di Emilio Quadrelli

Chourmo

L’intervista appena riportata ha ben reso la cornice e il senso all’interno della quale si dipana l’attività del Collectif un’attività che, tra l’altro, ha catturato l’attenzione anche di soggetti provenienti dall’esperienza dei gilets jaunes. Proprio due di questi, M. C., e J.B., una donna e un uomo approdati al Collectif dopo essere stati particolarmente attivi nel movimento dei gilets jaunes sono gli attori sociali con i quali si è cercato di ricostruire il percorso autonomo dei precari e dei disoccupati. Ciò è apparso particolarmente utile perché il terreno dell’autonomia operaia e proletaria pare essere il possibile sbocco politico e organizzativo di tutte quelle energie e forze che il movimento dei gilets jaunes ha messo in campo senza riuscire, però, a dare a tutto ciò forza, progettualità e organizzazione. Le riflessioni dei due ex militanti del movimento, pertanto, assumono un particolare interesse poiché, attraverso le loro parole, viene posto il problema di come trasformare in effettivo dualismo di potere la non secondaria radicalità presente tra quote non irrilevanti di subalterni. Cominciamo con l’ascoltare M. C.

Tu sei approdata al Collectif Autonome Précaires et Chȏmeurs Marseille dopo due esperienze politiche legate prima al movimento femminista e, in seguito, ai gilets jaunes. Come hai maturato questa decisione?
Per quanto riguarda il femminismo e le sue tematiche radicali sono cose che mi porto dentro e che immetto dentro l’esperienza del Collectif. Io nasco all’interno del movimento femminista e di fatto non ne sono mai uscita. Ma partiamo, intanto, con il dire che cosa sono io. Oggi sono una “lavoratrice autonoma” del mondo del turismo. Quello del lavoro autonomo è una delle molteplici facce della precarietà. In passato, quando si parlava di lavoratori autonomi, si ci riferiva a un ceto sociale medio alto, quello dei professionisti. Oggi, invece, essere un lavoratore autonomo è una imposizione delle aziende, per svolgere funzioni in passato di lavoratori dipendenti cioè salariati con un rapporto contrattuale di un certo tipo. Questo tipo di lavoro autonomo non è una forma di emancipazione dal lavoro salariato ma esattamente il contrario. In questo modo l’azienda ti tiene continuamente sotto scacco e tu, di fatto, hai ben pochi strumenti per difenderti perché, proprio per la sua tipologia, la relazione con l’azienda è del tutto individuale. Di fatto noi siamo precari a tutti gli effetti e quindi la mia collocazione dentro il Collettivo risponde a una condizione oggettiva. Lo è anche in relazione alla condizione di disoccupata poiché noi non abbiamo alcuna garanzia di lavoro continuativo, anzi. Può succedere, come accaduto in più occasioni, che un tour sia annullato, in quel caso si
rimane a casa senza paga oppure, quando la stagione turistica è in calo, i momenti di pausa si prolungano notevolmente. L’organizzazione di questa condizione di lavoro, che è una condizione subordinata a tutti gli effetti, è un aspetto, ovviamente non il solo, della attività del Collettivo. Guardando la cosa in maniera più ampia mi sembra di poter dire che questa struttura consente di dare visibilità e legittimità politica e sociale a tutta quella parte di società oggi invisibile e marginalizzata.

Invece, dell’esperienza dei gilets jaunes, cosa porti dentro al Collettivo?
Di quella esperienza che inizialmente mi ha molto coinvolta e affascinata porto ben poco poiché, facendone un bilancio, mi sembra essere stata una grossa delusione o meglio ha deluso del tutto le aspettative che aveva aperto. Questo perché non è andata oltre a una sostanziale genericità e non è stata in grado di darsi un programma, una forma organizzata e degli obiettivi. Questo lo si vede bene oggi quando, di tutto quel movimento, non è rimasto nulla. È stato un grande momento di protesta, con forme anche radicali ma che non aveva una vera direzione di classe e alla fine non ha potuto far altro che evaporare. Con ciò non rinnego la mia partecipazione al movimento, che è stato un po’ una jacquerie solo che tutta quella mobilitazione mi ha fatto comprendere che occorre costruire su basi di classe. A partire da questa considerazione il mio approdo dentro questo Collettivo.

Passiamo così a J.B., il quale, sulla base di una rivisitazione critica dei gilets jaunes, matura la sua adesione al Collectif e, in poche battute, sembra cogliere tanto la grandezza quanto i limiti di quel movimento.

Dai gilets jaunes al Collectif, come avviene questo passaggio? Come valuti la tua precedente esperienza e perché, oggi, ti collochi in questa realtà?
L’esperienza dentro i gilets jaunes ha due facce. Una molto positiva ha mostrato come la società francese sia estremamente esplosiva e che basta un piccolo detonatore per innescare dei momenti di lotta duri e radicali. Come gilets jaunes siamo andati ben oltre la protesta formale. Basta pensare agli attacchi alle banche, agli scontri con la polizia ma, a mio avviso, vi è un aspetto anche più importante che in questa esperienza è venuto fuori, mi riferisco al senso di comunità che le persone, in questa lotta, hanno espresso. Una cosa che ho potuto verificare di persona partecipando ai blocchi organizzati fuori dalle città. Soprattutto lì le persone si riunivano anche per ritrovare una socialità e un senso di appartenenza che la società contemporanea tende a schiacciare. Di questo si parla poco, anzi nulla, ma una cosa veramente importante che in tutti quei mesi è emerso è stata la volontà delle persone di rompere l’isolamento in cui il potere ci costringe. Questo è stato particolarmente vero per quel modo che abitualmente chiamiamo “Francia profonda” dove, a riemergere, sono state le abitudini comunitarie del mondo contadino. Di questo mondo non si parla pressoché mai eppure una grossa fetta della popolazione francese vive lì. Credo che senza di loro sarà difficile arrivare a cambiare radicalmente la situazione. Però questo è un lato del problema. Importante, ma non decisivo. E qua veniamo al limite che si è mostrato insormontabile per il movimento dei gilets jaunes, quello di non essere stato in grado di bloccare la produzione e quindi il paese. Questo movimento non è stato in grado di dare una direzione operaia, eppure i sabati gli operai erano in piazza, alla lotta. I gilets jaunes sono stati un grande movimento di popolo ma non di classe. Questo il suo grande limite. In questo modo tutta la sua pur enorme potenzialità ha finito con il disperdersi e l’evaporare. A partire da ciò mi sono orientato verso questa esperienza del Collectif perché è una esperienza che nasce su basi di classe e lo fa a partire, senza fronzoli di troppo, dalla condizione materiale delle masse.

Voi siete, però, una cosa molto atipica rispetto al variegato mondo antagonista e delle stesse organizzazioni della sinistra radicale. Che cosa è, in poche parole, ciò che vi caratterizza?
Ma intanto noi siamo una struttura che si richiama al marxismo cosa che, oggi, per gran parte dei movimenti è quasi una bestemmia. Parliamo di direzione e centralità operaia cosa sicuramente anomala rispetto a tutti gli altri. Per altro verso, però, non abbiamo neppure alcuna affinità o contiguità con tutti quei micro gruppi comunisti che si rifanno a una qualche tradizione comunista. Questo è bene chiarirlo perché anche questi parlano di classe operaia solo che, nel loro immaginario, la classe operaia è praticamente una icona del tutto priva di concretezza. La riprova la puoi avere sulla questione dei disoccupati che, questi gruppi non prendono neppure in considerazione sul piano dell’analisi mentre noi ne siamo una specifica forma organizzata. Noi lavoriamo per la centralità e direzione operaia avendo in mente la classe operaia del mondo contemporaneo non quella che sta nelle pagine dei libri.

Un’ultima cosa. Il Collectif ha incentrato la sua attività sui precari e i disoccupati. Questo vuol dire che non avete rapporti con altre realtà di classe o nei confronti di queste avete altre forme di interazione?
Hai fatto bene a farmi questa domanda perché mi permette di spiegare alcune cose e non creare confusione e malintesi. In realtà noi stiamo costruendo, però fuori Marsiglia perché il grosso della produzione industriale da tempo è stata spostata nelle città satelliti, una rete operaia. Siamo in una fase embrionale e, in alcune situazioni, abbiamo preso noi in mano la struttura sindacale della CGT. Dentro Marsiglia, invece, in alcuni luoghi di lavoro più tradizionali lavoriamo dentro strutture sindacali più piccole ma che, in certe situazioni, hanno un grosso peso. Si tratta di un lavoro già in atto ma ancora tutto da definire. Crediamo che non si debba avere un modello assoluto di organizzazione ma lavorare per lo sviluppo dell’autonomia operaia dentro tutte le forme possibili.

Prima di concludere, al fine di capire meglio ciò di cui stiamo parlando, vediamo come opera concretamente il Collectif. Lo facciamo attraverso le parole di D. N. un corso da tempo stabilizzatosi a Marsiglia che è stato uno dei primi animatori del collettivo dei disoccupati.

Puoi farmi un esempio di come interviene il Collectif?
Certamente. Posso parlarti della campagna che abbiamo iniziato a sviluppare con le operaie e gli operai che lavorano nel Mama Restaurant Marseille. Questa è una catena di ristoranti di cucina italiana, la Big Mama, presente in tutta Europa. A Marsiglia occupa un 200 persone, in gran parte donne, in condizioni di super sfruttamento, tempi e ritmi di lavoro di tipo semi coatto, con contratti a termine, un modo quindi per ricattare costantemente la forza lavoro, e con scarsissima attenzione sulla sicurezza sul lavoro. Una situazione che è una vera e propria fotografia della condizione operaia marginalizzata. Questa condizione non è una anomalia ma il livello medio della condizione dei precari e dei disoccupati. In questi posti non vi è alcuna forma di organizzazione sindacale, cosa che condividono con tutte le realtà simili, oltre a un continuo dispotismo esercitato dai capi i quali, per di più, si distinguono per continue molestie sessuali nei confronti delle dipendenti. Alcune ragazze che vi lavorano hanno conosciuto un paio del Collectif e così hanno iniziato a parlare della loro situazione. Abbiamo così valutato la possibilità di intervenire nella situazione. Abbiamo prima sondato il terreno, senza uscire allo scoperto, e abbiamo così costruito una rete interna di una trentina di dipendenti. A quel punto abbiamo iniziato a mettere dei volantini negli spogliatoi e, una volta verificato che intorno alla lotta c’era una sostanziale adesione da parte dei più, abbiamo iniziato a fare dei volantinaggi all’esterno del ristorante denunciando la situazione lavorativa. Abbiamo ripetuto la cosa più volte e, oltre ai volantini, ci siamo messi a tenere dei comizi di denuncia. In questo modo abbiamo reso noto che cosa è Mama Restaurant.

Questo cosa ha comportato?
Subito c’è stato un tentativo di brutale reazione da parte della direzione, tentativo subito andato in vacca perché noi eravamo organizzati anche per fronteggiare una situazione simile che ritenevamo molto probabile. A quel punto la direzione ha iniziato a fare del terrorismo interno minacciando licenziamenti, denunce e così via. In seguito, però, hanno dovuto fare marcia indietro perché si sono ritrovati la quasi totalità dei dipendenti contro e pronti a scioperare e a bloccare con i picchetti tutta l’attività del ristorante. Si è arrivati così a una contrattazione che ha modificato dipendenti. notevolmente sia il livello salariale, sia le condizioni di vita all’interno oltre alla stabilizzazione di un buon numero di dipendenti. Diciamo che, senza farla più grossa di quello che è, si è trattato di una vittoria, piccola ma significativa perché è stata in grado di incrinare una condizione che sembrava inattaccabile. Con ciò abbiamo dimostrato che è possibile lottare ed è possibile vincere. Sul piano simbolico, per quanto piccola, questa lotta dice a tutti gli invisibili che con l’organizzazione collettiva si può uscire dal ghetto in cui stato e padroni vogliono rinchiuderti.

Immagino che, a partire da questa esperienza, stiate pensando a uno sviluppo di queste pratiche?
Assolutamente sì. Il nostro passaggio già in atto è lo sviluppo di questa lotta in tutta la catena Mama Restaurant.

In tutto questo avete una qualche forma di appoggio da parte della sinistra radicale e antagonista?
No, se si escludono alcune realtà anarchiche che si sono mostrate immediatamente solidale da tutti gli altri non abbiamo avuto alcuna forma di appoggio.

Secondo te per quale motivo?
I gruppi di area comunista, non ritengono la lotta autonoma e autoorganizzata un metodo giusto. Diciamo che loro hanno un’idea di una lotta di classe del tutto ideologica e libresca. Soprattutto hanno idea di una classe che esiste solo nelle loro teste e nei loro documenti. Non è un caso che questi gruppi siano irrilevanti e privi di contatto con la realtà. Per tutto il mondo che si definisce movimento radicale e antagonista molto semplicemente gli operai non esistono. Quindi è normale che non considerino minimamente situazioni come queste.

A quanto capisco siete una realtà che ha poco o nulla a che fare con ciò che comunemente è definito “movimento”. Vi sentite isolati? Oltre a queste iniziative, ne avete altre? Tra le realtà politiche con chi avete una qualche relazione?
Intanto credo che sia importante dire che abbiamo anche iniziato una stretta collaborazione con il Collettivo autonomo dei muratori il quale raccoglie un buon numero di operai e si muove in una direzione molto simile alla nostra. Questo significa che la lotta autonoma operaia non solo esiste ma che sta cercando di darsi progetto e organizzazione. I rapporti che abbiamo con strutture operaie nelle città satelliti di Marsiglia è molto indicativa. Rimanendo su Marsiglia abbiamo iniziato anche a organizzare delle occupazioni di case nel terzo arrondissement oltre che una campagna per l’autoriduzione delle bollette non solo nel terzo ma anche a Les Caillos e La Castellane. Quindi, per rispondere alla tua domanda, non siamo isolati per nulla . Per quanto riguarda, invece, i rapporti con altri gruppi e realtà qua a Marsiglia li abbiamo, come ti ho detto, soprattutto con gli anarchici mentre, in giro per la Francia, con alcuni gruppi di provenienza maoista sopratutto di origine marocchina e tunisina.

Una conferma di quanto appena riportato mi è stata possibile constatarla osservando, scendendo in piazza insieme a loro, nel corso degli scioperi generali del 2 e del 7 febbraio. In entrambi i casi quello che possiamo definire “blocco autonomo” si è presentato per le vie della città con spezzoni di circa 1500 persone facendo sì che, lo spettro della “centralità operaia” e della sua autonomia”, ritornasse a aleggiare tra le vie e le piazze di Marsiglia. Con ciò il mitologema della città parrebbe rivivere depurato, però, da ogni sorta di ricordo bensì nell’attualità di una memoria che guarda al presente con le spalle al futuro1. A questo punto il pur stringato resoconto etnografico e possibile canovaccio di una ricerca a tutto tondo ci consente pur sempre di dire qualcosa su questa città. Marsiglia ci racconta una storia, per nulla edulcorata, del proletariato contemporaneo, delle sue lotte, dei suoi sogni, dei suoi desideri. La città del minstral, a differenza di ciò che sognano le classi dominanti, non ci porta il vento pacificato del non – luogo turistico dove masse senza volto e in continua competizione tra loro si prostrano e svendono, ma a soffiare è la tempesta di una soggettività proletaria che della lotta ha fatto il suo fine. Contro tutto e tutti i dannati della metropoli alzano la testa e affermano la propria esistenza. Tutto ciò nel più completo silenzio e disinteresse di ciò che si definisce “sinistra antagonista e radicale” la quale, da tempo, ha del tutto espunto dal suo orizzonte le lotte operaie e proletarie ma, proprio per questo, rimettere al centro del conflitto la nuova composizione di classe e non adagiarsi alle e sulle parole del potere, è ciò che una teoria critica dovrebbe cominciare a fare. Certamente non sarebbe tutto, ma sarebbe sicuramente qualcosa.

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  1. Al proposito si veda: W. Benjamin, Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus Novus, Einaudi, Torino 1981