di Franco Pezzini

Glastonbury, agosto. Sotto un cielo grigetto – ma oggi non è prevista pioggia – ci regaliamo la passeggiata sul Tor, la collina sacra sopra la capitale magica dell’Inghilterra, dalla cui vetta si gode più prosaicamente una vista meravigliosa su tre contee diverse. La salita è agevole, col sentiero a gradini; per i cultori che abbiano tempo e voglia, c’è anche la possibilità di salire a spirale tramite i resti degli antichi sette terrazzamenti (di origine non chiara) che renderebbero il Tor una sorta di labirinto tridimensionale, qualunque valore uno intenda dargli.

Come noi sono altri a salire, famiglie, coppie anziane, giovanissimi: e dopo un’adeguata contemplazione – e una piccola sosta nell’antica torre campanaria sopravvissuta a una chiesa crollata sulla vetta – abbiamo preso ormai la discesa quando alle nostre spalle inizia a sollevarsi un canto. Non ci stupiamo, un’altra volta nella torre avevamo trovato un gruppo che celebrava riti entusiasti con campane tibetane: tutto normale, questa è Glastonbury. Con la High Street punteggiata di negozi di tuniche e corone per cerimonie wicca, statuette etniche, minerali e aromi per rituali, librerie dell’arcano, esposizioni di arte esoterica – il tutto in un mix delizioso tra il sapienziale e il kitsch, tra pellegrinaggio dell’inquietudine spirituale e consumismo della mistica, e allora non vuoi stare al gioco?; con le vie battute da tutti i possibili pellegrini dell’Altrove, sacerdotesse della Dea con corone di fiori, famiglie in vacanza con bambini piccoli, fricchettoni estinti in tutto il resto del globo dai lontani anni Settanta; con i suoi luoghi sacri alle spiritualità più varie (nel 2012 in un villaggio tanto piccolo erano rappresentate una settantina di fedi, per parlar solo di quelle organizzate). Dal sincretismo imperante in cappelle e segnacoli per tutte le fedi nello splendido giardino del Chalice Well (vi passeremo al ritorno) alle due fonti lì accanto, Bianca e Rossa, quest’ultima dal sapore acceso di sangue per la quantità di ferro nell’acqua; dai resti meravigliosi – con tanto di tomba vuota di Artù – della grande abbazia vittima della brutale Dissolution of the Monasteries sotto Enrico VIII, al sacro biancospino di Giuseppe d’Arimatea (sulla collina è stato vandalizzato, c’è ancora un alberello vicino all’Abbey)… a tutto il resto.

Compreso, ai piedi del Tor, il frutteto dove Dion Fortune, occultista e scrittrice, stabilì nel 1924 una sede di vita e di studio (il famoso Chalice Orchard) col suo gruppo di confratelli. Vi passiamo davanti, e nella borsa, come lettura di viaggio, ho proprio un romanzo dell’autrice: per la precisione il suo secondo testo di fiction, il thriller occulto The Demon Lover, del 1927 –  in Italia Il demone amante (pp. 304, Roma 2011) per i tipi delle edizioni Venexia che stanno portando avanti un interessante recupero dell’opera di Fortune. Le librerie di Glastonbury sono piene di opere di lei e su di lei.

Nei fatti, il suo primo romanzo, perché l’hanno preceduto dei racconti, The Secrets of Dr. Taverner, editi nel 1922 e raccolti in volume nel 1926. Storie sui casi di un dottore dell’occulto come quelli di moda all’epoca, ma ispirato al mentore che l’ha salvata da una terribile crisi, il dottor Moriarty; e dove comunque l’autrice si è ormai resa conto di poter veicolare le proprie idee in forma narrativa, che prende dunque ad alternare alla produzione di saggi. Non parliamo di esiti di vertiginoso valore letterario, ma di una produzione comunque di onesto livello, godibile alla lettura e di notevole interesse antropologico (nonché magico, per i cultori).

Di Dion Fortune, all’anagrafe Violet Mary Firth (1890-1946), celta gallese, psicanalista e poi occultista, capace attraverso un percorso abbastanza libero di conciliare scuole diverse nell’esaltazione del principio femminile, si è già parlato in altra sede; ha senso qui soffermarsi su questo singolarissimo romanzo. Scritto già nel periodo di Glastonbury ma qui non ambientato (l’autrice dedicherà alla cittadina e ai suoi miti un delizioso Avalon of the Heart, 1934 – in Italia, Avalon. La via segreta al sogno arturiano, Tre Editori, 2004), Il demone amante già presenta il motivo-chiave poi di tutta la sua produzione: la storia di una giovane protagonista che riesce a salvare un uomo – in genere quello amato – da se stesso o comunque gli permette un’autorealizzazione prima impensata, attraverso una crescita spirituale anche propria. In questo senso il romanzo (attenzione, seguiranno spoiler) funge da battistrada per un’intera produzione dipanata negli anni.

La storia presenta Veronica Mainwaring, una ragazza in apparenza molto disarmata e fragile, che viene assunta come segretaria dal fascinoso ed equivoco Justin Lucas adepto ribelle di un ordine magico. Senza che i due sappiano di essere già profondamente legati da vite precedenti in cui lei aveva scelto la Luce e lui l’oscurità: la verità emerge via via, con sconcerto di lui e l’emergere – ça va sans dire – di sentimenti inattesi. Veronica lo vede ora giustiziato per tradimento dagli alti gradi della loggia (Justin ha usato l’inconsapevole segretaria per spedirla in astrale a spiare segreti dell’Ordine, ma, quando i confratelli vogliono colpirla, lui si assume ogni responsabilità) solo per trovarsi avvicinata dal suo ingombrante ritorno come vampiro: e occorrerà l’intervento di alcuni superiori buoni e illuminati per imprimere alla vicenda una svolta positiva inattesa quanto improbabile. Alla base del tutto, dunque, una storia d’amore – come poi in genere i romanzi successivi – e anzi romantica (l’amato maledetto, eccetera) che però si sviluppa nel quadro più complesso di un magistero magico: denso di informazioni, ma a portata di lettori comuni – quindi di valore “formativo” – visto che al di là di singole allusioni un po’ tra le righe nessuna eccessiva oscurità esoterica ammanta il tutto. Una serie di scene gotiche di felice inventiva rende godibile l’insieme.

Merita notare che questo primo romanzo di Fortune costituisce un efficace trait d’union tra l’immaginario dell’occulto vittoriano e la successiva produzione dell’autrice. Anzitutto troviamo un vampiro che strappa una citazione di Dracula, sia pure in un’originalissima interpretazione occulta del vampirismo quale semi-vita in trance: non dimentichiamo d’altra parte che Nosferatu è del 1922, solo cinque anni prima. Ma anche l’assetto di un gruppo magico con tre figure principali ricorda non poco la triade –  William Robert Woodman, William Wynn Westcott e Samuel Liddell MacGregor Mathers – al vertice della vittorianissima Golden Dawn (è forse Mathers – mai conosciuto personalmente da Fortune, che però avrà un pessimo rapporto con la sua vedova – il livoroso Fordice del romanzo?). Resta il fatto che alla Golden Dawn sicuramente si ispiri il gruppo descritto, al di là del suo carattere fantasioso (nella prefazione all’edizione Weiser del romanzo, 2010, Diana L. Paxson mostra di dubitare qualunque riferimento a vicende reali).

Per tanti versi Dion Fortune è un personaggio che ispira simpatia. Per contro troviamo documentate in The Demon Lover posizioni bislacche francamente spiacevoli, come la convinzione che in fondo gli inquisitori non avessero tutti i torti nel perseguire col rogo i maghi neri: un’idea che in chiave saggistica troveremo sostenuta dall’arcigno Montague Summers (1880-1948), preteso reverendo grande cultore di materie livide in quella stessa Inghilterra. Ma ambiguità ristagnano nella stessa dinamica relazionale sottostante la vicenda, e non basta allegare il diverso rapporto tra i sessi di un’altra epoca. Certo, Justin si salverà pentendosi delle proprie malefatte e anzi scontandole in modo drammatico: come ben sintetizza la citata Paxson, “This is a drama of reincarnation and destiny transcending conventional concepts of Justice”. Le posizioni nella coppia si sono di fatto capovolte: alla fine quello fragile è lui, mentre Veronica recupera un ruolo di potente iniziata. Ma la sensazione del lettore è che il pentimento riguardi anzitutto le scelte metafisiche di Justin, le sue frequentazioni dell’Ombra e la turpe predazione da vampiro di vite umane (in particolare di bambini): resta la normalità di un suo plagio pesante ai danni di Veronica, su cui non emerge mai una critica puntuale, e attutita solo parzialmente dalla storia del loro profondo legame pregresso. Se lui non si macchiasse di colpe ben più gravi finendo bloccato, continuerebbe a manipolare: anche perché a un certo punto si aprono le cataratte delle “giustificazioni”.

Non sappiamo se Dion Fortune abbia mai vissuto personalmente l’attrazione per il modello “cattivo soggetto”: si può comprendere che Justin risulti più fascinoso del mamozzo senza fantasia che a un certo punto corteggia Veronica per finire malissimo (senza grossi turbamenti – va detto – né di lei né dei lettori); ma l’autrice resta fin troppo benevola nei confronti di Justin, che invece il lettore avverte come un furbetto piuttosto ripugnante. In sostanza il modello del belloccio manipolatore – perché poverino, con le sue drammatiche esperienze… e poi comunque è coraggioso… –, al netto di un finale “redentivo” lascia in fondo intoccati i più beceri modelli sessisti: lui usa Veronica spregiudicatamente, gioca al bello & maledetto, si compiace di sé. Leggere il romanzo in questa Italia, dopo un’estate di violenze e femminicidi perpetrati da ometti lamentosi e autocompiaciuti, lascia un gusto amaro che l’autrice non aveva certamente previsto e su cui forse, acquisendo via via maturità narrativa, avrebbe speso qualche riflessione in più. Va detto che Il demone amante, divertente e originale, è anche più veloce e scorrevole – per esempio – del più ampio, ponderato e complesso The Goat-Foot God, 1936 (Il dio dal piede caprino, Venexia, 2001), che dell’autrice dice parecchio di più, in modo abbastanza esplicito, o dell’anche migliore The Sea Priestess, 1938 (La sacerdotessa del mare, Venexia, 2002).

In genere il primo testo di fiction di un autore sedimenta riflessioni e sogni covati anni, nonché molto di una storia personale: si sarebbe dunque tentati di riconoscere almeno qualche aspetto del seduttore Justin in persone incontrate dall’autrice – per esempio il bruno medico Thomas Penry Evans da lei sposato proprio nel 1927 e coinvolto come partner nei rituali. Del tutto implausibile, Evans è un gentiluomo, anche se una decina di anni dopo i due finiranno col separarsi (divorziando solo nel 1945, sei mesi prima della morte di lei). Le dinamiche in scena rendono insomma difficile pensare a un nesso biografico, e l’opera si avvicina piuttosto al mondo dei casi di Taverner. A leggere Il demone amante si ha semmai la sensazione di un gioco su modelli letterari, l’amante maledetto di matrice romantica eccetera, riletti in chiave tecnico-occultista per avvicinare a un più generale magistero magico. E insieme a una grande riflessione, di cui l’autrice sente l’urgenza nel mondo moderno, sul salvare le potenzialità dei rapporti di coppia in una rafforzata percezione della dignità della donna. Che non passa attraverso un’impostazione femminista in senso proprio (pur preludendo di fatto a un successivo femminismo neopagano, Dion Fortune ha vedute di tipo conservatore all’inglese) ma per le vie sottili di una riscoperta interiore nel segno del magico.

Al netto insomma di ogni lontananza ideologica, legittimo guardarla con simpatia, ma – per favore – togliamoci i Justin Lucas dai piedi.