di Emilio Quadrelli e Lidia Triossi

Misurarsi su un piano politico e teorico su come i comunisti si debbano organizzare in un contesto come l’attuale è sicuramente un compito di estrema difficoltà. D’altra parte le opzioni oggi esistenti non ci sembrano soddisfacenti e, soprattutto, crediamo che vadano riviste alla luce di una elaborazione e confronto approfondito. Sulla questione del partito (organizzazione), della strategia politica e militare, è chiaro che abbiamo, nel movimento comunista, un piano teorico e di dibattito quanto mai arretrato che non possiamo ignorare. Provare a affrontarlo, qui e ora, ci pare un compito non più rimandabile.

L’obiettivo della nostra elaborazione è quello di cogliere quelle tendenze del movimento comunista che si sono affermate e che hanno ancora un carattere di validità e capire, invece, quegli elementi che sono stati superati e ai quali è inutile rimanere aggrappati. Infine gli elementi che riteniamo validi vanno collegati al nuovo contesto in cui ci muoviamo. Naturalmente da queste riflessioni non possiamo pensare di trovare una “formula perfetta”, che peraltro non esiste, però possiamo utilizzarle per capire la direzione in cui muoverci e quali debbano essere i passi da fare per adeguare le attuali forme d’organizzazione alle necessità e soprattutto alle possibilità che vengono dalla realtà. E’ quindi centrale per noi capire il ruolo e il nesso tra « il partito » e l’ »autonomia del proletariato », la composizione dei movimenti di protesta rispetto all’attuale organizzazione del lavoro e dimensione metropolitana, le contraddizioni della fase imperialista: guerra, fascistizzazione, multipolarismo, ecc…

Su questi elementi dobbiamo dare battaglia nel movimento comunista e nella sinistra di classe più in generale. Oggi parlare del contesto metropolitano imperialista, della guerra in Ucraina vuol dire parlare del «mondo».

Non possiamo nasconderci le difficoltà di una simile operazione e sappiamo altrettanto bene che il risultato non è affatto scontato, ma se non ci incamminiamo su questa strada il rischio è quello della approssimazione organizzativa, della risposta contingente, della possibilità di bruciare opportunità che possono apparire a portata di mano, ma verso le quali non abbiamo nessun “pensiero forte” da utilizzare.

Per fare questo é necessario un approccio che provi a riprendere per intero la dialettica marxiana, usando un metodo che ci permette di individuare le tendenze di fondo e di andare oltre i fenomeni apparenti. Spesso ciò che appare non corrisponde a ciò che veramente si muove, per questo è necessario uscire dalla logica del contingente e provare a cogliere l’insieme e la complessità di ciò che la realtà sociale sta esprimendo. Tradotto in termini politici significa che il rapporto di forze reale non è sempre quello che appare in superficie. Ciò vale per le classi, per le frazioni di classe, per i movimenti politici.

L’imperialismo è la fase suprema, ultima del capitalismo. Una fase dove domina il monopolio e la concorrenza e le contraddizioni sono sempre più acute. Imperialismo vuol dire guerra, guerra vuol dire militarizzazione sia contro i differenti fronti esterni, ma soprattutto contro il proprio fronte interno (contro le masse proletarie e subalterne del proprio paese). Qua la contro-rivoluzione anticipa in modo preventivo i meccanismi stessi della rivoluzione. Se ascoltiamo le parole dei generali francesi o di alcuni settori delle forze dell’ordine, che parlano di guerra civile e quindi di strategie contro-rivoluzionarie, da applicare prima di tutto nelle banlieue, contro i cortei e gli scioperi, parrebbe che sia già in atto un processo rivoluzionario, in realtà si tratta della capacità preventiva della contro-rivoluzione la quale agisce per mantenere ben saldo il punto centrale e nodale del potere statuale: chi deve avere il monopolio della violenza!

Ciò non toglie che la fase imperialista sia multiforme e che può avere al suo interno momenti di congiuntura legati alla mediazione dei conflitti, tuttavia bisogna tenere sempre in considerazione il contesto transitorio di simili momenti. La borghesia, in tutte le sue fazioni, con fasi e intensità diverse, utilizza sempre la forza e la violenza, ciò che cambia è solamente il suo stato, da “potenziale” a “cinetico”. La forma democratica è una collaborazione di classe a chiacchiere (il mito della partecipazione, dei referendum, ecc…), il “fascismo” è collaborazione di classe di fatto (i movimenti populisti di massa), ma ambedue esprimono in ultima analisi la dimensione della dittatura e del monopolio della violenza da parte della borghesia imperialista.

Per comprendere al meglio questi passaggi bisogna assumere come chiave di lettura l’analisi dell’interazione e della compenetrazione delle strategie della controrivoluzione a livello globale, superando la falsa contrapposizione tra “eurocentrismo” e “terzomondismo”. Capire quali fazioni delle borghesia assumono la direzione degli attuali meccanismi di comando, non per salvarne una parte, ma per avere sempre la capacità di analizzare il nemico in maniera dialettica e cogliere, in tal modo, i reali rapporti di forza e conflitti. In questo senso agire in Francia, confrontarsi e battersi contro l’imperialismo francese e la sua borghesia rimane il primo dei nostri compiti strategici. E’ solo attraverso questa lettura che possiamo saper leggere l’attuale composizione di classe nelle cinture urbane popolari e la stesse direttive dei settori maggioritari della borghesia francese nei confronti del loro “fronte interno”.

La Francia in questi ultimi anni è stata attraversata da diversi movimenti di protesta, con forme, contenuti e porzioni sociali coinvolte in maniera differente le quali, tuttavia, mettono in rilievo una mancanza di coesione sul fronte interno delle principali porzioni della borghesia e la loro incapacità di « integrare » intorno al proprio progetto larghi strati della popolazione. In altre parole la “nazionalizzazione delle masse” non sembra essere per nulla scontata. Le criticità del fronte interno, sono dilatate dalla crisi che attraversa la Francia sul fronte esterno rispetto alla perdita di importanza nella competizione globale. L’erosione sempre più rapida dell’influenza francese in Africa è uno di questi segnali.

I gilets jaunes sono stati un movimento di protesta subalterno con venature “populiste” che ha coinvolto centinaia e centinaia di migliaia di persone e che, in estrema sintesi, possono essere considerati come i settori sociali “globalizzati in basso, ossia tutta quella parte di “classe media” in via di proletarizzazione o, addirittura, precipitata sulla soglia della povertà. Ciò non rappresenta un fenomeno particolarmente nuovo poiché, da sempre, nel suo divenire tumultuoso il capitalismo distrugge interi blocchi e comparti sociali tanto che, per molti versi, si può tranquillamente asserire che distruggere è il solo modo capitalista di costruire. Se c’è qualcosa che non appartiene al capitalismo è il mantenimento dello status quo, in ogni suo salto di fase non può che lasciarsi dietro i cadaveri di quei settori sociali divenuti un peso per il nuovo ciclo di accumulazione. La reazione di queste porzioni sociali, in tutta Europa, è stata particolarmente vivace riuscendo anche, in qualche modo, a modificare momentaneamente alcuni equilibri politici come si è potuto osservare in Grecia, Italia e Spagna. Il “populismo”, pur nelle molteplicità delle sue declinazioni, ha un preciso contenuto sociale e una determinata caratterizzazione di classe. Quando affermiamo che la base sociale “populista” sono i “globalizzati in basso” indichiamo quei grandi gruppi sociali che vedono nell’attuale dispiegarsi di tutti gli effetti prodotti dalla « globalizzazione » un ostacolo e un pericolo ai propri interessi, capaci di coagulare attorno a loro una massa di forze piccolo borghesi e popolari, colpite e impoverite da questo processo.

Il tentativo di intervenire, da parte di alcuni settori della sinistra proletaria e rivoluzionaria, dentro questo movimento è stato variegato, e in alcuni momenti anche efficace, pur restando prevalentemente dentro i ristretti ambiti del protezionismo, e’ stato egemonizzato culturalmente dalla sinistra e in molti casi si è riusciti a « buttare fuori » i settori di estrema destra. Tuttavia è mancata una visione d’insieme, una progettualità politica che superasse le logiche immediate del movimento stesso.

Ogni movimento si pensa il «centro» di tutto, la capacità del soggetto politico (l’organizzazione rivoluzionaria, il partito) sta nell’intervenire in situazione ibride e dare una prospettiva più ampia al «movimento» stesso. Il ruolo dei comunisti non è solo quello di mettere al centro la lotta di classe, ma e’ soprattutto indicarne il suo contenuto politico: la rottura e la crisi degli attuali assetti di potere e il favorire tutte le forme di organizzazione e solidarietà proletaria, il mettere in discussione il monopolio della violenza, avere un punto di vista proletario sul mondo, ossia avere una prospettiva comunista.

Il movimento dei gilet jaunes non è stata la rivoluzione e neppure una sommossa, ma resta pur sempre un movimento di massa che ha mostrato le contraddizioni del sistema « Francia » e ha evidenziato che esiste una larga fetta di popolazione anche dentro i cosiddetti ceti medi che si concepisce al di fuori del perimetro parlamentare classico francese.

Il maldestro tentativo dei sindacati francesi di sopperire al vuoto politico, rincorrendo i gilet jaunes non ha dato frutti importanti. Anzi ha penalizzato la stessa componente della sinistra proletaria interna ai gilet jaunes, perché riportava la discussione in ambiti sindacali-economici riducendo la portata del movimento stesso.
I movimenti ecologisti di massa, non legati direttamente ai partiti « verdi », che si sono susseguiti in questi ultimi anni rappresentano una variante, per lo più giovanile, di questo settore di scontenti e delusi della globalizzazione. La risposta isterica e paternalistica del governo, e la violenza con cui sono stati attaccati, mostra una fragilità del sistema politico contemporaneo nell’offrire una ideologia del «futuro» ad una corposa porzione di giovane generazione scolarizzata (medio-alta) del paese.

Il movimento delle pensioni si inserisce dentro la lenta ma progressiva erosione del welfare state, legata alla crisi del modello socialdemocratico in Europa. Questa è dovuta a più fattori, i principali sono legati alla finanziarizzazione dell’economia e alla stessa autonomizzazione del capitale, ossia ad una sempre più rapido svolgersi del meccanismo di accumulazione, che investe la flessibilità produttiva e la precarietà contrattuale, il tutto dentro un contesto di obiettivo declino politico « atlantico ». Questo va di pari passo ad una diminuzione del welfare state, in quanto organismo « lento », e obsoleto rispetto agli attuali meccanismi di de-integrazione legati alla fase imperialistica matura che attraversiamo. Una sempre più grande massa di popolazione vive ai margini della « cittadella », è inserita dentro l’organizzazione del lavoro e partecipa alla valorizzazione del capitale, ma il suo ruolo e’ degradato sempre più, secondo la legge della miseria crescente teorizzata da Marx. Questo soggetto si confronta con una politica parlamentare che si « fascistizza » (le differenze tra destra e sinistra sono sempre più minime sul piano delle leggi economiche), e quindi non trova spazi.

In questo contesto oltre alla proletarizzazione dei ceti medi, vengono erose le riserve della classe operaia e della sua « aristocrazia ». Non deve quindi stupire che il movimento delle pensioni in Francia sia espressione di un movimento di protesta che ha attraversato tutta l’Europa. In Spagna il sistema sanitario, in Germania e Inghilterra la questione salariale dei settori «storici» del movimento operaio (energia e trasporti) ecc..

Queste mobilitazioni hanno visto al centro il movimento sindacale e molto marginalmente le componenti politiche «autonome» troppo prese ad inseguire l’estetica della lotta che la lotta stessa. Le cosiddette “assemble interlutte”, sono stati dei piccoli parlamenti sindacali e politici (cosa di per se non negativa), il problema era che le posizioni emerse erano ancor più confuse che quelle delle centrali sindacali stesse, in quanto cavalcavano un «estremismo» che attraversa larghe porzioni della società francese ma tristemente virtuale rispetto alle lotte vere e proprie. Inoltre tutto questo si accompagnava ad una percezione distorta di « egemonia » sulla società francese, il risveglio ovviamente è stato doloroso…

Le componenti «autonome», non hanno preso in considerazione le componenti sociali principali coinvolte in queste mobilitazioni: pensionati, lavoratori del pubblico impiego (soprattutto gli insegnanti) i lavoratori dell’energia e dei trasporti.
Settori dove esiste ancora un buon livello di sindacalizzazione, ma anche una forte dimensione corporativa e una «arroganza sociale e culturale» che li porta ad essere ben lontani dalla massa di nuovi precari. Questo resta uno dei principali “talloni di Achille” delle attuali centrali sindacali.

Infine abbiamo avuto il riot, partito dopo l’ennesimo omicidio da parte della polizia contro un giovane francese di origine algerina. Le immagine legate ai social-media hanno reso visibile la sommaria esecuzione, scatenando la rabbia e una legittima sete di vendetta da parte di larghi strati di giovani e giovanissimi delle periferie (francesi e non), che ancora una volta vedevano il metodo razzista e anti-proletario della polizia all’opera.

Cinque giorni di sommossa hanno surclassato in termini di violenza i 15 giorni del 2005. Se si confronta il numero di edifici pubblici e di polizia coinvolti il 2005 appare una tranquilla protesta…..Inoltre questa volta sono stati individuati obiettivi fisici nelle persone, nei politici e le prigioni. La protesta ha attraversato tutta la Francia, investendo città tradizionalmente non toccate da fenomeni di riot, perché fortemente comunitari e sottoposte al rigido controllo della criminalità organizzata, come Marsiglia.

Il soggetto coinvolto, per lo più giovanissimi, ha messo tutti in una situazione di disagio. Il governo ha cominciato a attaccare la « famiglia », la destra parlava di guerra civile, la sinistra moderata e estrema non sopportava la violenza « barbara » (hanno pure incendiato le macellerie halal …). Le associazioni antirazziste hanno vissuto con frustrazione questa violenza non rivendicativa (e quindi altamente politica!).

Inoltre c’è un effetto generazionale (i giovani di un tempo, sono gli adulti di oggi…), chi ha vissuto il 2005 ora guarda con preoccupazione l’attuale sommossa, in quanto molto più violenta, più brutale ma anche, obiettivamente, priva di progettualità politica e organizzativa e, almeno a quanto si veda, incapace di trasformare in esercizio di potere politico effettivo (il delinearsi di un dualismo di potere attraverso la formazione di “Istituti proletari”) in grado di monetizzare politicamente ciò che “militarmente” si è in qualche modo affermato. Questo aspetto è particolarmente sentito nei “quartieri” il che indica, contraddicendo in pieno quanto solitamente è detto e scritto su questi mondi, quanta “sete di politica” abbiano gli operai e i proletari. In altre parole dove i più vedono rabbia, nichilismo, disperazione, frustrazione e rancore noi vediamo una richiesta politica che faremo di tutto, con modestia e senza alcun paternalismo di sorta, per provare a assolvere.

Non siamo dei sociologi, ma è chiaro che si è mossa una frazione del cosiddetto proletariato de-integrato, il proletariato senza riserva, che ha solo le catene da distruggere. Di fronte a questa esplosione di violenza proletaria è inutile dire che la polizia è una merda, o dire che i giovani delle periferie sono la porzione principale del nuovo soggetto operaio e proletario… tutti lo sanno benissimo, ma il problema non è questo, bensì trasformare in forza politico – militare tutta la potenza che sta nel nuovo soggetto operaio!

La stessa discussione sulla « democraticizzazione della polizia » risente di un approccio liberale, che ha poco a che spartire con gli attuali rapporti di forza tra le classi. E’ « liberale » pensare di cambiare culturalmente la polizia. La polizia cambia solo all’interno di una meccanismo legato ai rapporti di forza: 1) una maggiore penetrazione dei comunisti all’interno delle forze dell’ordine 2) forme di autodifesa e organizzazione proletaria nelle periferie.

Se sul primo punto non pensiamo sia oggi possibile intervenire, visto il livello di infantilismo e sciovinismo che si respira a sinistra, sul secondo punto riteniamo possibile continuare un lavoro militante e politico sui territori, attraverso molteplici strutture: dai sindacati alle associazioni sportive, dai comitati di quartiere alle associazioni culturali ecc…

La polizia non e’ una istituzione neutrale, è una organizzazione per la difesa del monopolio della violenza e del potere della borghesia, ma questo non vuol dire pensare che non si possa sfruttare le contraddizioni e le incrinature tra le frazioni della borghesia per imporre un punto di vista proletario. Il governo dopo la violenza del riot è stato costretto a pronunciare critiche all’operato della polizia. Questo ha creato una frattura che ha dato vita ad inedite forme di protesta da parte delle associazioni di polizia, attraverso “malattie” organizzate.

Negli ultimi mesi da parte governativa si e’ scatenata l’ennesima guerra contro i disoccupati e i precari, contro chi usufruisce della RSA e della disoccupazione tramite il Põle Emploi, o più semplicemente dei lavoratori che si mettono in malattia. Assistiamo ad un inedito cortocircuito, quando gli stessi poliziotti utilizzano le forme «illegali» tanto vituperate dal governo e dal padronato.
E’ chiaro a tutti che le organizzazioni sindacali che promuovono all’interno della polizia queste forme di lotta sono organizzazioni di “destra”, che vogliano ancor maggior impunità da parte della polizia, ma resta una crepa tra il centro politico governativo e le stesse strutture di controllo e sono anche un non secondario indicatore di come, dentro la crisi, la polarizzazione sociale, tanto a destra quanto a sinistra, delinea movimenti di massa ampiamente estranei agli organismi politici ufficiali. Tutto ciò è ancora più vero nel contesto attuale dove i partiti politici di qualunque natura hanno abbandonato qualunque dimensione e articolazione di massa, per farsi semplici “comitati elettorali” la cui esistenza si gioca esclusivamente sul piano virtuale. Ciò che, non da oggi, sta accadendo in Francia è la dimostrazione di come, a trecentosessanta gradi, si assista a una nuova stagione di “protagonismo delle masse”. Ignorare che, in questo scenario, non è poi così improbabile che occorrerà fronteggiare novelli “corpi franchi” non è solo stupido ma suicida.

I differenti soggetti sociali che hanno dato vita alle tre «mobilitazioni» (gilets juanes, pensioni, riot) non avevano la possibilità concreta di «unirsi» e sopratutto di vincere, in quanto non potevano andare oltre i limiti in cui la diversa composizione di classe li obbligava e, per di più, si trovano davanti alle diverse fazioni della borghesia, in crisi, ma ancora dinamiche e capaci di reagire. I comunisti e la sinistra proletaria dovevano sicuramente essere più attivi, più dinamici, ma i muri che dividono questi settori sociali non si rompono con atti di volontà o per semplice desiderio.
Quando parliamo di crisi non bisogna mai cadere in una facile «estremizzazione» che ci fa pensare che basti poco per fare crollare il muro.

Bisogna considerare il processo rivoluzionario come un intreccio di fattori soggettivi e oggettivi.
I fattori soggettivi sono la presenza di una organizzazione rivoluzionaria e il dispiegarsi dell’autonomia proletaria. L’organizzazione rivoluzionaria (il partito), come forza politica adeguata al contesto metropolitano e imperialista (che racchiuda al suo interno tutte le forme pacifiche e violente, legali e illegali). L’autonomia proletaria ossia organizzazione e solidarietà (sindacati, collettivi, ecc..), dai posto di lavoro al territorio, e la manifestazione della propria forza.
Il contesto oggettivo presenta diversi fattori: la debolezza della struttura militare del nemico (crisi dello Stato), una lotta sempre più accanita tra le frazioni della borghesia e una ampia fetta di popolazione (non esclusivamente il proletariato, ma ovviamente con lui al centro) sempre più slegato dai meccanismi di integrazione della politica borghese, questo non tanto per una propria volontà rivoluzionaria, ma per necessità, l’impossibilità per queste porzioni di ripercorrere le opzioni che la borghesia propone.

Rimettere al centro il lessico militare e i concetti di guerra, non vuol dire solamente accettare il terreno della violenza, ma avere un proprio specifico programma sul terreno militare. Oggi, strategia, tattica sono termini lontanissimi dall’attuale lessico di sinistra. Tuttavia qualsiasi progetto di « rivoluzione sociale » deve anticipare la questione del confronto armato con le forze del potere e della reazione. Le organizzazioni rivoluzionarie che rifiutano di elaborare una politica militare prima che la questione dello scontro si ponga praticamente, si squalificano, essi si comportano come disfattisti della rivoluzione o in fornitori di futuri prigionieri e cimiteri di vittime.

Senza prassi e teoria non c’è partito rivoluzionario, ma senza crisi non esiste neppure il tentativo rivoluzionario.
Oggi queste condizioni sono presenti solo in parte. Questo non ci deve scoraggiare, ma ci permette di capire dove dobbiamo concentrare i nostri sforzi e energie.

Franz Mehring, il più importante e preciso biografo di Marx, parlando del Manifesto del Partito Comunista scriveva: “Per certi aspetti lo sviluppo storico si è compiuto altrimenti, e soprattutto più lentamente di quanto i suoi autori supponessero. Quanto più il loro sguardo si spingeva in avanti, tanto più le cose apparivano vicine. Si può dire che non si poteva avere luce senza queste ombre. E’ un fenomeno che già Lessing ha notato negli uomini che lanciano -sguardi nel futuro-, -quello per cui la natura si prende millenni di tempo, deve misurarsi nel breve attimo della loro esistenza-. Ora Marx ed Engels, non si sono sbagliati di millenni, ma certo di parecchi decenni”.

Il quarto numero di Supernova ha come filo conduttore l’imperialismo e i conflitti che produce sul fronte interno e esterno. La dea Atena, la dea della guerra, è scesa in terra come gridavano su tiktok i petit durante i riots1. I conflitti ci impongono una azione e una analisi più diretta. Essere anti-imperialisti, solidarizzare con chi lotta non basta, occorre rimettere al centro l’autonomia dei comunisti, perché senza una prospettiva di classe, un punto di vista proletario, rimaniamo disarmati contro i nemici e succubi della loro ideologia e prospettiva.

N.B.
Il presente articolo uscirà a settembre in Francia come editoriale del numero 4 di «Supernova».


  1. Si riferivano al film Athena, di Romain Gravas del 2022, sulle rivolte urbane in Francia. Il film sicuramente profetico e’ tuttavia rovinato negli ultimi minuti da una insostenibile trovata filmica, legata alla teoria del complotto che scagiona i poliziotti…