di Gioacchino Toni

Régis Messac, Quinzinzinzili, Traduzione di Michele Trionfera. Postfazione all’edizione italiana di Andrea Esposito, Edizioni Tlon, Roma, 2023, pp. 184, € 16,00

«Nel periodo immediatamente precedente la [guerra], l’opinione pubblica europea sembrava preoccuparsi solo di scandali che, in fin dei conti, avevano un’importanza minima, e dei quali del resto nessuno capiva un granché. Queste storie di briganti, destinate a distrarre la platea, facevano pensare ai bambini che si divertono a giocare a guardie e ladri, e che quando si stancano di essere guardie si scambiano subito la parte con i ladri. Non si poteva mai sapere se il poliziotto incaricato di perseguire i truffatori non era in realtà al soldo del capo truffatore, e ci si aspettava da un momento all’altro di vedere il ministro della giustizia in manette, condotto i prigione dai suoi stessi subordinati».

«In previsione di un conflitto che si annunciava colossale, tutto il mondo era in cerca di alleati. […] Lungi dal ridurre il rischio della guerra, questo equilibrio di forze non fece altro che esasperare l’ardore bellico dei futuri belligeranti. […] Così, per ragioni molto diverse ma che conducevano allo stesso risultato, tutti i partiti organizzati si trovarono ad accogliere la guerra, o almeno ad accettarla. Solo pochi individui osarono ribellarsi, e dichiarare che non l’avrebbero permessa per niente al mondo […] Dispersi, isolati, privi di sostegno politico e senza una reale influenza sulla massa, il loro grido di protesta si perse senza eco nel fragore della guerra montante. La loro ribellione sporadica fu prontamente soffocata. Non fu altro che un’operazione di polizia o, se vogliamo, un massacro meschino che passò inosservato […] Per quanto tetra fu la fine di questi màrtiri, la si potrebbe però definire felice e privilegiata se si considera la sorte orrenda che venne riservata al resto dell’umanità… Così ebbe inizio la guerra. E fu, veramente, l’inizio della fine».

Di che guerra si sta parlando? Di quella che a metà degli anni Trenta lo scrittore francese Régis Messac, con alle spalle la tragedia della Prima, immaginava sarebbe potuta essere la Seconda guerra mondiale, nei fatti poi realmente scoppiata soltanto pochi anni dopo. Quelle parole scritte ormai un secolo fa sembrano però profetizzare non solo il conflitto mondiale che ha finito per insanguinare il mondo negli anni Quaranta del Novecento, ma anche quanto potrebbe accadere ai nostri giorni mentre, ancora una volta, si intrattiene l’opinione pubblica con “scandali” davvero di minima importanza rispetto all’avvicinarsi di una catastrofe bellica che potrebbe assumere proporzioni mai sperimentate prima.

Con quasi un secolo di ritardo rispetto l’uscita francese, grazie alle edizioni Tlon ed alla traduzione di Michele Trionfera, arriva in Italia Quinzinzinzili, romanzo post-apocalittico scritto e pubblicato nel 1935 dal critico letterario, traduttore e romanziere francese Régis Messac, autore di La Cité des Asphyxiés (1937) e di Valcrétin (uscito postumo nel 1973). Antimilitarista convinto, attivo nella Resistenza francese, Messac venne arrestato nel maggio del 1943 per poi spegnersi nel corso del 1945 dopo aver sperimentato l’orrore delle carceri e campi di concentramento.

Il romanzo narra dell’avvenuta esplosione di un’arma chimica che ha annientato l’umanità con l’eccezione dell’adulto Gérard Dumaurier e un gruppetto di bambini che si salvano perché al momento della catastrofe si trovano all’interno di una grotta che stanno vistando. A raccontare la vicenda è lo stesso Dumaurier che, attraverso quello che ricorda, tratteggia le tappe che hanno condotto al conflitto e alla catastrofica cancellazione dell’umanità di cui, probabilmente, è l’ultimo superstite adulto. Consapevole che ormai gli resta poco da vivere il protagonista decide di lasciare traccia scritta tanto della fine dell’umanità che della sua rinascita attraverso il gruppo di bambini che si sono salvati.

L’adulto osserva con un misto di disillusione e disprezzo i bambini, costretti allo stato primitivo, alle prese con la costruzione del futuro; vede svilupparsi in loro i medesimi vizi che hanno condotto al disastro le generazioni precedenti, li vede rinominarsi e sperimentare una nuova lingua, affidarsi al pensiero magico e alla superstizione, coglie nelle loro espressioni e nel loro agire i germi della sopraffazione destinata a condurre, nuovamente, alla violenza, all’omicidio e a nuove guerre.

Dumaurier si limita ad osservare, non ha alcuna intenzione di intervenire nel cercare di indirizzare la nascente società; non desidera altro che andarsene al più presto da quel che resta di quel mondo di cui non intende salvare alcunché. Trova la nascente società semplicemente ridicola, forse ancor più ridicola della precedente, contraddistinta com’è da stupidità, cinismo e astuzie che presto, anche questa nuova umanità, imparerà a chiamare scienza, progresso, intelligenza, civilizzazione o qualcosa del genere.

Attraverso il disprezzo del protagonista nei confronti dei bambini Messac sembra voler sfogare i sentimenti che prova nei confronti degli adulti del suo tempo che, non avendo imparato nulla dalla prima carneficina mondiale, stanno ponendo le basi per una nuova follia bellica che si preannuncia ancora più catastrofica. Quasi presagendo la tragica fine che questa umanità gli riserverà, costringendolo a spendere le sue ultime forze nei campi di concentramento, Messac fa affermare al protagonista del romanzo che, alla luce della sorte orrenda a cui sarebbe andata incontro l’umanità, la tragica fine imposta ai disertori e agli oppositori alla guerra può addirittura essere considerata felice e privilegiata.

«In quei tempi, ero Gérard Dumaurier. Adesso, non so più chi sono né se sono. Il mio io si sgretola e si dissolve, sconquassato dall’ariete delle catastrofi, polverizzato dalla dinamite dei traumi mentali; sento fuoriuscire i suoi atomi dispersi e stremati dall’acido di una solitudine cosmica in un mondo raccapricciante». Per non trovarsi a vivere il dissolvimento di Dumaurier, meglio sarebbe condividerne il convincimento che è meglio andarsene da disertori e oppositori piuttosto che da complici (o vittime) della carneficina.