di Pina Piccolo*

[Una versione più ampia di questo articolo è apparsa in inglese su Antonym Magazine]

Definire Lucia Cupertino ‘poetessa dei sud’ ci consente di partire subito da un elemento che colloca la sua produzione poetica all’interno del mondo globalizzato che caratterizza il ventunesimo secolo. Anche solo guardando all’Italia, in poesia le risposte alla condizione di appartenere al sud sono state e sono attualmente declinate in innumerevoli poetiche e tematiche, piuttosto che in uno stile e pensiero unico e monolitico, e questo vale ancora di più per una poetessa come Cupertino che detiene una ‘pluriappartenenza’ ai sud del mondo. Questa sua appartenenza a molteplici mondi si manifesta nel suo plurilinguismo, ovvero il fare poesia in italiano e spagnolo, che rimanda non solo a due mondi linguistici, bensì anche ad una diversità derivante dalla costante frequentazione di saperi e pratiche di tipo antropologico ed ecologico. Per comodità individuo come punto di partenza il nucleo ‘legame alla terra’ come denominatore comune alle poetiche del sud e da lì cercherò di indirizzare chi legge verso i nuclei che rendono unica e particolarmente fruibile la poesia di Lucia Cupertino. Alla domanda di un giornalista circa i tratti poetici che accomunano Polignano a Mare, suo paese di nascita, e la Colombia, all’epoca sua terra di adozione, la poeta risponde partendo proprio dal concetto di terra:

[terra] elemento che ci nutre per tutta la vita, finché con la morte dovremmo essere noi, in un processo naturale di restituzione, a ridarle quanto ricevuto. Almeno dal secondo dopoguerra abbiamo avuto cambiamenti profondi e accelerati, le società sono state sempre più sottomesse a processi di industrializzazione e sviluppo che però non hanno sempre determinato altrettanto benessere e felicità. Infatti i risultati sono sempre più disastri ambientali, guerre e disgregazione sociale. Sia la nostra Puglia che la Colombia che ho conosciuto rappresentano il Sud e la terra, un binomio troppo spesso bistrattato, ma che è il nostro ombelico. L’occhio della poesia invece questo legame indissolubile non lo ha dimenticato, non ha ceduto a facili fascinazioni, anzi ne vuole indagare sempre di più le mutazioni e le segrete storie. In fin dei conti è come penetrare un mistero senza mai afferrarlo, ma comunque rispettandolo perché l’abbiamo ricevuto in dono. […] La poesia si nutre dell’esperienza e questa mia in America latina si intreccia con il mito.

Quindi compresenza di storie e miti, nonché reinvenzione di entrambi in cui primeggiano figure e cosmologie da Abya Yala, corrispondenti con il ricco mosaico di mescolanze culturali dell’attuale America latina, ma entrano anche in dialogo ‘sotterraneo’ con il sostrato di mito e letteratura europea che fanno parte della sua formazione. Spesso si dipanano come racconto in poesia di ‘storie’ con la s minuscola sono le sorgenti della sua poetica con modalità che ricordano il lavoro di Eduardo Galeano:

Il vento e i passi mi hanno tratto storie straordinarie al cuore, tristi e perfino crudeli come altre piene di speranza e luce. Io le ho solamente raccolte. A volte schegge di Storia sono rimaste intrappolate nella rete della scrittura, altre volte pura polvere di stelle, visioni impalpabili, la gloria della natura che si rigenera, nonostante tutto. Quando le pareti della mia anima aderiscono al mondo, lì trovo la mia casa.

Cupertino non esita a trasgredire quel confine che segna il limite tra i generi, per cui si vuole che la narrativa sia il contenitore adatto sia per le storie che per la Storia, lei invece le elegge a materia della sua poesia, nella loro variegata imprevedibilità. Evocati nell’introduzione alla sua raccolta No tiene techo mi casa / Non ha tetto la mia casa  il vento e la natura, lungi dall’essere elementi di sfondo sono visti come parte integrante della storia/e, posseggono una propria intelligenza, partendo forse a livello inconscio da un coacervo di immaginari tratto dal suo mondo d’adozione, sedimentatosi stabilmente nella sua poetica e integrato con quelli del mondo occidentale e in particolare del suo sud Italia.

In un saggio all’interno di una collettanea su utopia e produzione artistica che nel titolo richiama la necessità di resettare la bussola verso i sud del mondo, la poeta individua tre tendenze auspicabili per la letteratura contemporanea: la dirompenza, il ‘maladattamento’ quale rifiuto di adattarsi alle correnti egemoniche e l’emergenza, cioè il fenomeno dell’emergere di un ‘nuovo’ imprevedibile da combinazioni di elementi che non ne presagiscono l’insorgere.  Nella sua poesia Lucia Cupertino incorpora questi tre elementi e li fa propri traducendo in poesia istanze che vanno dal pensiero di Boaventura Sousa Santos sulle epistemologie del sud alle cosmovisioni native sperimentate direttamente dall’autrice nel corso del suo lavoro di antropologa culturale.

A livello di poetica, la propensione alla dirompenza viene messa in atto tramite la scomposizione della tradizione e la sua ricomposizione in chiave personale e riportata all’attualità. “Sul balcone del mondo” è introdotta da un’epigrafe con versi di Vittorio Sereni: “È cresciuta in silenzio come l’erba / come la luce avanti il mezzodì / la figlia che non piange”. La lirica TRA LE ARCATE in cui la poeta si colloca sotto un ponte per far crescere il suo canto, termina con i versi : “Tra queste arcate di ombra / rubata a tanta luce / in silenzio l’erba cresce / e respira la terra piano”, la figlia che non piange si è appropriata degli elementi lirici e li ha ricomposti in maniera personale, secondo le proprie necessità.

Nelle poesie di denuncia della distruzione ambientale e delle vittime delle follie introdotte per controllare la natura, troviamo la presenza di oggetti e situazioni apparentemente banali che, in un’insolita declinazione del correlativo oggettivo, sembrano preannunciare l’insalubrità del mondo: nella poesia dedicata a Silvino Talavera il vento agita le palme e sospinge una lattina, causando uno zufolio sordo di ardua interpretazione, mentre in quella dedicata a Fabián Tomasi il corpo rinsecchito come una sardina sotto sale deriva dallo stesso glifosato, agente chimico che gli procura, in quanto fumigatore, una lenta morte, ma che lo porta anche a scegliere di diventare esempio di denuncia proprio attraverso l’esposizione del proprio corpo deforme. Le metafore, le metonimie e i paradossi appartengono decisamente all’universo di chi lotta in quei movimenti, non sono stanche ripetizioni di cliché appartenenti al mondo della letteratura.

Per propria scelta la posizione della poetessa non è al di sopra di ciò che la circonda ma   esplicitamente al fianco di chi subisce, sta accanto, cammina assieme alla società e al resto degli esseri animati o inanimati che essi siano: è una canna di bambù, trafitta dal vento, che non si impone sulla materia ma la abbraccia. È un atteggiamento empatico che riconosce la mancanza di risposte chiare o soluzioni univoche, ma nonostante tutto non dà segni di rassegnazione o di autocommiserazione e continua a usare la poesia come strumento conoscitivo piuttosto che come mezzo consolatorio o mera espressione di emozioni.

Lo spirito di comunione che dà slancio alla sua poetica emerge in maniera chiara nella poesia “I bordi del mondo”, parte di una serie di inediti che a mio parere segnano una sua ulteriore evoluzione. In essa assistiamo al dialogo tra la poeta e un picchio impegnato, quasi provocatoriamente, a beccare i bordi del mondo, chiedendole se crolleranno. In un primo momento la sua risposta è rassicurante “Ma no!” “[…] nonostante la recinzione dell’area riservata/ alla caccia cominci qui / nonostante gli aerei volino bassi / fin dove tu e io /ci siamo spinti alla ricerca / dell’albero che regge il cosmo”. Poeta e picchio si inoltrano nella foresta in una rivisitazione della selva dantesca in cui vi è però parità tra l’umano e la ‘fiera’, l’animale non costituisce l’ostacolo, assistono entrambi, in una sorta di alleanza, ai brutti presagi, consapevoli forse dell’impossibilità di sopravvivenza che li attende. Ma per una specie di elegiaca tenerezza la poeta si rifiuta di pronunciare parole che registrino il crollo e la diano vinta, semplicemente abbraccia il picchio “Crolla tutto, corriamo / ma non lo dico, solo ti abbraccio.”  La parola, la poesia non devono quindi sancire la fine della speranza. E qui si potrebbe intravedere un’allusione al mistero dell’emergenza. Vi è una grande forza in quel noi finale, un mettersi alla pari con il creato, a cui sarebbe difficile arrivare all’interno di un paradigma scientifico occidentale, e che viene esplorato maggiormente nella sua produzione più recente. Anche nei migliori poeti avulsi da sentimentalismi, capaci di perdersi all’interno della natura, di sentirne la comunanza, di percepirne l’importanza come fonte di conoscenza e quindi come oggetto di poesia, come potrebbe essere Lorenzo Calogero, permane la linea di confine tra l’umano e il non umano, che sancisce una grande solitudine e apre la strada alla disperazione per chi sia escluso dal sentirsi in comunione con la società. Forse in questo potrebbe incidere la pluriappartenenza di Lucia Cupertino ai sud del mondo, elementi che le potrebbero conferire una maggiore flessibilità nell’accettare l’assenza di confine tra l’umano e il non umano.

Una delle sue più belle poesie della serie dedicata ai fiumi, originariamente scritta in spagnolo e autotradotta dalla poeta, intitolata “Fiume Cauca”, si situa in un paesino del sud della Colombia, chiamato Trujillo, che fu teatro di uno dei peggiori massacri della storia del conflitto armato colombiano tra gli anni ’80 e ’90: il fiume le manda in sogno la ‘registrazione’ dell’eccidio, aspettandosi da lei un impegno di denuncia: “Quando la verità fa nido sulla mia bocca/ irrompono zattere e un intero popolo le abita,/ Sono gli occhi dei senza giustizia ad affacciarsi / i tuoi stessi occhi, fiume Cauca, bruciano ancora”.

In altri casi, per esempio nella poesia “Salvataggio” non vi è però la possibilità di cercare un’alleanza con la natura bistrattata dall’avidità umana; nemmeno quando indossiamo la maschera salvifica o pretendiamo di proseguire vecchi riti di ‘civiltà’ davanti alla sciagura: “Il fiume che mi è stato affianco / per anni in silenzio / oggi mi inonda / nessuno viene a spalare /tutto accade / rotola verso il finale”. E dopo aver registrato la futilità del salvataggio dall’inondazione di oggetti del quotidiano, sostiene che “Non serve salvare il set di tazzine / souvenir di un viaggio dimenticato /se anche il cieco all’angolo /è già stato fatto evacuare.” Le tazzine ritornano come segno dei vacui riti della civiltà, ma non hanno alcuna efficacia contro la rabbia del fiume, che non si piega all’ipocrisia umana ed è determinata a punirla, “Niente / neppure un’ombra /a cui offrire un caffè o una sedia / per cui inventare una scusa / affinché mi stia a fianco / mentre muoio / con l’illusione di un salvataggio.” In questa serie di poesie come in altre il sud, quindi, si rispecchia nella poesia di Lucia Cupertino anche come frontiera di una ricerca epistemologica, come tentativo di trovare possibili modi di sopravvivenza per tutte le creature viventi e non che fanno parte del pianeta.

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LUCIA CUPERTINO (1986, Polignano a Mare). Scrittrice, antropologa culturale e traduttrice. Laureata in Antropologia culturale ed etnologia (Università di Bologna), ha conseguito un Master in Antropologia delle Americhe (Università Complutense di Madrid). Vive da tempo tra America latina e Italia, attiva in progetti di ricerca, educativi e di agroecologia. Scrive in italiano e spagnolo e ha pubblicato: Mar di Tasman (Isola, Bologna, 2014); Non ha tetto la mia casa – No tiene techo mi casa (Casa de poesía, San José, 2016, Premio comunitarismo di Versante Ripido). Suoi lavori poetici e di narrativa sono apparsi in riviste e antologie italiane e internazionali. Parte della sua opera è stata tradotta in inglese, cinese, spagnolo, bengalese e albanese. È curatrice di 43 poeti per Ayotzinapa. Voci per il Messico e i suoi desaparecidos (Arcoiris, Salerno, 2016, menzione critica nel Premio di traduzione letteraria Lilec – Università di Bologna); Muovimenti. Segnali da un mondo viandante (Terre d’Ulivi, Lecce, 2016), Canodromo di Bárbara Belloc (Fili d’Aquilone, Roma, 2018), Paese di occhi e sogni di Andrés Morales (Fili d’Aquilone, Roma, 2019). Membro della giuria del Premio Trilce  di Sydney, in collaborazione con l’Instituto Cervantes.

 

*PINA PICCOLO è una scrittrice, blogger e promotrice culturale, che pubblica in italiano e inglese in riviste letterarie digitali e cartacee, in antologie e volumi collettanei. La sua raccolta di poesie I canti dell’Interregno è stata pubblicata da Lebeg Edizioni nel 2018. È redattrice e tra i fondatori de La Macchina Sognante e direttrice di The Dreaming Machine. Potete trovare i suoi lavori in www.pinapiccolo’sblog /Il blog di Pina Piccolo.

 

UN CANTO DI GLIFOSATO

 

      a Silvino Talavera

 

Un ronzio metallico d’aereo

vola basso sui campi al tramonto

fino ad atterrare sul cuore,

questa notte non dormo

mi giro e mi rigiro,

senza sosta ormai.

 

Il vento agita le palme

e sospinge di qualche metro

una lattina sul cammino,

c’è anche uno zufolio sordo

che non so interpretare.

 

Il vento agita le palme

e porta un canto di glifosato

a depositarsi sul petto

a cancellarmi il respiro.

 

 

 QUATTROCENTO QUERCE

a un guardiano del bosco

Quattrocento querce mi corteggiano
in una danza di selva venti e liane
questa notte solo mancano ali di colibrì
per librarmi in cima agli alberi.

Quattrocento gli echi nel cuore
quattrocento o molti di più i morti
su questi monti dormono,
maturano lentamente

coperti da un sonno di abusi
accumulati in forma di foglie,
sono stati quattrocento i colpi
di machete fucile coltelli
quattromila o quattro milioni,
chi ha tenuto i conti?
E abbattevano giovani afflati
abbattevano la rugiada del mattino,
anche il verso dell’uccello alla luna
ancora ripete il grido di donne abortito.

Ma vent’anni fa hai lanciato semi,
hanno resistito a tutti gli assalti:
quattrocento querce mi corteggiano stanotte.

 

 

 

I BORDI DEL MONDO

 

Un picchio becca i bordi del mondo,

crollerà? Mi chiedi irrequieto.

Cancellati appena dalla nebbia

che contagia questo bosco,

ti rispondo sicura: Ma no!

 

All’interno echi:

crollerà? Crollerà?

Sembra tutto tranquillo nonostante

la recinzione dell’area riservata

alla caccia cominci qui

nonostante gli aerei volino bassi

fin dove tu ed io

ci siamo spinti alla ricerca

dell’albero che regge il cosmo

con l’intenzione di salire

fino alla costellazione di tuo padre.

 

Non crolla ancora,

il fruscio delle foglie secche

ci accompagna lungo il sentiero.

Guarda: dal fosso è spuntato un serpente!

E l’impeto di verdi e rossi

scoperchia l’otre del mondo,

da lì arrivano le anime addolorate

con le loro nenie sigillate da secoli

da lì arrivano a farla pagare cara.

 

Un picchio becca i bordi del mondo

e un suono di tamburo si versa.

Crolla tutto, corriamo.

Ma non lo dico, solo ti abbraccio.

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