corona però non si trova, pensano debba averla la contessa Zahradka: così, intonando un selvaggio canto hussita, sollevato Ottokar sul cavallo rigido, puntano al palazzo della vecchia aristocratica. L’ingresso della via è bloccato dai resistenti guidati dal tartaro Molla Osman: per proteggere Ottokar, Polissena fa allora dilagare l’aweysha tra le lorio file, spargendo il panico. L’unico a non subire l’influsso è il Tartaro, che spara abbattendo il conciaiolo e zittendo il tamburo. Questo però prende a rullare da solo…
L’ondata si riversa avanti, a Polissena pare di vedere la figura spettrale di un uomo nudo, mitrato, come intento a percuotere un tamburo invisibile: ora è alla fine della strada, come formato di fumo. Ma a quel punto dal balcone appare la contessa Zahradka, gridando di andar via. La folla strilla che deve dare la corona a suo figlio e Polissena giubila che Ottokar sia della sua stessa schiatta: allora la contessa sparisce un attimo, poi torna al balcone. Ottokar la chiama mamma, lei ribatte: “Ecco la tua corona, bastardo” e fa fuoco, uccidendolo. Polissena si china sul volto da bimbo dello sposo morto, la folla prende d’assalto il palazzo e gli dà fuoco – ma poi retrocede gridando che arrivano i soldati.
A quel punto il Tartaro ricompare, esorta Polissena a seguirlo e la conduce al sicuro tra le file dei soldati bosniaci. Sapendosi incinta di Ottokar, di una stirpe che non muore, non si è abbassata nemmeno per evitare le pallottole – ed è restata illesa. Tutto è devastato e lei vaga per le vie deserte con la sensazione di udire il rullio dell’uomo mitrato. Anche Palazzo Elsenwanger è devastato, l’antica immagine di Polissena ha trovato la pace: la giovane raggiunge il convento del Sacro Cuore e vi si ritira. La donna sadica Polissena – uno degli archetipi o piuttosto stereotipi femminili delle storie di Meyrink – conclude così la sua parabola narrativa: il suo rifugiarsi pacificante tra le mura dove ha sviluppato l’abbinamento tra amore e sangue lascia un retrogusto di fondamentale ambiguità. La donna sadica tornerà del resto con altra identità nella produzione di Meyrink.
Intanto nella stanza di Flugbeil il domestico Ladislao piange la morte del padrone assieme al vecchio cane. Nota a un tratto che aveva dimenticato di strappare i foglietti dei giorni passati dal calendario, e nell’aggiornare al 1° giugno vola via anche quello della Notte di Valpurga.
Ma come i giorni, anche gli anni stanno passando. Quelli della guerra, durante il cui intero periodo l’opera di Meyrink è oggetto di violenti e velenosi attacchi sulla stampa: la sua casa e lui stesso si trovano presi a sassate, e la sconfitta degli Imperi centrali rappresenta una crisi epocale per il mondo attorno a lui – che ne viene drasticamente ridisegnato. Mentre, su un versante anche più intimo, nel 1919 Gustav rifiuta di tornare nella famiglia del barone padre Karl von Varnbüler: anche quel passato è chiuso. Certo, non mancano riconoscimenti: i tre film di Paul Wegener tratti dal Golem – Der Golem, da lui diretto con Henrik Galeen, 1915, Der Golem und die Tänzerin, coregia di Rochus Gliese, 1917 e infine Der Golem, wie er in die Welt kam, coregia di Carl Boese, 1920 – per quanto liberi costituiscono la prova concreta di un successo popolare. Ma per il Meyrink di nuovi romanzi su lavoro interiore e sapienze segrete dovremo attendere il 1921, con Il domenicano bianco.
(10-continua)