di Gioacchino Toni

Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Traduzione di Niccolò Casens, Prefazione di Stefano Allovio, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, pp. 100, € 15,00

Che nelle società ipermoderne si guardi sempre meno all’attività ludica come a un ambito necessariamente improduttivo, dunque estraneo alle logiche del lavoro, è sempre più evidente. Ad evidenziare come all’idea di gioco che lo vuole fine a se stesso si stia sostituendo un pianificato ricorso alle modalità proprie dell’universo ludico e al suo potenziale motivazionale con lo scopo di ottenere obiettivi comportamentali profittevoli esterni a esso è il diffondersi, a partire dall’aprirsi del nuovo millennio, del fenomeno della “gamification”. Molto più semplicemente, si pensi a come alla spontaneità del calcio giocato dai bambini nelle strade e nei parchetti, con le giacche o gli zaini a fare da pali delle porte inesistenti, si stiano sostituendo le “scuole calcio” a cui i genitori iscrivono i figlioletti non appena sono capaci di stare in piedi con la malcelata speranza di rendere “produttivo” quello che dovrebbe essere il gratuito e spontaneo divertimento dei bambini.

Il soffocamento del gioco improduttivo ha però una lunga storia ed ha certamente a che fare con l’avvento dello sport moderno nato nelle scuole inglesi come dispositivo finalizzato alla creazione di élite e gerarchie che ha esacerbato lo spirito di squadra, il cameratismo e l’attitudine al comando, ossia tutto ciò che, come sostiene l’antropologo Philippe Descola nel volume-intervista Lo sport è un gioco?, «è necessario al buon funzionamento della solidarietà dei dominanti in una società di classi, e anche in una società di caste […] costituita da una molteplicità di strati sovrapposti che comunicano abbastanza poco tra loro… Solamente le grandi operazioni come la guerra o le celebrazioni sportive permettono di superare queste barriere di casta»1.

Nei primissimi anni Settanta, la studiosa Ulrike Prokop2, legata alla Scuola di Francoforte, intendendo demistificare la retorica olimpica a partire dall’ideologia pedagogico-sportiva del fondatore dei Giochi olimpici moderni, De Coubertin, evidenzia come il modello pedagogico di riferimento per il francese sia quello promosso a metà Ottocento dal reverendo Thomas Arnold che, per arginare le turbolenze degli allievi nel collegio da lui diretto, ricorre allo sport come a una «forma di “concorrenza regolata”, basata su criteri “oggettivi” che legittimano la formazione di gerarchie. Prestazioni valutate secondo criteri “neutrali” portano gli studenti ad accettare come “naturali” le posizioni di potere scaturite dalle competizioni. Ad una situazione caotica, che degenera in contrasti spesso violenti tra gli allievi, si sostituisce così una disciplina fondata sull’autocontrollo. […] Prokop vede nel modello della “concorrenza regolata” e della disciplina autoimposta desunta da Arnold il fondamento della concezione decoubertiniana dello sport, cardine di un progetto pedagogico di ispirazione positivista funzionale alla creazione di una società armonica nella quale gli individui sono portati a riconoscere l’autorità “oggettiva” della tecnocrazia». Insomma, secondo Prokop si tratterebbe di «un modello di democrazia “formale” che cela, dietro un’apparente uguaglianza, sostanziali stratificazioni sociali rappresentate come “leggi naturali”»3.

La preoccupazione di matrice positivistica per la coesione e la pace sociale di De Coubertin, secondo Prokop, è facilmente ravvisabile anche nei progetti pedagogici per le masse operaie (il “Ginnasio greco” e le “Università operaie”) che il francese elabora dopo la prima guerra mondiale con il fine, secondo la studiosa, di contenere i conflitti sociali e il potenziale rivoluzionario del proletariato.

All’interno del clima di generale messa in discussione della società che caratterizza il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta del Novecento, le critiche all’universo sportivo mosse da Prokop si affiancano ad altri interventi che, attingendo a diverse fonti teoriche, dal marxismo alla psicoanalisi, mettono in discussione lo sport e la cultura del corpo della società capitalistica denunciando come l’invito alla pratica sportiva celi un intento educativo di stampo repressivo. Si possono vedere a tal proposito gli scritti Pierre Laguillaumie, Ginette Bertrand, André Redna e Jean-Marie Brohm, usciti sulla rivista francese “Partisans” e pubblicati in Italia nel volume Sport e repressione, e del sociologo tedesco di ispirazione francofortese Gerhard Vinnai, il cui saggio Il calcio come ideologia. Sport e alienazione nel mondo capitalista viene pubblicato in Italia nel 1970. Si tratta di testi che, nella loro critica allo sport inserito nella dimensione dell’industria, del “campionismo”, dell’individualismo, della spettacolarizzazione e della ricerca del risultato ad ogni costo, hanno contribuito a formare una visione critica dello sport nell’associazionismo sportivo italiano di sinistra, come l’ Uisp, e di matrice cristiana, come il Csi, che, proprio in quegli anni, sviluppano una visione politica e sociale radicalmente alternativa dello sport, come attestano gli interventi che compaiono sulle rispettive riviste (“Il Discobolo” e “Stadium”) e nel saggio di Claudio Bucciarelli Lo sport come ideologia: alienazione o liberazione?, uscito nel 1974. Sebbene, letti a distanza di anni, tali saggi appaiono viziati da forzature ideologiche che restituiscono un’immagine riduttiva del fenomeno sportivo, rappresentano però i primi importanti tentativi di guardare criticamente allo sport prospettando una visione e una pratica di esso meno votata alla performance e più inclusiva4.

Visto che l’Occidente ha imposto al resto del mondo – tra le altre cose – il suo modello di sport competitivo caratterizzato da individualismo, diseguaglianze e sentimenti nazionali esasperati, confrontarsi con l’idea di gioco propria di mondi altri, lontani e residuali può essere utile ad una riflessione sullo sport moderno. Quando, ad esempio, gli achuar dell’Amazzonia ecuadoriana osservati dall’antropologo Descola – come del resto avviene in altere società “non moderne” – affrontano una partita di calcio, ad essere importante per loro non è il prevalere sull’altra squadra ma il gioco in sé, consistente nel segnare evitando che la partita conduca a diseguaglianze.

“Gioco” è una nozione ampia di cui si sono occupati pionieristicamente Johan Huizinga,5 che ha insistito sulla sua natura pre-sociale e ne ha sottolineato l’importanza nella cultura europea, e Roger Caillois6, che ha proposto una classificazione del gioco in base al predominare della competizione (agon), del caso (alea), della mimica (mimicry) o della vertigine (ilinx). Interessanti riletture di questi testi pionieristici alla luce del contesto videoludico contemporaneo sono state prodotte da Alexander Lambrow7, che contesta l’enfasi con cui Huizinga insiste sull’autonomia del gioco, per quanto sottolinei come vada riletta e motivata alla luce del contesto storico-politico in cui è stata espressa, e Lars Kristensen insieme a Ulf Wilhelmsson8, che mettono in relazione l’improduttività del gioco, dunque il suo distinguersi dal lavoro, espressa da Caillois con la lettura del sistema capitalista proposta da Marx.

Consapevole di quanto sia difficile individuare una definizione generale di gioco, da parte sua Descola, a partire dalla sua conoscenze di antropologo, ritiene sia necessario «distinguere il gioco come attività di emulazione e apprendimento che viene praticata nell’infanzia e nell’adolescenza, che è universale e che va oltre le frontiere dell’umanità»9 – visto che è riscontrabile anche tra altre specie animali –, da un gioco più sistematico e regolamentato, praticato soprattutto dagli adulti, di natura rituale, consistente «nella cooperazione tra due gruppi di persone che sono generalmente molto ben definite: dei lignaggi distinti, dei gruppi di filiazione, dei rappresentanti di diversi villaggi ecc. L’idea di cooperazione è più importante di quella di competizione; si tratta di collaborare a un’azione comune, di mettere in atto un processo che va oltre la volontà individuale di tutti i partecipanti»10.

Tra gli achuar, ma in generale in tutta l’Amazzonia, sostiene Descola, «si fa ricorso al gioco come attività di svezzamento, di apprendimento di ciò che è utile per la vita e di assimilazione delle tecniche, caratteristica dell’infanzia e dell’adolescenza»11. Ad esempio si fanno giocare i bambini di cinque-sei anni con mini cerbottane in bambù con palline d’argilla affinché, divertendosi, apprendano un’abilità tecnica a cui faranno ricorso quando, un po’ più grandi, si confronteranno con cerbottane più grandi per la caccia da appostamento, dunque, una volta cresciuti, possano destreggiarsi con la versione per adulti.

In queste società la caccia non si risolve semplicemente nell’atto del colpire la preda, ma presuppone innanzitutto trovare l’animale e adottare il suo punto di vista per avere la meglio su di esso e questo, ricorda l’antropologo, è ciò che si fa anche quando si gioca, ad esempio, a scacchi. In questi casi è dunque possibile assimilare la caccia al gioco.

Nelle società animiste anche la guerra “a bassa intensità”, consistente in raid di vendetta e scontri tra un numero limitato di individui, è stata a lungo un’attività che, come la caccia, presuppone la capacità di mettersi nei panni dell’altro. «In un certo senso, si potrebbe pensare che, nell’animismo, il gioco inteso nel senso della seconda definizione, il gioco collettivo diciamo, viene sostituito da attività di questo tipo: la caccia, la guerra, la pesca, che sono attività di emulazione, di competizione, che presentano dei rischi – spesso ne risulta un’uccisione – che prendono il posto del gioco»12.

Se il gioco ha scarsa rilevanza nelle società riconducibili a una ontologia “animista”, sostiene l’antropologo, risulta invece importante nelle società basate su sistemi “analogisti” – come nel mondo andino, in Messico, in gran pare dell’Asia Centrale e in Africa – in cui ha una funzione rituale, oltre che propedeutica. Si tratta di giochi in cui si compiono operazioni mentali con degli oggetti, che spesso prevedono una sfida tra due persone o tra gruppi che si affrontano faccia a faccia, propedeutici nel senso che predispongono a rintracciare legami tra elementi disparati.

Facendo riferimento alla sua esperienza tra gli achuar amazzonici, Descola ricorda che se un tempo tali giochi rituali erano ancora trasposti nella guerra e nella caccia, successivamente, poco a poco, le cose sono cambiate anche per l’introduzione nella loro società, da parte dello Stato nazionale ecuadoriano, del calcio e dell’Ecuavolley (una variante della pallavolo che si gioca in tre). In entrambi i casi, ha notato l’antropologo, gli achuar giocano senza porsi lo scopo della vittoria di una squadra sull’altra. Nel gioco del calcio da loro praticato tutti corrono dietro al pallone, portieri compresi, e le squadre hanno un numero di partecipanti variabile e non regolamentato; «ciò che conta, in fondo, è il gioco, prendere palla e segnare un gol»13, non farne uno in più dell’altra squadra. Ciò era già stato rilevato da Lévi-Strauss nei giochi con la palla arrivati tra i gahuku-gama in Nuova Guinea e lo stesso accade nel cricket praticato nelle isole Trobriand al largo della stessa nazione. Si tratta evidentemente di un’idea di gioco che privilegia l’attività ludica rispetto al risultato.

Lo sport, così come lo conosciamo e pratichiamo nelle società moderne ed ipermoderne, tende a rivelarsi un’attività di gioco particolare visto che presenta una serie di regole codificate e prevede competizioni orientate a uno specifico obiettivo: avere la meglio su altri partecipanti. Pur trattandosi di un’idea di gioco esclusiva al mondo moderno, è però all’interno di quest’ultimo che più marcatamente il conseguimento del risultato tende a soffocare l’attività meramente ludica.

«Mettere a confronto lo sport moderno con il gioco presso gli achuar o gli aztechi», scrive Stefano Allovio nella Prefazione al volume Lo sport è un gioco?,

ha la forza, per opposizione, di rendere chiara la stretta connessione fra la competizione sportiva e una specifica concezione dell’individuo emerso nella modernità: un individuo proprietario del proprio corpo e focolaio non solo della propria emancipazione e della propria libertà, ma anche [come afferma Descola nel libro] “focolaio di una competizione per acquisire beni, prestigio ecc.”. L’individualismo moderno “è racchiuso in maniera evidente e in modo permanente in quei dispositivi di competizione che consistono nell’acquisire dei vantaggi rispetto ad altri […]. Lo sport è la quintessenza intinta di bellezza di questo meccanismo. Ed è in questo che lo sport è diverso dal gioco”14.

Confrontarsi con «logiche differenti, sistemi di relazioni diversi e schemi collettivi altri, concernenti anche i contesti in cui si sviluppano e assumono senso le attitudini motorie» – sottolinea Allovio –, «permette di cogliere meglio le logiche e le epistemologie in cui ci troviamo e in relazione alle quali assistiamo storicamente all’affermarsi dello sport moderno»15.

Riflettendo su come si è evoluto lo sport in termini sempre più competitivi, mediatizzati e mondializzati allontanandosi dalla sfera del gioco, Descola ricorda come nei sistemi totalitari del Ventesimo secolo lo sport sia «stato considerato come un elemento di fierezza e di identificazione con degli eroi»16 e come, sin dagli anni Trenta, sia stato piegato alle ideologie nazionali o identitarie.

Quello che è cambiato, penso, da una ventina d’anni a questa parte – e non sono il solo a riscontrarlo –, è l’espansione, l’irruzione del capitale finanziario nello sport e il fatto che la selezione passi, in particolar modo per le grandi squadre di calcio, dal denaro e dalla capacità di attirare dei giocatori di eccezione. Lo sport così si ritrova in un certo senso spaccato a metà tra la pratica che ciascuno di noi può sperimentare all’interno di federazioni, grazie a un sistema che funziona relativamente bene, che è relativamente democratico, e poi una sorta di microsocietà d’élite nella quale questi stessi meccanismi, tutto d’un tratto, non funzionano più. A livello locale dei club sportivi, la maggior parte delle federazioni funziona bene ma, quando si giunge a quel livello in cui si gestiscono somme ingenti di denaro, i criteri, in particolare quelli morali, elementari, propri della vita civica, della vita comunitaria, scompaiono. È chiaro che le squadre finaliste, nel calcio, sono le squadre più ricche. La cosa va da sé17.

Descola si sofferma anche su come, in un contesto come quello contemporaneo caratterizzato dal trionfo dell’individualismo e da un certo modello di competizione sportiva, lo stadio risulti, con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, comunque uno dei pochi luoghi pubblici che permette agli individui di fuoriuscire dalla loro sfera privata e di socializzare, di passare «dal dominio di interesse a loro proprio, per proiettarsi verso un progetto comune che è quello della loro squadra di calcio» sancendo un momento di rottura «con l’attitudine del consumatore esclusivo»18. Alla luce dei rischi di identificazione identitaria costruita per contrapposizione – basti pesare a quanta nefasta retorica nazionalista si possa creare attorno a tali fenomeni con i media che, spesso, non si “limitano” a fare da grancassa –, nulla di cui compiacersi a cuor leggero, aggiunge l’antropologo, ma la frequentazione dello stadio resta una delle rare occasioni per uscire da se stessi.


Sport e dintorni


  1. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2024, p. 37. 

  2. Ulrike Prokop, Soziologie der Olympischen Spiele. Sport und Kapitalismus, 1971. Il saggio viene pubblicato in traduzione italiana alla vigilia dell’apertura delle Olimpiadi di Monaco con il titolo Olimpiadi dello spreco e dell’inganno, Guaraldi, Bologna, 1972. 

  3. Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica. Una stagione di conflitti 1968-1978, Mimesis, Milano-Udine, 2018, pp. 119-120. 

  4. Per una disamina di tale fenomeno si rimanda al saggio: Alberto Molinari, Gioacchino Toni, Storie di sport e politica, cit. 

  5. Johan Huizinga, Homo ludens. Proeve eener bepaling van het spel-element der cultuur, H.D. Tjeenk Willink, Haarlem 1938; tr. it. Homo ludens, Einaudi, Milano, 2002. 

  6. Roger Caillois, Les Jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Paris 1958, tr. it. I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Giunti, Firenze, 2017. 

  7. Alexander Lambrow, Prendere i giochi sul serio: Johan Huizinga, Carl Schmitt e la relazione tra il gioco e la politica, in Matteo Bittanti, Reset. Politica e videogiochi, Mimesis, Milano-Udine, 2023, pp. 73-98. 

  8. Lars Kristensen, Ulf Wilhelmsson, Roger Caillois e il marxismo: la prospettiva dei game studies, in Matteo Bittanti, Reset, cit., pp. 79-133. 

  9. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 12. 

  10. Ivi, p. 13. 

  11. Ivi, p. 15. 

  12. Ivi., p. 20. 

  13. Ivi., p. 24. 

  14. Stefano Allovio, Prefazione a Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. XX. 

  15. Ivi, p. XXII. 

  16. Philippe Descola, Lo sport è un gioco?, cit., p. 50. 

  17. Ivi, pp. 50-51. 

  18. Ivi, p. 56.