Bassona Beach, la riviera tribale degli anni Ottanta, Clown Bianco, Ravenna 2021, pagg 104, € 15

(La Bassona è un tratto di riviera ravennate, compresa tra Lido di Dante e la foce del fiume Bevano. Per alcuni mesi all’anno è interdetta agli umani, in quanto zona protetta dove nidificano alcuni uccelli migratori. E’ forse l’ultimo territorio selvaggio della riviera adriatica del centro nord. Ma tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta è stata uno dei crocevia mondiali del turismo giovanile fricchettone, come Goa in India, Phuket in Tailandia, Ibiza, Amsterdam, Copenaghen. Per 4-5 mesi all’anno il litorale era occupato da un grande villaggio composto di tende e capanne costruite dai tronchi portati dalle alte maree. Una spiaggia libera, nudista, abitata dalle tribù dei nomadi metropolitani provenienti da vari paesi europei, punto di sosta per giovanissimi punk e new wave diretti alle discoteche-fuori-di-testa di Rimini e Riccione. Questa variegata, rumorosa comunità confinava con una villettopoli abusiva, abitata da ravennati “per bene”, che piantavano cartelli indicatori lungo il percorso per raggiungere “Zingaropoli” e “Merdonia”. Ma quando un “tarzan” o una ragazza in topless veniva per chiedere un pacco di pasta, “Quanti sorrisi da orecchio a orecchio ho visto”. Il libro in uscita è un reportage narrativo di Mauro Baldrati di quei luoghi e di quei personaggi, un racconto di storie e storiacce, un viaggio forse nostalgico, forse iperrealista, in un tempo perduto e probabilmente dimenticato. E’ corredato di testi e foto di Filippo e Paolo Scòzzari, Nevio Galeati, Piefrancesco Pacoda. Il libro sarà presentato martedì 27 luglio al parco della Montagnola di Bologna, spazio Frida nel parco, alle ore 19.30, e giovedì 29 alle ore 21 a Marina di Ravenna al bar Timone, via Molo Dalmazia 63. Di seguito pubblichiamo un estratto, un articolo di Paolo Scòzzari che fu pubblicato su Frigidaire nel 1981. MB)

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Chi riesce a sopravvivere al traffico bestiale che intasa il tratto di nazionale che da Ravenna porta a Rimini, saluta come una benedizione l’oasi senza macchine né camion costituita dalla via delle Sacche, una stradicciola ciottolosa e polverosissima che al 150° chilometro si diparte dalla statale Adriatica e si dirige verso il mare. Bisogna stare molto attenti, perché il cartello indicatore è praticamente invisibile; conviene invece cercare con gli occhi una frecciona gialla indicante Foce Bevano, il canalone che costeggia questa specie di tratturo che, prima di morire sulla spiaggia, s’inoltre per un sei-sette chilometri nella riarsissima campagna ravennate. Sul terrapieno dell’argine destro di tanto in tanto spuntano i capanni da pesca con le loro inutili reti a bilancia, tipici di questa parte della Romagna. Il sollievo è comunque breve, poiché prima o poi fatalmente s’arriva dietro a qualche altra auto e allora, invece di respirare la nafta dei camion che tutti contenti ci eravamo lasciati alle spalle, s’inizia a respirare la finissima polvere di questa pista da safari. Aver chiuso precipitosamente i finestrini non è servito, e in breve si comincia a pensare che se non si creperà dal caldo ci si spegnerà per silicosi.

La straduncola comincia a restringersi: a destra l’argine, a sinistra le prime macchine, sempre più fitte via via che ci si avvicina alla pineta e al mare.
Alé, conviene scendere adesso, più avanti ci sarà pure da litigare; alberi non ne esistono, perciò, qui o là, il sole farà comunque la nostra auto un forno crematorio.
Si marcia a piedi per un altro chilometro abbondante, e le carcasse tremolanti e imbiancate, abbandonate ora ai due lati del sentiero, fortificano l’impressione di partecipare alla ritirata di El-Alamein.
FE FO RA MO BO le targhe.

Finalmente ecco la pineta, polverosa, profumata, assordante di cicale grosse come passeri. E, sotto i pini, l’incredibile villaggio, la nostra vera meta: siamo qui per visitare l’orrore che, anno dopo anno, ha sfigurato le ultime propaggini meridionali della Pineta Garibaldi, che molto più a nord è già stata assassinata mummificata impietrita dalle raffinerie della Sarom Ravenna.

Siamo subito catturati dal clima surreale del posto: baracche dappertutto, ogni baracca il suo cortilino, fumi e profumi di salsicce, braciole, pesce fritto. Gli abitanti delle casupole, stravaccati in canottiera su sedie a sdraio e materassi, guardano con una punta di fastidio e rassegnazione la folla dei non residenti che molto dopo di loro ha scoperto e invaso quest’angolo di riviera. Più avanti, un’orrida costruzione, lo spaccio di alimentari e tabacchi. Non manca la “trattoria”, con la sua brava produzione di piadina; proprio prima della spiaggia un grande bar in muratura, nemmeno brutto dopo l’orgia di lamiera ondulata dietro di noi. Entriamo, e dopo aver bevuto e bevutissimo, ci facciamo raccontare dai ragazzi del locale la storia di questa bidonville abusiva.

Tutto è cominciato prima della guerra. Allora le prime baracche le avevano costruite in faccia al mare, fra la pineta e le dune che delimitano la spiaggia: poi la Capitaneria del porto di Ravenna intervenne, e fece sloggiare quei primi abusivi dal litorale. Le capanne vennero ricostruite più indietro, sotto i pini. In quegli anni, e anche dopo, in Italia si tirava la cinghia, e la sorveglianza dei terreni demaniali passava in second’ordine rispetto a ben altri problemi. Si tollerò quindi che qualche famigliola di povera gente si costruisse, usando materiali di tutti i generi, una specie di casetta in cui andare a passare il fine settimana. E così, creato il precedente, a poco a poco ne vennero su a decine. I “ricchi” poterono farsele in muratura, e gli altri, specialmente quelli arrivati alla fine degli anni ’60, investirono in orrendi prefabbricati pretenziosi. Chi aveva la baracca in legno spese qualcosa in reti metalliche, per recintare un altro po’ di spazio attorno alla propria pace. Si scavarono pozzi artesiani. Nel delirio di imitazione di ciò che commette la borghesia in vacanza, si giunse a dare il nome alla propria bicocca: “Villa delle rose”, “Villino Deborah”, “Villa Gianni”, e ad affiggere dappertutto cartelli, tanto arroganti quanto arbitrari, intimanti “divieto di sosta”, “parcheggio proibito”, “passo carraio”.

La spiaggia, la Bassona Beach propriamente detta, ha pure lei una storia, molto più recente, che ci viene raccontata volentieri.

Proprio perché pareva che a nessuno importasse di quello che avveniva qui, questo lungo tratto di litorale selvatico iniziò verso il ’77 ad essere il punto di riferimento estivo per coloro che durante quel magico inverno avevano incendiato le città dell’Emilia. I due, che allora gestivano il bar sulla spiaggia e che poi, fatti un po’ di soldi, se ne andarono in Messico, alzarono la bandiera anarchica, e nelle città esaurite dal casino cominciò a circolare la voce che era stata scovata una spiaggia dove si poteva fare quello che si voleva. Iniziò così la tranquilla convivenza tra i mangiatori di salsicce della pineta e i nudisti pelosi e un po’ sconvolti della spiaggia. Le due tribù erano in un certo senso accomunate dal fatto di essere entrambe in qualche maniera fuorilegge: due tipi diversi di trasgressione s’incontravano in quell’unico luogo di villeggiatura.

Oggi, in questo inizio d’estate, il posto è frequentato da migliaia di persone. Sono arrivati i venditori di collanine e orecchini, di chilum e stoffe indiane. C’è chi vende bibite sulla spiaggia. Molti sono i tatuati. Abbiamo visto anche gay felici, e padri di famiglia sotto le tende, perplessi. Al bar, nella folla ancora pallida spiccano eleganti somali ed eritrei, attentissimi nell’evitarsi a vicenda: l’Ogaden “scotta” più del sole.

Una lunga serie di coincidenze ha fatto sì che la fauna giovanile metropolitana, a noi tutti così cara, trasferisse di pacca su questa spiaggia i ricordi e i comportamenti di tutti i viaggi in Oriente di questi ultimi quindici anni. Le baracche tra i pini non ricordano forse le casette portoghesi affondate nella giungla a Goa? E il bar sulla spiaggia (dove, se si sventola una copia di Frigidaire, si ha diritto a sconti su bibite e spaghetti) non ricorda forse uno dei molti chai shop in cui, al tramonto, ci si ingorilliva a colpi di chilum gridando Bom Shankar? E le ragazze sempre nude? E gli Arancioni? E la assoluta mancanza di poliziotti?

Dal momento che quest’angolo di riviera è praticamente ignorato dalle autorità, e almeno fino ad oggi anche dalla speculazione edilizia, ci si aspetterebbe che il tutto, spiaggia dune e pineta, fosse invaso da rifiuti e merda. E invece no. L’autentico affetto che la fauna, stanziale e di passo, nutre per questi luoghi, ha fatto sì che nascesse un comitato di difesa dell’ambiente. In giro non si vede una bottiglia, una lattina, una cartaccia; bacchetti, rovi, alberi morti e zanzare serali d’una ferocia amazzonica, questo sì, ma epatiti e dermatiti fungine sono accidenti sconosciuti.

L’unico momento in cui le autorità intervengono è quando, di notte, chi si è accampato sulla spiaggia accende dei “Fuochi”: se sono troppo vicini alla pineta arriva la Forestale e li fa spegnere. Il comportamento è encomiabile, anche se questo sfoggio di zelo ha vagamente odore di presa per il culo: ogni fine settimana, attorno a ciascuno dei manieri di questa favela romagnola sotto i pini spuntano come funghi decine di fornellini Primus e fornelloni a bombola, tutti così pratici e così pericolosi.

Lo zelo ecologico della Forestale, anche se ampiamente in ritardo, non è per questo meno ferreo, e ce ne accorgiamo. Una fila di pali in cemento, intervallati da una trentina di metri, delimita la spiaggia, proprietà del comune di Ravenna, dalle dune che vanno a perdersi nella pineta, questa e quelle di proprietà del demanio. Niente filo spinato, né reti, né altro: solo pali. Chi viene beccato a parcheggiare la propria tenda anche solo a cavalcioni della linea ideale che passa per ‘sti pali, è invitato a smontare tutto e a trasferirsi in territorio comunale, cioè mezzo metro più avanti. E’ appunto di un episodio del genere che siamo vittime; la guardia, un tracagnotto laringectomizzato, è apparso all’improvviso dalle dune erbose, aiutato nella sua invisibilità dall’uniforme verde e dalla bassa statura, e forte del binocolone che gli penzola sul ventre e della scritta “Servizio Forestale” attorno al braccio, con rutti e sibili ci ordina di alzare i tacchi. Cerchiamo di fotografarlo, ma come vede la nostra Contax s’infuria e si dilegua. E’ peraltro la stessa reazione che hanno avuto tutte le ragazze che abbiamo avvicinato “per servizio”. Ci chiediamo qual è il nesso, ma fa caldo ed è inutile indagare sui misteri di Bassona Beach.

Il centro mondano e sociale della spiaggia è comunque il bar: zeppo a qualsiasi ora, sotto la sua vasta veranda spesso vengono organizzate feste serali molto, molto allegre, con musica e bevande e tutto. Come incontriamo i vecchi amici bolognesi, subito grandi risate e grandi proposte a Frigidaire di sponsorizzare e bagordi notturni, che purtroppo siamo costretti a declinare: quando questi saranno qui a divertirsi, noi saremo a Roma a litigare col grafico per non farci massacrare il pezzo.

Si mormora che sia già pronto il progetto di un camping, e che, per regolarizzare i peones delle baracche multicolori, stia per partire la costruzione di bungalow in serie, in cui gli irregolari, sborsando qualche milione, dovranno trasferirsi. Tutto così rientrerà nella norma: via il villaggio abusivo col fascino dell’assurdo, basta con la spiaggia Troppo Libera, via gli strani e i nudisti. Bassona Beach potrà prendere il suo posto a fianco delle altre schifose spiagge-pollaio della riviera adriatica.

L’unica labile possibilità che questo non avvenga è legata alle sorti politiche di chi, come qualcuno all’interno dell’ARCI di Ravenna, che è poi il vero prooprietario del bar, pensa che comunque sia conveniente avere in zona un ghetto in cui si rinchiudano volontariamente i tanti sgradevoli personaggi di cui l’Italia continua, nonostante tutto, a pullulare.