di Stefano Boni

Per certi versi quelle che sono classificate come “teorie del complotto” (quelle che circolano con rabbia principalmente su internet) e le narrative egemoniche (quelle irradiate a reti unificate dai TG, dai quotidiani e dalle agenzie di stampa) sono antitetiche. Le principali divergenze riguardano i contenuti (ciò che si ritiene, se non vero, credibile) e i toni (accesi, a tratti furiosi in quello che viene denominato complottismo; ingessati e rassicuranti nella informazione legata ai – se non prodotta dai – poteri istituzionali). Questa frattura epistemologica sempre più profonda tra chi è convinto che le istituzioni, nel loro complesso, siano credibili e chi invece le vede come organi di manipolazione di massa, è ormai evidente.
Quello su cui non ci si sofferma è ciò che accomuna questi due filoni narrativi: le loro similitudini riguardano fondamentalmente i processi cognitivi di costruzione di quello che Foucault chiamava i regimi di verità ovvero “l’insieme delle regole secondo le quali si separa il vero dal falso e si assegnano al vero degli effetti specifici di potere”. A Foucault non interessa stabilire cosa sia vero o falso ma la costruzione di regimi, culturalmente specifici, in cui certe affermazioni appaiono a certi gruppi come tali: ciò che viene socialmente ritenuto autentico o fraudolento è prodotto e produttore delle dinamiche di potere prevalenti.

… credo che il problema non sia di fare delle divisioni tra ciò che, in un discorso, dipende dalla scientificità e dalla verità e ciò che dipende da altro, ma di vedere storicamente come si producano degli effetti di verità all’interno di discorsi che non sono in sé né veri né falsi (Foucault 1977: 25-27, 13).

Questo approccio ci permette un’operazione antropologica, finalizzata non tanto a giudicare la veridicità delle credenze proposte da diversi contesti ma piuttosto cercare il senso di ciò che le narrazioni esprimono per chi le formula e le ascolta. Questo è stato lo sguardo usato dall’antropologia per comprendere l’effetto sociale di miti, cosmologie, rituali, pratiche occulte; si può applicarlo anche a quelle che vengono denominate “teorie del complotto” e alle narrazioni istituzionali contemporanee.
Quello che accomuna “teorie del complotto” e narrative egemoniche è la costruzione di regimi di verità fondati su drastici meccanismi di semplificazione. Queste non sono chiaramente dinamiche inedite (la storia ne è piena sia tra i dominanti che i dominati) ma mi pare innegabile un’accentuazione di processi di decisa riduzione della complessità negli ultimi due decenni. Di seguito illustro alcuni di questi meccanismi di semplificazione, facendo notare come siano cruciali in entrambi i lati della contesa contemporanea su ciò che sia da ritenere vero.

1. Linguaggio post-ideologico. Chi viene denominato complottista così come le narrazioni egemoniche sono concordi nel constatare che siamo in una fase di transizione: i principali media insistono sullo stato di “crisi” o “emergenze”; le teorie del complottano hanno una visione più millenarista che sostiene l’approssimarsi della fine di un mondo corrotto e insostenibile. Per entrambi i campi, le categorie novecentesche sono ormai desuete. Le parole, gli schemi, le interpretazioni, i temi trattati da entrambi i filoni narrativi hanno ormai abbandonato l’ambito di quello che è stata la politica novecentesca, centrata sulla razionale valutazione del sistema migliore di gestione del bene pubblico. Nel racconto egemonico gli atti di governo sono sempre più ricondotti all’inevitabilità, alla necessità tecnica, fondata su pseudo-spiegazioni algoritmiche-numeriche (Boni 2022). Nelle cosiddette teorie del complotto si propongono letture che non si accontentano di proporre un aggiustamento dell’arte del governo ma chiedono una radicale palingenesi legata a profonde discontinuità etiche e spirituali; le affiliazioni e le diatribe politiche novecentesche vengono spesso ritenute vetuste e inutili. Il linguaggio di entrambi i generi narrativi più che finalizzato a ricostruire una descrizione affidabile e proporre una convincente strategia di gestione mira a suscitare emozioni riconducibili a dicotomie: giusto/ sbagliato oppure buono/ malefico. L’enfasi morale richiede di direzionare il messaggio alle viscere di chi ascolta piuttosto che fare affidamento sulla complessa negoziazione di soluzioni in contesti eterogenei.

2. L’enorme potere esplicativo del dettaglio. I processi odierni di semplificazione analitica si nutrono di spiegazioni fondate sull’attribuzione di un enorme capacità esplicativa a frammenti di documentazione piuttosto che ad un vaglio complessivo della serietà delle “prove” a sostegno della narrazione. Innanzitutto si elimina la profondità storica fino a neutralizzarla: la narrazione rimane sul presente (significativa ad esempio la capacità di far iniziare il conflitto russo-ucraino nel 2022 o la sostanziale accettazione degli USA come credibili paladini democratici, cancellando decenni di imperialismo e appoggio a dittatori sanguinari). In secondo luogo ci si affida a schegge di informazione: un’immagine, una frase, un video, un singolo evento possono essere usati come chiavi di lettura risolutive per farsi un’idea su dinamiche stratificate, sfaccettate, complesse. In questo modo alcune teorie complottiste riducono il capitalismo al piano diabolico di una setta (i miliardari ebrei), di una famiglia (ad esempio i Rothschild), di un fondo di investimento (ad esempio Blackwater) o di un economista (ad esempio Klaus Schwab) piuttosto che esaminare il complesso di forze in atto. Allo stesso modo i movimenti noGP possono essere etichettati come fascisti con un processo di estensione su un movimento variegato di una (piccola) parte attentamente amplificata attraverso la pubblicizzazione di certi eventi (l’assalto alla CGIL) attentamente selezionati se non proprio generati ad arte. In questo processo analitico fondato su frammenti di documentazione la cui valenza esplicativa viene generalizzata, la tendenza a personificare, ovvero a spiegare facendo riferimento non a dinamiche sociali o strutturali, ma a singoli individui (spesso portatori di piani diabolici), diventa comune: “la guerra di Putin” o “i divieti di Draghi”.

3. Assolutismo. Si tratta essenzialmente di non lasciare alcun spazio al dubbio, all’ambivalenza, alla contraddizione, alla eterogenesi dei fini. La narrazione si presenta come un monoblocco solido e inattaccabile fondato su una spiegazione lineare: obiettivo-azione-effetto previsto. L’impianto narrativo, spesso improntato sullo svelamento di un arcano, spiega tutto in modo convincente ed esaustivo. Di conseguenza le narrazioni richiedono un’adesione fideistica, un allineamento integrale piuttosto che una valutazione o interpretazione. Ne consegue una dicotomizzazione delle verità, senza la possibilità di percorrere interpretazioni ibride o di soffermarsi sulle sfumature. Il filone narrativo concorrente infatti non risulta solo meno convincente ma insensato, falso, mistificatorio. I media egemonici deridono “i complottismi” come fake news, espressione di credenze patologiche. L’affermarsi della convinzione (poco problematizzata) che esistano fake news presuppone che invece i canali legittimi irradino true news. Attraverso questa brutale semplificazione un modello epistemologico irriducibilmente dicotomico è servito: se non si propongono notizie catalogabili dai media egemonici come vere, si cade automaticamente nella categoria, stigmatizzabile a piacimento, dei diffusori di falsità. Diventa così sempre più complicato formulare critiche radicali popolari perché si corre il rischio di essere sbrigativamente catalogati come chi sostiene un assurdo complotto. D’altro lato le critiche popolari etichettate come complottiste tendono a fondarsi su sentimenti di delusione e rabbia; queste portano all’individuazione di nuclei di verità critica occultati dalla narrazione egemonica; l’espressione pubblica di queste letture sovversive prevede una palingenesi epistemica produttrice di interpretazioni eretiche, incompatibili con le letture istituzionali.

4. L’abbandono della dialettica. Le credenze si costruiscono e rimangono sempre più bolle auto-referenziali, sia quelle mediatiche sia quelle diffuse su blog e social network proponenti teorie riconducibili al complottismo, nel senso che non vengono sottoposte al vaglio di chi la pensa diversamente. Ormai è scarsa la volontà – sia da parte di chi irradia ma anche da parte di chi riceve le narrazioni – di costruire la credenza sul confronto argomentato tra una diversità di letture. Il contraddittorio con interpretazioni distanti, anche antitetiche, ci obbliga ad esaminare in maniera attenta una documentazione complessa e ambivalente; consente di aggiustare la propria tesi in base alle obiezioni di chi la pensa diversamente; permette di sondare posizionamenti intermedi o imprevisti; ci costringe a cautele epistemologiche, metodologiche e narrative che l’auto-referenzialità delle narrazioni contemporanee non prevede. La mancanza di confronto, o meglio l’indisponibilità ad ascoltare seriamente la posizione altrui, spinge ad adesione fideistiche e impermeabili oltre che ad una polarizzazione delle credenze. Lo svuotamento della dialettica sul piano narrativo completa l’opera di delegittimazione di qualsiasi forma di conflitto portato dai movimenti sociali, ridotti a problema di ordine pubblico. La volontà di dialogo è stata assente in modo evidente durante la sindemia, fino alla richiesta da parte di un ex-primo ministro di “modalità meno democratiche nella somministrazione dell’informazione” finalizzata a ridurre ulteriormente quello che appariva uno spazio di dibattito già praticamente inesistente1 (il fatto che a distanza di due anni ancora non ci siano dibattuti pubblici tesi a confrontare posizioni divergenti sulla gestione pandemica è significativo così come la sostanziale assenza di confronto pubblico acceso di fronte al pericolo nucleare!). In tale contesto, il progressivo ritorno della censura generalizzata sui canali social ma anche televisiva (apparentemente salvata con l’apparizione di sporadiche voci dissenzienti che possono essere comodamente massacrate sia perché minoritarie, sia perché lo spazio per un ragionamento non c’è, sia perché le posizioni presentate come eversive sono già state neutralizzate dalla loro ossessiva derisione). Allo stesso modo le teorie del complotto non prevedono la possibilità di chiedere documentazione complessa, di dissentire in parte, di sollevare obiezioni. Ci si arrabbia sempre meno al bar e si discute sempre meno in strada, ognuno stretto nei suoi regimi di verità.

L’accentuazione di questi processi è riconducibile, tra l’altro, a tre dinamiche. Le prime due sono riferibili ad una crisi della informazione egemonica non più in grado di generare consenso e perlomeno quiescenza in settori ampi, gruppi non riconducibili più al solo mondo dell’attivismo politico “classico”.
Primo, lo spostamento della politica, e quindi del conflitto politico, da un ambito razionale ad uno emotivo, finalizzato a generare sensazioni: i media ultimamente solleticano le emozioni legate all’emergenza (ansia e paura in primis) mentre quelle classificate come teorie del complotto alimentano principalmente la rabbia anti-sistema. I movimenti attuali e futuri sembrano sempre più caratterizzati da una collera indirizzata verso l’alto e una frustrazione livorosa verso gli altri dominati, alimentando una progressiva polarizzazione, fino a scenari di guerra civile.
Secondo, una crisi epistemica della informazione egemonica non più in grado di generare consenso, o perlomeno rassegnazione, in ampi settori sociali che rimanda ad una più profonda crisi del modello politico ormai incapace di garantire le promesse di benessere e rappresentanza. A questa difficoltà i media istituzionali hanno reagito irrigidendo i regimi di verità, ovvero non ammettendo dubbi e sfumature, e negando qualsiasi credibilità a critiche emerse fuori dai meccanismi egemonici di produzione della informazione e della credenza.
Terzo, la trasformazione dei canali tecnologici attraverso cui passano le informazioni, ovvero l’avvento degli smartphone con le caratteristiche dei loro canali, in particolare blog e social network. Il meccanismo del “like”, il linguaggio schematico, i temi rapidi, in breve la richiesta di un’attenzione sfuggente nella ricezione del messaggio rientra appieno in questo processo di digestione delle narrazioni intesa come adesione/rifiuto piuttosto che problematizzazione. Questa tendenza all’auto-referenzialità è rafforzata dalla scelta dei gestori della rete di alimentare le convinzioni soggettive con narrazioni che propongono credenze analoghe, ovvero l’induzione al consumo di informazioni confermative che portano a scoraggiare il confronto con chi la pensa diversamente. Si creano così regimi epistemici settoriali, isolati ed auto-referenziali.
Riconoscere le somiglianze tra critiche popolari etichettate come teorie del complotto e informazione egemonica significa riconoscere il peso di dinamiche culturali trasversali che vanno ad impattare il piano cognitivo della costruzione della credenza. Significa anche evidenziare come la critica popolare – se fatta esclusivamente in termini ipersemplificati – riproduce alcuni meccanismi propri del potere istituzionale, in particolare lo scadimento del livello analitico. Questo scadimento complessivo, polarizzato su posizioni contrapposte, mina la risorsa forse più preziosa dei movimenti sociali, la paziente costruzione della credenza mediante un dibattito polifonico e approfondito, in grado di generare solida consapevolezza e azioni coerenti con questa. Per tornare a Foucault, gli effetti che genera questa convergenza sulla semplificazione della critica popolare del potere (classificata come teoria del complotto dai suoi oppositori) è la creazione di settori fortemente critici ma non in grado di scardinare la visione dei più, anzi non in grado neanche di dialogare con chi è rimasto nelle credenze egemoniche. Si consolida in ampie fasce un senso di profonda estraneità rispetto alle dinamiche egemoniche ma si fa difficoltà ad allargare la base del consenso critico.
Lo scetticismo crescente con cui sono accolte analisi profonde e l’insofferenza verso i “professori” e gli “intellettuali” (anche questa dinamica comune ad entrambi i campi narrativi) acquistano un senso se viste nella lettura qui proposta; ma ciò non ci esime dal, anzi ci dovrebbe spingere ancora di più a contribuire alla costruzione pubblica di regimi di verità complessi, dialoganti, polifonici.

Bibliografia

Boni Stefano (2022) “Postfazione”, Culture e Poteri, seconda edizione, eleuthera, Milano.

Boni Stefano (2022a) “In assoluta sicurezza. Rimozione della morte, onnipotenza tecnica, controllo pandemico e iatrogenesi”, in N. Bertuzzi e E. Lello (a cura di) Dissenso Informato. Pandemia: il dibattito mancato e le alternative possibili, Castelvecchi, Roma.

Boni Stefano (2022b) “Eliminare il virus, schermare i corpi. L’illusione di onnipotenza tecnica e i suoi rischi” in AA.VV. Antropologia di una pandemia, AAM Terranuova.

Foucault Michel, (1976) “Intervista a Michel Foucault”, in Microfisica del Potere. Interventi Politici,Einaudi, Torino 1977.


  1. Boni 2022a, 2022b 

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