di Sandro Moiso

Massimo Angelini (a cura di), Un’altra Italia. Regioni storiche e culturali, terre identitarie – piccole patrie, anzi… matrie, asterismi dialettologici a cura di Nicola Duberti, Pentàgora, maggio 2021, pp. 206 illustrate a colori, con carta pieghevole allegata, euro 15,00

Che lo Stato nazionale sia sostanzialmente un’invenzione sorta a cavallo tra XV e XVI secolo, indirizzata prima a confermare lo spazio amministrativo e di dominio territoriale di una monarchia e a definire uno spazio protetto destinato a rinvigorire le casse della medesima tramite l’imposizione di una tassazione regolarmente percepibile e, successivamente, a garantire alla borghesia mercantile prima ed industriale poi un’area di mercato privilegiata, sufficientemente vasta per assicurarne lo sviluppo e l’arricchimento della stessa classe, non vi è più alcun dubbio dal punto di vista storico.

Dal punto di vista politico e dell’immaginario, spesso coincidenti, invece lo Stato Nazionale sembra essere diventato una sorta di realtà astratta, sempiterna e indiscutibile, che il sempre risorgente nazionalismo, sia a destra che a sinistra, continua a sbandierare come fattore indiscutibile di unità di interessi, sicurezza, uguaglianza dei diritti e libertà collettiva e che sfocia quasi sempre in una sorta di religione laica e di fede fanatica di cui il recente sventolio trionfalistico di tricolori in occasione del campionato europeo di calcio ha costituito un’inequivocabile testimonianza.

Stato nazionale e patria, nazionalismo e patriottismo che coincidono nel pensiero comune, ma anche nelle riflessioni filosofiche e politiche ancora dominanti, nascondendo il fatto, ancora una volta certo dal punto di vista storico, che ogni stato nazionale in realtà è sorto dalla distruzione e sopraffazione di innumerevoli identità diverse, non solo di classe, ma culturali, religiose, linguistiche, produttive, economiche e di genere.

Partendo dall’ultimo punto e in attesa di recensire il testo di Michela Zucca recentemente riedito da Tabor1, occorre dire che proprio la formazione degli Stati moderni, con tutto il loro apparato repressivo, inquisitoriale, giuridico e cognitivo, contribuì a posare definitivamente una pietra tombale sull’autonomia delle donne e il loro importantissimo ruolo all’interno delle comunità locali, affermando così, una volta per tutte, un potere, una cultura e una mentalità di stampo patriarcale che contraddistinguono ancora la cultura cristiana e occidentale contemporanea.

Non a caso Massimo Angelini, autore del testo e “coltivatore”, come si definisce egli stesso, delle iniziative editoriali di Pentàgora oltre che studioso delle mentalità, del ruralismo e delle culture orali, parla provocatoriamente di “matrie” invece che di patrie per definire le più di 500 realtà geografiche e sociali illustrate nel testo.

C’è un’Italia che la geografia politica e amministrativa ignora, un’Italia di piccole patrie, anzi màtrie (come la lingua-madre e la terra-madre), sub-regioni, terre identitarie, bioregioni, case comuni, nicchie linguistiche, luoghi omogenei per ambiente o per storia o per cultura, talvolta grandi come piccole regioni, talvolta piccole come lo spazio che lo sguardo può abbracciare da un campanile; c’è un’Italia dove prossimità e vicinato forse vogliono dire qualcosa e il locale è un portato di cultura quando, però, non degrada nel localismo, in uno spazio meschino di paura e chiusura, in uno spazio di autocompiacimento attraverso la costruzione dell’altro, il foresto, l’estraneo, lo straniero; c’è un’Italia fatta di molte terre, più grandi dei singoli comuni meno dei territori amministrativi, multicolore come l’abito di Arlecchino dove, però, nessun rombo è uguale agli altri; un’Italia che tutti conoscono e forse per la prima volta qui viene rappresentata. Un’Italia composta di terre, di màtrie [ne sono state contate, descritte e cartografate 581] definite nel tempo per ragioni di omogeneità ambientale, per questioni di storia politica laica o ecclesiastica (le diocesi), intorno alla diffusione di una lingua locale o di una sua declinazione, separate da fiumi o dislivelli, o da coste e crinali o da altri confini meno visibili, meno reali, eppure veri per l’incidenza che hanno avuto nella vita delle persone e nella costruzione degli immaginari locali2.

E’ un’Italia che non compare sugli atlanti tradizionali e che la carta allegata al testo ci rivela in tutta la sua varietà e complessità linguistica, culturale e geografica. La scelta dell’autore è stata quella di chiamare regioni i territori che hanno una estensione superiore ai 1.000 kmq e terre quando sono di minor estensione, mentre in altri casi si parla di circondario, conurbazione o più genericamente di territorio. In ogni caso, poi, si usa sempre il termine dialetto per indicare le lingue locali. Tutte senza eccezione e senza svalutazione. Per ognuna di queste “matrie” vengono inoltre forniti il numero dei comuni che vi sono dislocati, il capoluogo (inteso come centro di maggior rilevanza amministrativa e/o culturale), l’origine della definizione del territorio e una lettura consigliata per comprendere meglio il tutto (in genere un romanzo).

Questa prima edizione è inevitabilmente incompleta e approssimativa, con numerose informazioni da rivedere, imprecisioni da correggere; ma è anche un’occasione per iniziare una riflessione su quei territori che in qualche misura definiscono un’appartenenza locale per ambiente, immaginario, lingua, abitazione, desiderio (jus cordis, questo è ciò che dovrebbe bastare per essere o diventare nativi di un luogo: né jus sanguinisjus soli, solo jus cordis3), e permettono ai membri di una collettività di dire ‘io vengo da…’, ‘io vivo in…’.
[… Ma] ha senso parlare di màtrie e terre identitarie nell’era declinata alla globalizzazione? C’è il rischio che il loro riconoscimento possa essere usato per ravvivare retoriche di nostalgia e rinforzare voglie di separazione o campanilismi da strapaese?
Sono domande che mi sono posto più volte durante l’intera ricerca: alla prima non so rispondere con certezza; quanto al rischio evocato nella seconda… sì, lo vedo.
Comunque, al di là dei rischi di fraintendimento, credo che ripensare le geometrie del creato e della cultura sulla base dei saperi condivisi, delle conoscenze comunitarie, dell’immaginario popolare – penso, per esempio, ai sistemi di soprannominazione personale e familiare vs l’anagrafe pubblica o alle tassonomie popolari vs quella linneiana o a tutto quanto lasci trasparire un recupero di dignità dello sguardo sul mondo prevalentemente innervato sull’oralità rispetto a quello su cui pesa il monopolio della scrittura – sia necessario per la crescita di una sensibilità profondamente democratica e altrettanto utile per mantenere aperto il respiro della poesia4.

L’elenco è lungo, ampio e dettagliato e anche se contiene, come afferma lo stesso autore, qualche imprecisione, ad esempio Oulx come luogo principale della Valsusa, che potrà essere corretto in futuro, certamente potrà essere di stimolo per vedere la geografia “politica” dell’Italia sotto un altro punto di vista. Soprattutto il testo può contribuire anche a rimettere in discussione quei confini “naturali” dati per scontati e che, soltanto per citare un esempio, nel caso delle valli occitane non sono altro che un escamotage ideologico-politico per separare popolazioni molto più vicine di quanto gli Stati vorrebbero ammettere (e permettere).

Un ottimo libro, infine, per programmare nel corso dell’estate un viaggio di esplorazione di un paese che, dopo aver consultato le sue pagine, non vi sembrerà più lo stesso e così scontato.


  1. Michela Zucca, Donne delinquenti. Storie di streghe, eretiche, ribelli, bandite, tarantolate, edizioni TABOR, Valle di Susa, maggio 2021  

  2. Massimo Angelini, Una prefazione necessaria in M. Angelini (a cura di), Un’altra Italia, Pentàgora 2021, pp. 9-10  

  3. cor, cordis: latino per animo, intelligenza, senno, cuore  

  4. M. Angelini, op.cit., pp. 10-16