di Gioacchino Toni

Piero Cipriano, Ayahuasca e Cura del Mondo, Politi Seganfreddo edizioni, Milano, 2023, pp. 173, € 15,00

«Ayahuasca significa viaggio tra mondi che uniscono mentale e reale in modo inedito. È possibile curare i disturbi psichiatrici con questa pianta e metodo ribaltando l’idea che sta alla base della psichiatria e psicanalisi attuale?» A porre tale interrogativo è Piero Cipriano, medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, in servizio presso un SPDC di Roma dopo aver lavorato in diversi Dipartimenti di Salute Mentale sparsi per l’Italia, oltre che autore di numerosi saggi. L’interesse di Cipriano nei confronti della bevanda ayahuasca e altre piante nasce dalla necessità di individuare rimedi efficaci per i disturbi psicopatologici con cui ha a che fare quotidianamente per lavoro.

In apertura di libro l’autore tratteggia il diffondersi in Brasile di culti sincretici basati sull’assunzione della bevanda ayahuasca, rituale a cui le popolazioni amazzoniche fanno ricorso probabilmente da millenni. Tra i culti diffusisi in tempi recenti in ambito brasiliano viene fatto riferimento al Santo Daime, fondato in apertura degli anni trenta del Novecento dal seringueiro Raiumundo Irineu Serra, alla Borquinha, culto nato alcuni lustri dopo ad opera del suo discepolo Daniel Pereira, alla União do Vegetal (UDV), culto fondato da José Gabriel da Costa ad inizio degli anni Sessanta. Se quest’ultimo è attualmente il culto più diffuso nelle città brasiliane, è stato il Santo Daime ad aver fatto conoscere la bevanda ayahuasca agli occidentali nordamericani ed europei.

Mentre negli anni Ottanta tali culti raggiungono gli occidentali, in Amazzonia la pratica di sciamano (curandero, ayahuasquero, vegetalista…) è sempre meno praticata. Le cose cambiano nel corso del decennio successivo, quando l’arrivo in terra amazzonica di occidentali interessati all’esperienza psichedelica trasforma il mestiere dello sciamano da pratica povera a lavoro ben retribuito, dando vita così al fenomeno del neo-sciamanesimo che coinvolge anche messicani, andini, pellerossa, allargando l’esperienza a funghi psichedelici, Peyote, San Pedro, Bufo Alvarius, Dmt fumata ecc. Come facilmente prevedibile, l’improvvisa richiesta di sciamani determinata dalla presenza occidentale, che in apertura del nuovo millennio si fa davvero cospicua, determina anche casi di curanderi improvvisati e inaffidabili.

Cipriano ricostruisce dunque come, con qualche millennio di ritardo, le esperienze psichedeliche arrivino anche sul fronte occidentale; grazie ad Albert Hofmann nel 1943 l’Lsd inaugura un paio di decenni di ricerche e sperimentazioni sugli psichedelici a cui la psichiatria dell’epoca ha guardato con interesse vedendo in essi degli psicofarmaci efficaci. Negli anni Sessanta, grazie a Stephen Szára, inizia a farsi strada un’altra molecola psichedelica, la Dmt, dunque è la volta della 5-Meo-Dmt, estratta dalle parotidi del Bufo Alvarius, un rospo del deserto messicano.

Oltre a Lsd, Dmt, 5-Meo-Dmt, mescalina, Peyote/San Pedro, psicocibina o fungo magico, salvinorina A della Salvia divinorum, ibogaina della Tabernanthe iboga e muscimolo dell’Amanita muscaria, iniziano a circolare molecole sintetiche come Ketamina, Mdma, Mda e 2CB.

L’uscita di queste molecole dall’ambito laboratoriale, e l’uso che ne è stato fatto da parte di terapeuti particolarmente eterodossi, ha condotto tali sostanze a una repentina perdita di credibilità dal punto di vista farmacologico tanto da venire rubricate come droghe con relativa messa fuori legge. Il fatto è che, ricorda Cipriano, tutte queste sostanze finirono per spaventano il potere; iniziarono ad essere viste non tanto come sostanze utili per curare depressi, ansiosi, psicotici o dipendenti da sostanze, ma come sostanze che, dissolvendo l’ego che separa il sé dal non sè, indirizzano all’empatia, avrebbero potuto “cambiare il mondo”, “trasformare l’umanità” mandando in frantumi i capisaldi del sistema sociale, politico ed economico egemone.

Timothy Leary, intenzionato a sottrarre queste sostanze psichedeliche prodigiose a una nicchia di privilegiati, ne auspicava una diffusione generalizzata, vedendo in esse “un dono della natura” di cui tutti avrebbero dovuto beneficiare dando così luogo a una trasformazione positiva dell’umanità. Gli Stati Uniti ne decretarono la messa al bando, immediatamente seguiti dalle altre nazioni. Del soffocamento sul finire degli anni Sessanta di questa “epopea psichedelica” tratta Robert Anton Wilson (RAW), uno dei suoi “protagonisti”, nel libro Sex, Drugs & Magik, uscito nel 1973.

Così, a partire dagli anni Settanta, con la loro messa la bando, l’uso di tali molecole finì per essere portato avanti rigorosamente in ambito underground da parte di terapeuti, come Leo Zeff, operanti in clandestinità. Soltanto a ridosso del cambio di millennio ricomparvero studi scientifici condotti alla luce del sole.

Nel corso degli anni Novanta, in anticipo rispetto al cosiddetto “rinascimento psichedelico”, lo psichiatra statunitense Rick Strassman presentò il primo studio in cui si individuava nella molecola Dmt la responsabile delle visioni determinate dalla ayahuasca. Sin dall’inizio del decennio Strassman ipotizza che l’epifisi in particolari situazioni produca quantità di Dmt in grado di dare effetti psichedelici e che lo stato di coscienza definito psicosi sia uno stato psichedelico endogeno determinato da un eccesso di produzione di Dmt. Lo studioso ipotizza che il cervello funzioni di fatto come un ricevitore captante la realtà e che, assumendo Dmt, cambi la captazione del segnale. A bassi dosaggi si avrebbero cambiamenti semplici (intuizioni, ricordi, visioni personali…) in grado di mettere meglio a fuco il segnale, mentre ad alti dosaggi si otterrebbe l’accesso ad “altri mondi” che sembrerebbero non far parte né dell’inconscio individuale, né di quello collettivo.

Paragonando il tutto a un televisione, non si sarebbe più di fronte a un “miglioramento di nitidezza”, ma ad un vero e proprio “cambio di canale”. La giusta quantità di Dmt secreta dalla ghiandola pineale manterrebbe l’essere umano sintonizzato sulla realtà, mentre un eccesso di Dmt endogena lo sintonizzerebbe sua altri piani. Non sapendo come altro fare, per riportare gli individui sul “canale normale” lo psichiatra prescrive antipsicotici che però, se assunti per tempi prolungati, finiscono per “restringere la coscienza”, “sbiadire la percezione della realtà” di queste persone, condannandole alla limitatezza e al grigiore.

Strassman comprende inoltre che il setting ed il set degli esperimenti scientifici – ben diverso dal contesto sciamanico – ne inquina la ricerca e di ciò, suggerisce Cipriano, occorrerà tener conto se mai si deciderà di ricorrere a sostanze psichedeliche in ambito psichiatrico: che non si pensi di potersela cavare somministrando tali sostanze con lo stresso distacco con cui si somministrano pasticchine tradizionali. Insieme alle sostanze dovrà cambiare lo stesso psichiatra se si vuole che queste risultino efficaci sui pazienti. Occorrerà che la figura dello psichiatra che somministra sostanze psichedeliche si faccia un po’ curandero, che sappia instaurare con il paziente e con le sostanze un’adeguata relazione.

Dunque, ricapitolando, per quanto riguarda la psichedelia occidentale si può parlare di una sua fase pionieristica (coincidente con l’epopea di Albert Hoffmann, Aldous Huxley e Timothy Leary), seguita da una sorta di “medioevo psichedelico”, in cui personaggi come Leo Zeff operano praticamente in clandestinità o altri, come Terence McKenna, continuano ad alimentare la controinformazione psichedelica, per poi giungere a quello che è stato definito il “rinascimento psichedelico” che, sull’onda degli studi di Rick Strassman, ha preso il via con il cambio di millennio grazie agli studi scientifici di personalità come Ronald Griffiths della Johns Hopkins University, David Nutt e Robin Carhart-Harris dell’Imperial College London, Stephen Ross – direttore dello Psychedelic Research Group alla New York University – e Charles Grob dell’Harbor-UCLA Medical Center in California.

Secondo Cipriano sono ormai maturi i tempi per fare i conti con i limiti storici di Basaglia che, pur di tirare fuori i poveri cristi dalle mura manicomiali non poteva che ricorrere ai farmaci disponibili. Nel frattempo, però, alle fasce di contenzione si sono sostituiti i farmaci di contenzione e il manicomio si è fatto chimico, a cielo aperto, a base di psicofarmaci, antipsicotici, antiepilettici e così via. Una serie di sostanze che a lungo termine non possono che restringere le coscienze.

I limiti di tanti “basagliani” è forse quello di non voler prendere atto della trasformazione subita dal manicomio; è contro il manicomio contemporaneo che occorrerebbe battersi oggi non accontentandosi di ribadire la brutalità di quello del passato, anche se quest’ultimo, di tanto in tanto, fa comunque capolino pur sotto altri nomi.

Occorre provare ad andare oltre Basaglia e, soprattutto, sostiene Cipriano, oltre i “basagliani”. «Ora bisogna levare i farmaci che cortano le coscienze e imparare a maneggiare le sostanze che possono espanderle. Sostanze di cui talvolta gli esperti non siamo noi, scienziati o medici, ma gli sciamani selvaggi rimasti fuori dalla scienza».

Pur in mancanza di uno studio scientifico che spieghi cosa sia la depressione, quali ne siano le cause e persino i motivi per cui possa definirsi una malattia, stando ai dati dell’OMS, questa sarebbe la seconda malattia più diffusa al mondo (la prima tra chi ha tra i 15 ed i 44 anni). Distinguendo tra tristezza cum causa e tristezza sine causa (la sola da ritenersi patologica), Ippocrate differenziava una malinconia esogena (con causa) da una endogena (priva di causa). Tale millenaria separazione viene di fatto cancellata dal Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders nella sua edizione del 1980 (DSM-III), la “bibbia diagnostica” degli psichiatri stilata dall’American Psychiatric Association (la prima edizione del manuale risale agli anni Sessanta).

Da allora le diverse edizioni del DSM che si sono succedute hanno via via trasformato in depressione ogni forma di tristezza e di stanchezza superiore alle due settimane, ponendo fine alla distinzione millenaria tra malinconia endogena e tristezza esogena, dunque trasformando la depressione da patologia rara in pandemia. Basti pensare che ora si è considerati depressi se per un periodo di almeno due settimane si palesano almeno cinque sintomi tra: umore depresso; diminuzione di interesse o piacere; perdita o aumento di peso; diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o iperinsonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticamento o perdita di energia; sentimenti di autosvalutazione o colpa; diminuzione della capacità di pensare o concentrarsi; pensieri di morte o di suicidio.

È facilmente intuibile come nell’attuale società della prestazione i casi di depressione conteggiati siano così elevati. Qualche decennio di chimica antidepressiva e una riscrittura farmaco-orientata dei manuali diagnostici hanno condotto a una vera e propria pandemia di depressi, tanto che ai nostri giorni se ne stimano 400 milioni, a cui si aggiungono 60 milioni di bipolari, in cui la tristezza si alterna all’eccitamento dell’umore.

Con la diffusione degli antidepressivi, da fenomeno raro in epoca pre-psicofarmacologica, il disturbo bipolare diviene la seconda patologia psichica più diffusa. Non a caso le case farmaceutiche hanno negli antidepressivi la fonte maggiore di profitto. Gli antidepressivi e antipsicotici di nuova generazione di cui i colossi farmaceutici hanno inondato il mercato delle sofferenze a partire dagli anni Ottanta, dopo diversi decenni di utilizzo hanno mostrato i loro limiti.

Oggi, dopo che Ssri e antipsicotici di nuova generazione hanno avuto trent’anni per misurarsi, per mostrare la loro non dico inefficacia (non sarei onesto) ma la loro non risolutività, spero che anche gli psichiatri più timidi e gli psicoterapeuti più tradizionali saranno pronti ad affrontare la sfida, quella di una terapia che saprebbe mettere d’accordo l’annoso conflitto tra pillole e parole, tra trattamenti biologici e trattamenti psicologici. Sarebbe il tipo di terapia che praticava Stanislav Grof o che ha praticato in clandestinità l’eroico Leo Zeff, una terapia breve, di poche sedute ma decisamente trasformativa.
Riconosco che questo modello, diciamo di psicoterapia psichedelica, è un rischio sia per lo psichiatria che per lo psicoterapeuta tradizionale, perché una terapia dove lo scopo è procurare un’esperienza mistica o estatica appare decisamente poco scientifica e molto sciamanica, e potrebbe rappresentare davvero una sorta di cavallo di troia introdotto nella pratica medica e psicologica. Questo potrebbe minare alle fondamenta i protocolli scientifici, contaminare di sciamanesimo la medicina, innescare una mutazione, un’inversione di marcia non solo della psichiatria ma dell’intera medicina.

Certo, nel contesto ad egemonia capitalista in cui viene a darsi questo “rinascimento psichedelico” non manca il rischio che i colossi farmaceutici inglobino le molecole psichedeliche, tolgano loro visionarietà addomesticandone l’effetto, le riducano a semplici farmaci anziché tecnologie capaci di cambiare coscienze e società. Nonostante questo rischio, sostiene Cipriano, le frontiere tra misticismo e cura psichiatrica, tra psichedelici e psicofarmaci sembrerebbero ai giorni nostri vacillare come mai è accaduto prima, tanto da poter ipotizzare la possibilità della cura Ayahuasca.

Non sarebbe però sufficiente sostituire farmaci che espandono la coscienza a quelli che la contraggono; occorrere anche una nuova generazione di terapeuti disposti a imparare come gestire gli stati di coscienza espansi, disposta a farsi «insegnare il segreto dai signori del limite, dalle guide della soglia, imparando dunque a conoscere le molecole psichedeliche». L’ultima parte del volume è dunque dedicata a come si possa intraprendere una sorta di viaggio iniziatico, sciamanico di cura dei disturbi psichici.