di Franco Pezzini

[Anche questo ottobre riprendono a Torino i corsi popolari, gratuiti e libertari della Libera Università dell’Immaginario: il programma comprende la seconda stagione dell’Odissea e la seconda di James & James – Fantasmi, un esame in ordine cronologico della produzione di ghost stories di Henry James & Montague Rhodes James, entrambe a cura di chi scrive e dell’iconografa Chiara Meistro. Si propone qui parte del contenuto di una delle ultime puntate dell’anno passato. Per le citazioni, si segue l’edizione Henry James, Racconti di fantasmi a cura di Leon Edel, Einaudi, Torino 1988, e per l’edizione italiana di Maria Luisa Castellani Agosti.]

Il racconto di Henry James “The Private Life” è un testo molto strano, godibilissimo a leggersi – quasi una commedia brillante – ma destinato a perdere moltissimo con un riassunto. Il tentativo sarà di recuperarne comunque la potenza allusiva e di metafora, condotta attraverso soluzioni narrative nuovamente assai singolari: il racconto di fantasmi diventa così una felice formula per una satira sociale che sa graffiare più a fondo, raggiungendo la meditazione sull’identità. Il racconto, attestano i Taccuini, viene immaginato il 27 luglio 1891: la stesura precede “Nona Vincent” e probabilmente anche “Sir Edmund Orme” anche se il testo viene pubblicato dopo, sull’Atlantic Monthly nell’aprile 1892 e in seguito nella raccolta The Private Life and Other Stories (1893) – seguiamo qui la forma rivista per la “New York Edition” (1907-1909, add. 1917).

La storia si svolge in Svizzera, dove un gruppo di esponenti del mondo culturale di Londra si trova fortuitamente riunito. Ci sono Lord e Lady Mellifont, il grande scrittore Clare Vawdrey e l’immensa attrice Blanche Adney: gente tanto richiesta in società da doverla “prenotare” con sei settimane di anticipo e che ora invece è per caso tutta lì. Anche il narrante fa parte dello stesso mondo ma in quel contesto la compagnia è quasi stupita dallo scoprire le persone più “umane” di quanto non sembri a Londra.

Un giorno, riuniti sulla terrazza dell’albergo per prendere “secondo lo strano uso tedesco, il caffè prima del pasto”, notano quasi di sfuggita la lunga assenza di Lord Mellifont e della signora Adney. Il fatto è che Clare Vawdrey – nome d’arte Clarence – sta parlando, e tutti lo ascoltano: un uomo cordiale, sano e ciarliero, che non parla mai di sé e per nulla avido di omaggi. Ma a un tratto Lady Mellifont chiede al narrante se abbia idea di dove suo marito e la signora Adney siano finiti. Milady è sempre pallida, incolore e sempre vestita di nero: “Nascondeva un segreto” e appare rassegnatamente malinconica. Il narrante spiega che si sono allontanati per una passeggiata un’ora prima, e le propone di chiedere informazioni al marito della signora Adney. Questi è un piccolo compositore, già modesto violinista nel teatro dove lei recitava e di cui aveva favorito la carriera; una specie di buon bambino cinquantenne che sostiene al meglio la parte di marito della diva, rendendola presente nella propria musica, anche se non è in grado di scrivere per lei un testo teatrale. Ma Lady Mellifont preferisce non far vedere di essere inquieta, come – ammette – è di solito quando il marito si allontana a lungo, “Non so esattamente che cosa temo: ho la sensazione generica che non debba più ritornare”.

Poco dopo vedono apparire la signora Adney senza di lui, ma con l’aria tranquilla: l’ha lasciata – spiega – pochi minuti prima, è rientrato in casa. Il narrante coglie però negli occhi dell’attrice, un messaggio come “Sì, ma un incidente c’è stato. Ve lo dirò forse più tardi”. La moglie conclude che Milord sarà andato a vestirsi per il pasto: e poi il narrante ci descrive questo nobiluomo di straordinaria presenza, uomo di mondo dall’impeccabile abbigliamento, con “un costume per ogni funzione e una morale per ogni costume”, di cui il romanziere Vawdrey conosce tutta la vita “quasi dai suoi primi passi nel mondo” sgranata in aneddoti – come di consueto le narrazioni su Lord Mellifont, sempre amabile e imperturbabile.

 

Personalmente, quando si parlava di lui, avevo sempre l’impressione che si parlasse di un morto: la conversazione era contrassegnata da quella particolare accumulazione di fatti significativi. La sua reputazione era una sorta di obelisco dorato, come fosse stato sepolto lì sotto: la somma di leggende e di reminiscenze di cui egli sarebbe un giorno stato oggetto si era cristallizzata in anticipo.

L’ambiguità derivava, suppongo, dalla circostanza che il solo suono del suo nome e l’aria della sua persona, l’aspettativa generale che egli creava, avevano in certo modo un tono così romantico e anormale. L’esperienza della sua urbanità veniva sempre dopo; la previsione, la leggenda, impallidivano di fronte alla realtà. Ricordo che la sera di cui parlo quella realtà mi colpì come suprema. Il più bell’uomo del tempo non avrebbe potuto competere con lui, e sedeva tra noi come un tranquillo direttore d’orchestra, il quale domini col modo armonioso del braccio un’orchestra ancora un po’ grezza. Guidava la conversazione con gesti non meno irresistibili che vaghi; si sentiva che senza di lui non avrebbe avuto niente che si potesse chiamare “tono”. Era questo essenzialmente il suo contributo in qualsiasi occasione – il suo contributo, soprattutto, alla vita pubblica inglese. […] Egli era tutto stile.

 

A confronto, la conversazione di Vawdrey fa “pensare al cronista di fronte al poeta”.

L’attrice, quarantenne, vorrebbe che Vawdrey scrivesse una commedia tutta per lei, portandola a quel ruolo eccelso che ha finora soltanto sognato, sulla base di un canovaccio di trama più sottile. Il problema, a giudizio del narrante, è che il romanziere ormai maturo non è in grado di scriverla. Meraviglioso è il ritratto “di questa donna incantevole, che era bella senza bellezza e completa con almeno una dozzina di deficienze”, da tutti ammirata, sorta di dipinto uscito dalla cornice per le strade del mondo, perpetua sorpresa e anzi miracolo per una società senza acume.

In realtà Vawdrey, a cui lei piace, ha iniziato a scrivere una commedia per lei, e per la stessa ragione tira in lungo l’opera: ora afferma di aver composto il terzo atto. Il problema è che ha passato il tempo a tener banco, prima ha giocato a biliardo, il giorno prima aveva detto di non aver prodotto nulla… per cui gli amici mostrano la loro perplessità. “Non credo di saper bene quando lavoro” commenta lo scrittore, e si proclama in grado di ripetere la scena a memoria… ma in realtà nessuno gli crede troppo. Viene ammannita anche un’introduzione musicale al suono del violino del marito della diva, ma al momento di recitare i versi il romanziere proclama soave di vergognarsi molto (non ne ha l’aria) ma di non ricordarli affatto. Se lui non è costernato, lo è la compagnia, però a salvare la situazione interviene Lord Mellifont: racconta un episodio personale, la volta in cui aveva dimenticato gli appunti per presentare qualcosa davanti a una folla immensa, ma il brillante successo dell’esibizione aveva fatto dimenticare il suo imbarazzo. Così la diva esorta il marito a suonare ancora e il narrante propone al romanziere di mandare qualcuno a prendere il fantomatico manoscritto: quello spiega che un manoscritto non c’è, scriverà l’indomani, ma poi alla confusione dell’altro corregge il tiro. “Se c’è qualcosa, è sul mio tavolo”. Poi la musica di Adney assorbe l’attenzione di tutti.

Però il narrante vuol chiedere qualcosa alla diva. Forzando un po’ il senso del discorso del romanziere, sostiene di aver avuto il permesso di andare a prendere il manoscritto: e lei lo scongiura di farglielo avere. Lui le chiede per contropartita di spiegargli cosa sia accaduto con Lord Mellifont durante la gita – che qualcosa sia successo gliel’ha letto in viso. La voce pubblica, commenta lei colpita, lo definisce in effetti “uno scrutatore di cuori, quella cosa frivola che si chiama ‘osservatore’”. Lei però esita a raccontare la “cosa veramente strana” accaduta; lui le propone un altro enigma, Vawdrey non ha scritto un verso. Lei ribatte di prendere le sue carte e vedranno: andare, intende, nella sua stanza a prelevare i fogli per scoprire. Poi riprende il dominio di sé, stanno dicendo un mucchio di sciocchezze: però gli raccomanda di prendere le carte.

In realtà l’operazione viene rallentata, una signora chiede al narrante una firma ricordo sul suo “album dei compleanni”, e lui è tanto confuso da non ricordare la propria data di nascita. Ma nel frattempo la compagnia si è sciolta, se Vawdrey è andato a letto lui non vuole disturbarlo – però poi realizza che può essere ancora sveglio. La signora Adney è uscita con amici nella notte alpina, il Nostro vagheggia di procurarle il manoscritto e di farglielo trovare al rientro. Raggiunge dunque la stanza di Vawdrey, l’ultima in fondo al corridoio del secondo piano: la mano corre al pomo della porta ed entra nella stanza buia senza bussare.

Davvero molto buia, sta già per accendere un fiammifero quando balza indietro con un sussulto e il balbettio di una scusa: “uno sguardo di qualche secondo mi aveva rivelato una sagoma d’uomo, seduto a un tavolo davanti a una delle finestre”. Di primo acchito l’ha scambiato per una coperta gettata sulla sedia, si è persino domandato se non abbia sbagliato stanza ma poi crede di riconoscere Vawdrey. A quel punto esclama: “Ehi, dico, siete voi Vawdrey?” ma quello non risponde e una luce in corridoio permette di riconoscere davanti a lui l’uomo che è convinto di aver lasciato in conversazione dabbasso con la signora Adney… “Mi voltava un poco la schiena ed era chino sul tavolo nell’atteggiamento di chi scrive, ma la sua identità mi penetrò attraverso ogni poro”. Il narrante si scusa, credeva che si trovasse dabbasso (una scusa un po’ bizzarra per essersi fatto trovare lì…), ma l’altro non dà segno di sentirlo e lui indietreggia fino alla porta, chiudendosela dietro. “Stavo lì, con la mano ancora sul pomo della porta, sopraffatto dall’impressione più strana che avessi mai provato in vita mia”. Perché il romanziere scriveva al buio e non gli aveva risposto? Attende dunque invano il rumore di qualche movimento all’interno ma tutto tace e lui scende, diretto alla porta dell’albergo. Gli altri devono essere rientrati: dopo pochi minuti va a letto.

Tale la prima parte del testo, e la seconda inizia con il sonno agitato del narrante. Ripensando alla sua esperienza è ancora più impressionato, ma tiene a chiedere a Blanche Adney chi fosse con lei sulla terrazza la sera prima. Desiderio che però stranamente evapora all’arrivo dell’alba di una giornata che si preannuncia splendida: per cui se ne esce dopo il caffè e si fa una passeggiata solitaria tra le montagne, con ampio spazio a un riposino sull’erba. Rientra nel tardo pomeriggio per la cena, e dopo essersi cambiato raggiunge gli altri a tavola. È curioso di vedere se Vawdrey lo fisserà in modo strano, ma il romanziere non mostra di considerarlo: dunque a fine pranzo raggiunge l’attrice proponendole un giretto all’esterno. E lì, tra dialoghi impagabili a cui solo una lettura del testo jamesiano può rendere giustizia, le domanda chi fosse lì fuori in terrazza con lei la sera prima, verso le dieci. Lei risponde che era Vawdrey, le ha parlato un po’ della sua commedia… Ma il Nostro vuol sapere di più, e all’ironico stupore della signora Adney a quelle domande risponde che “mentre voi e il vostro compagno eravate occupati nel modo che avete descritto, il vostro compagno era anche intento a scrivere nella sua stanza” (corsivo mio). Lei si ferma, gli occhi scintillano nelle tenebre: chiede se stia mettendo in dubbio il suo racconto, ma viene tranquillizzata. Realizzano così che – in modo del tutto paradossale – un Vawdrey le recitava la scena facendo ammenda per il fiasco in sala e senz’ombra di dubbio un altro, il suo doppio (“Oh, le eccentricità del genio!” commenta lei dopo un accurato interrogatorio dell’interlocutore) scriveva al buio nella propria camera. Una figura in fondo, commenta il Nostro, che “somigliava all’autore delle mirabili opere di Vawdrey. Gli somigliava infinitamente di più che non gli somigli il nostro stesso amico”. Che non mostra altrettanto genio nella conversazione…  Insomma, “Sono due. […] Uno esce, l’altro rimane a casa. Uno è il genio, l’altro il borghese, e noi non conosciamo personalmente che il borghese. Parla, va in giro, è enormemente popolare, vi fa la corte…”. La invita anzi a vedere coi suoi occhi andando in camera di lui, ma lei lo giudica sconveniente, “col tono delle sue battute migliori”. “Tutto è conveniente in un caso del genere”, ribatte il narrante.

Scorgono però in distanza Lord Mellifont, e ciangottando l’attrice commenta che “se Clare Vawdrey è doppio, e sento il dovere di dire che più ce ne sono meglio è, Sua Grazia ha il male contrario: non è nemmeno intero” – e domanda se l’abbia mai visto da solo. Certo, ma – emerge – sempre in modo da stabilire una relazione: Milord che va a trovarlo o il reciproco, ma con tanto di preannuncio. Mentre, spiega lei, “Dovete prenderlo alla sprovvista”, per esempio piombandogli in camera… e non vedrà niente. Mentre ora lo vedono lì, perfetto come per promuovere la candidatura elettorale delle Alpi, aureolato delle sue perfezioni, e il narrante comprende:

 

egli mi apparve così essenzialmente, così cospicuamente e uniformemente nella luce dell’uomo “pubblico” che lessi in un lampo la risposta all’enigma di Blanche. Era tutto “pubblico” e non aveva una corrispondente vita privata, così come Clare Vawdrey era tutto privato e non aveva una corrispondente vita pubblica. Avevo sentito soltanto la metà del racconto della mia compagna; tuttavia, mentre ci univamo a Lord Mellifont – ci aveva seguiti perché la signora Adney gli era simpatica, ma si pensava sempre di lui che accettasse la compagnia altrui piuttosto che cercarla – , mentre partecipavamo per mezz’ora della prodiga ricchezza del suo discorso, sentii, con una duplicità nella quale non era ombra di rossore, che noi lo avevamo, per così dire, smascherato.

 

Il tutto con un certo fondo di indulgenza:

 

Lo avevo segretamente commiserato per la perfezione con la quale recitava la sua parte, mi ero domandato quale vuoto quella maschera coprisse in realtà, che cosa gli rimanesse nelle ore spietate in cui l’uomo è solo con se stesso, o, peggio ancora, solo con quel se stesso anche più severo che è la sua legittima moglie. Com’era in casa e che cosa faceva quand’era solo? C’era qualcosa in Lady Mellifont che giustificava questi dubbi, qualcosa che suggeriva come anche per lei egli dovesse continuare a essere l’uomo “pubblico”, e lei assediata da dubbi della stessa natura. Non li aveva mai risolti: ecco il motivo della sua perpetua inquietudine.

 

Ma lui rappresenta per lei e per la servitù “l’eroe”: però quando nessuno poteva ammirarlo “Probabilmente si abbandonava, riposava; ma quale vuoto spaventoso doveva mai essere necessario per compensare tanta pienezza di presenza!”. E ora loro sono soltanto due, “ma non mi era mai apparso più ‘pubblico’”, più perfetto nei modi, più notevole nel tatto, più evidente “l’unicità assoluta della sua identità”.

La signora Adney gli deve ancora il suo aneddoto, ma quella sera non riescono a parlarne: lei resta incantata ad ascoltare Vawdrey che le legge la famosa scena finalmente composta. Il momento giunge solo l’indomani, quando lei accetta una passeggiata con il narrante. In quel contesto ammette di essere affascinata dal secondo io dello scrittore, la teoria del doppio spiega tutto e la incanta, tanto più che la scena è “Magnifica, e [lui] legge stupendamente” (salvo l’impressione di lei che sembrava trattarsi dell’opera di un altro). E parlano un po’ di “quale risorsa fosse nella vita un simile sdoppiamento di personalità”. Distante dal marito, lei ammette di essersi innamorata di un tale personaggio: “Disgraziata, egli non ha passioni”, ribatte algido il narrante ma lei spiega che è proprio per quello, un’attrice “non può prendersi il lusso di essere ricambiata”, in fondo il suo matrimonio gradevole e fortunato è “rovinoso”. E ascoltando quei versi lei sentiva solo un “folle desiderio di conoscerne l’autore”…

Poi, messa alla stretta sul racconto che deve al complice di indagini, cerca di ricordare i dettagli mentre entrano in un’incantevole valletta tortuosa: e a un tratto viene loro incontro Lady Mellifont. Pensava che il marito fosse là per dipingere, ma non l’ha trovato. Commentano che, se raggiunto, lui salterà fuori: la nobildonna si allontana, dicendo che non è il caso gli riferiscano che lei l’ha seguito. “Ha dei sospetti, sapete” commenta allora il narrante con l’attrice. Se non lo raggiungono, non ci sarà nessun dipinto. E finalmente la diva racconta l’episodio di qualche giorno prima. Non le era riuscito di trovare Milord, che d’altra parte non sapeva di essere cercato: “Appare non appena si accorge della presenza di qualcun altro”. Avevano passeggiato insieme, racconta, ma quando lei si era staccata per tornare all’albergo s’era accorta d’essersi portata via il temperino di lui: allora è tornata indietro, ma la valle non presentava possibilità di nascondersi e lui non c’era – come lì, nella valle davanti a loro. Forse per un momento di fatica, al ritorno alla solitudine, l’estinzione di lui era stata completa. “Era svanito, aveva cessato di esistere”. Ma appena lei l’aveva chiamato ecco l’uomo pubblico era riapparso dove avrebbe dovuto essere: poi certo, lei può essersi sbagliata – ammette alle obiezioni poste dall’interlocutore – ma ha la ferma convinzione del contrario. Per questo Blanche vorrebbe che il Nostro facesse una capatina in camera di lui. Che obietta non osi farlo nemmeno la moglie: no, ma in realtà lo desidererebbe, spiega l’attrice, perché nutre dei sospetti. Possibile che lui, d’altro canto, si sia accorto di aver suscitato stupore con la sua sparizione e riapparizione nella valle della passeggiata: ma alla domanda su quale aspetto avesse, ribatte “Esattamente quello che ha ora!” (corsivo mio) perché lui è apparso brandendo il proprio album degli acquarelli. Si mette in posizione, poi inizia a parlare e intanto dipinge, “Tutta la natura s’inchinava davanti a lui, e gli elementi stessi aspettavano”. E quando tornano in albergo, prima lo vedono alla finestra della sua stanza e poi non più, “Ridissolto […] Nell’immensità del cosmo” dopo la fatica della performance di poco prima a loro uso e consumo. Il quadro lasciato a Blanche si rivela però senza firma.

A sua volta Vawdrey è ora uscito per una passeggiata, ma a giudicare dalle nubi avrebbe fatto bene a portarsi dietro un ombrello. Blanche chiede al narrante se può portarglielo lui e fare in modo che restino fuori più tempo possibile: vorrebbe riuscire nel frattempo a vedere nella stanza il Vawdrey genuino.

Il Nostro calcola che prima di uscire ha tempo di fare una capatina fino al salottino di Lord Mellifont, con la scusa di chiedergli che firmi il suo quadro. Però, quando si trova davanti alla porta, si rende conto che bussando rovinerebbe tutto: un ingresso improvviso sarebbe l’unico modo per coglierlo nella sua assenza paradossale. E ha già la mano sul pomo quando Lady Mellifont appare dalla propria stanza… Non pronunciano parola ma corre tra loro uno scambio di pensieri e a un tratto lui riconosce sulle labbra di lei un quasi del tutto silenzioso “Non fatelo!”.

 

Se il mio esperimento le appariva sotto l’aspetto di un atto di violenza, ero pronto a rinunciarvi; pure, mi parve di cogliere nel suo viso spaventato una rivelazione anche più profonda, una possibilità di disappunto se io avessi ceduto. Era come dicesse: – Se ve ne assumete la responsabilità, fate pure. Sì, per mezzo di un altro sarei disposta a sorprenderlo; ma non dovrebbe mai sapere che io ci sono entrata per qualcosa.

 

Lui le spiega la storia della firma mancante al dipinto che tiene tra le mani come scusa. Lei prende la tela con un’evidente lotta interiore, rientra in camera sua e poi torna, avendo vinto la tentazione: se le lasciano il dipinto, lo farà firmare dal marito. Incassato il fallimento del progetto, il Nostro osserva per stemperare che il tempo sta cambiando: lei ribatte che in quel caso loro partiranno subito. Inattesamente poi gli stringe la mano, con un gesto che lui interpreta come: “Vi ringrazio dell’aiuto che avreste voluto darmi, ma meglio lasciare le cose come sono. Se sapessi, chi mi potrebbe più aiutare?”. E lui conclude che Milady è sicura, ma non vuole fare la prova.

Corre a portare l’ombrello allo scrittore e poco dopo devono assieme cercare riparo sotto un temporale di straordinaria violenza. Si rifugiano allora in una baracca per il bestiame e restano bloccati per un’ora, durante la quale il narrante resta ampiamente deluso da Vawdrey: “Non so esattamente come mi raffigurassi un grande scrittore esposto al furore degli elementi, non so dire quale atteggiamento alla Manfredi mi aspettassi dal mio compagno”. Ma certo non trova trascinante il sentirsi ammannire una serie di storie insulse, oltretutto già sentite, sulla famosa Lady Ringlose e sul noto critico signor Chafer: alla luce dei lampi, chiarissimo che

 

per i rapporti sociali quel mirabile genio trovava sufficiente una sua personalità di seconda scelta. Senza dubbio la società non meritava di meglio, ma la distinzione comportava un disprezzo che non poteva non riuscire umiliante per un ammiratore. Il mondo era volgare e stupido, e l’uomo genuino sarebbe stato uno sciocco a esibirsi davanti ad esso quando poteva chiacchierare e pranzare per delega.

 

Inutile pensare a una deroga soltanto per il Nostro…

Quando rientrano trovano gli amici un po’ preoccupati per la loro lunga assenza, Vawdrey si è inzuppato e va a cambiarsi – e Blanche lo guarda in modo studiatamente freddo. Il narrante la segue in sala, “non era mai stata così bella”. Entusiasta, gli bisbiglia – “col più rapido dei bisbigli, che fu al tempo stesso il grido più alto che avessi mai sentito” – di aver avuto la parte tanto sperata: è andata nella stanza di Vawdrey, quello vero, “È stata l’ora più bella della mia vita”… Poi, liquidati come irrilevanti Lord Mellifont e la firma sotto il suo quadro e invitato il narrante ad andare a cambiarsi, esce, entusiasta: trova l’innocuo marito, “Stavamo parlando proprio di te, amor mio!” e provvede a baci e abbracci.

Quando però il Nostro scende a mangiare scopre che il cattivo tempo ha già smembrato la compagnia: i Mellifont sono partiti, Blanche lo farà il giorno dopo, Vawdrey – la versione farlocca – domanda al narrante perché la diva abbia preso a detestarlo.

Tornati a Londra devono riconciliarsi perché Vawdrey termina la commedia e Blanche la interpreta. Evidentemente non un capolavoro, e l’attrice resta alla ricerca della gran parte da sostenere. Per la verità, il narrante ne avrebbe in mente una, ma lei sfortunatamente non lo corteggia: l’indagine ha permesso loro di avvicinarsi, ma solo in via transitoria. Come in fondo col marito di lei, si tratta di alleanze sociali, che nulla hanno in comune con pulsioni più genuine e viscerali – almeno da parte dell’attrice – in un mondo che è una gran recita. Lady Mellifont invece ha sempre una parola gentile per il Nostro, “ma questo non mi consola”.

In questo caso le apparizioni sono quelle speculare, dunque opposte, del doppio di una persona, Vawdrey, e – con trovata narrativa geniale, originalissima, ma in realtà con precedenti lungo il corso della storia della letteratura  – di un’altra persona quale semplice simulacro, proiezione di un’identità sociale e che esiste solo in pubblico ma svanisce in privato. Inevitabile pensare alla storia di Elena presente a Troia solo come simulacro mentre la sua identità autentica è in Egitto, o in generale alla lunga storia del Doppelgänger in letteratura. L’aspetto che rende tanto straordinario questo testo, con la sua coppia di anomalie parallele, è anche l’ironia che lo pervade. Vawdrey è ispirato a una figura reale, Robert Browning, grande poeta e uomo tanto comune – cordiale, dogmatico, pieno di opinioni risapute e giudizi usuali: quasi due personalità distinte, e James fatica a comprendere come abbia potuto conquistare Elizabeth Barrett. Browning muore nel dicembre 1889 a Venezia e James, presente alla funzione per lui all’abbazia di Westminster, ne scriverà un omaggio anonimo su The Speaker. Il tema peraltro si collega a tutta una riflessione condotta da James sulla doppia personalità.

A questo modello ne contrappone però un altro, l’uomo che esiste solo in pubblico, il pittore vittoriano – il massimo esponente dell’arte classica nel periodo – Frederic Leighton, baciato dal successo in tutti i campi, e tuttavia alla morte subito dimenticato. Era solo una figura pubblica.