di Walter Catalano

Un piccolo miracolo dell’animazione e della fantascienza è stato da poco compiuto su Netflix.

Le premesse risalgono ad un vecchio classico del 1981, diretto da Gerard Potterton e prodotto dall’Ivan Reitman di Ghostbusters: il film d’animazione a episodi Heavy Metal, ispirato ai comics fantascientifici della versione americana della rivista francese Metal Hurlant. Il lungometraggio, fortunatissimo e scandito da una delle, all’epoca, più elettrizzanti soundtrack possibili in tema – spaziante dai Devo ai Blue Öyster Cult, dai Cheap Trick, ai Black Sabbath, ai Grand Funk Railroad – ebbe, mai dimenticato quasi due decenni dopo, un meno riuscito e meno fortunato seguito, Heavy Metal 2000 – almeno la colonna sonora restava notevole comprendendo Voivod, Pantera, Bauhaus e affini – che però aveva offuscato l’immagine ancora vivida del predecessore, lasciando un po’ d’amaro in bocca  ai fan e molta voglia di un remake degno.

L’idea solleticava da anni la fertile mente di David Fincher, regista di video di gruppi appropriati come Aerosmith e Nine Inch Nails, passato poi al cinema con il terzo episodio della saga di Alien e il fortunato noir Seven, consacrato nel 1999 da Fight Club, adattamento dell’omonimo romanzo di Chuck Palahniuk, e confermato autore interessante soprattutto da film personali e provocatori come Zodiac (2007), ispirato alla vera storia del Killer dello Zodiaco, e  L’amore bugiardo – Gone Girl (2014), dal best-seller di Gillian Flynn. A lui si era poi affiancato Tim Miller, regista e sceneggiatore proveniente da un cinema più leggero e disimpegnato come quello dei Marvel Comics con Deadpool (2016) o della saga di Terminator, con l’ultimo episodio Dark Fate (2019). Il progetto, supervisionato da un’esperta di animazione, la Jennifer Yuh Nelson di Kung Fu Panda 2 e 3, e prodotto e distribuito da Netflix, si è trasformato nel 2019 nell’ottima serie, già giunta al momento attuale alla seconda stagione, che prende il titolo di Love, Death & Robots.

Il piccolo miracolo di cui si diceva all’inizio consiste nell’aver saputo – come già fu per l’illustre antecedente – coniugare perizia tecnica, innovazione visuale e consistenza tematica in un percorso grafico attraverso numerosi classici della short-story fantascientifica, spazianti dall’avventuroso-action al riflessivo-sociologico, dallo splatter all’erotico. La serie sa cogliere perfettamente quella dimensione del testo breve e brevissimo che è una piacevole consuetudine della migliore tradizione fantastica, in cui il racconto – esauribile in una singola seduta di lettura – emerge, da Poe in poi, assai maggiormente del romanzo, come espressione più tipica e meglio realizzata del weird&eerie, del sense of wonder, della sospensione dell’incredulità necessaria perché il meccanismo fantastico e speculativo funzioni davvero. L’efficacia di questa formula è confermata da altre recenti e riuscitissime serie antologiche di film a episodi tenute insieme da una coerenza di carattere tematico, come Black Mirror, letterario come Philip K. Dick’s Electric Dreams, o atmosferico-scenografico come Tales from the Loop.

Gli episodi di Love, Death & Robots, dalla durata variabile compresa fra un minimo di sei minuti e un massimo di una ventina, spaziano oltre che attraverso le diverse declinazioni tematiche della fantascienza, anche attraverso tutte le possibilità dell’immaginario visuale dei comics e dei cartoni animati. Dal disegno caricaturale e umoristico, a quello astratto e stilizzato, fino al realistico e all’iperrealistico del live-action, derivato dal full motion video tipico di molti videogiochi, che utilizza foto di attori reali per trasformarle in disegni in movimento. I risultati sono piacevolmente variegati ed efficaci.

I diciotto cortometraggi della prima stagione più gli altri otto della seconda attingono ai testi dei più significativi autori, classici e recenti, della fantascienza angloamericana. Fanno decisamente la parte del leone con numerose short-stories i più prolifici e famosi John Scalzi e Joe R. Lansdale, ma si piazzano bene anche i britannici Alastair Reynolds, autore di Hard SF e di Space opera, e il sodale, anche lui britannico e space operistico, Peter F. Hamilton, il sino-americano Ken Liu, l’ex cyberpunk statunitense Michael Swanwick, l’italo-americano premio Locus e Nebula Paolo Bacigalupi. Si segnalano storie che spaziano dall’umoristico-elegiaco (Three Robots), al surreal-demenziale (When the Yogurt Took Over), al cyberpunk (The Witness), alla parabola femminista più o meno scontata (Sonnie’s Edge o Good Hunting), all’ucronia (Alternate Histories o The Secret War), all’horror erotico (Beyond the Aquila Rift), al dark-fairy-tale natalizio (All Through the House), al SF noir in stile Blade Runner (Pop Squad).

Fra i classici non si staglia particolarmente Harlan Ellison con Life Hutch, racconto del 1956 – come spesso Ellison, piuttosto sadico e iperviolento – su un prevedibile malfunzionamento robotico all’interno di una cabina di salvataggio che crea grossi problemi ad un naufrago aereospaziale su un pianeta alieno. Il problema più che nella storia in sé sta nella realizzazione grafica piuttosto piatta e priva di suspense del regista Alex Beaty. Un vero capolavoro invece l’altro classico, The Drowned Giant, l’episodio in assoluto migliore della serie, diretto dallo stesso Tim Miller e tratto da un assiomatico racconto di uno dei più grandi autori postmoderni che abbiano onorato la fantascienza: James G. Ballard, scrittore spesso, ma non in questo caso, ampiamente sacrificato o edulcorato nella larga maggioranza delle trasposizioni cinematografiche dalle sue opere. Pare che Miller abbia perseguitato praticamente per anni le figlie di Ballard riuscendo finalmente ad ottenere da loro l’autorizzazione all’adattamento del famoso racconto: non se ne saranno certo pentite.

A differenza dei lungometraggi tratti dai suoi principali romanzi, nessuno dei quali rigorosamente fedele allo spirito ballardiano – vuoi il troppo patinato Crash di David Cronenberg (1996), vuoi l’irresoluto High Rise, La rivolta di Ben Wheatley (2015), vuoi il caotico The Atrocity Exhibition di Jonathan Weiss (2000), vuoi, anche al di fuori della fantascienza, il caramellato L’impero del sole (Empire of the sun) di Steven Spielberg (1987) – la trasposizione animata del racconto breve scritto nel 1964 cattura senza infingimenti l’immaginario drastico del Bardo di Shepperton e lo riporta correttamente alle sue radici simboliste e surrealiste con un gusto figurativo, un ritmo letargico e un’atmosfera rarefatta davvero rari.

Tim Miller ha già confermato l’avvio di una terza stagione che vedrà anche il ritorno del trio di simpatici robot apparsi al debutto della serie (Three Robots: l’eredità di Robbie de Il pianeta proibito o della coppia R2-D2 e C3PO dello Star Wars originale sembra infinita…) e che, riprendendo la struttura molto più coesa della seconda stagione rispetto alla prima, sarà ancora composta da otto puntate. Su questo punto la critica non è concorde: chi sostiene che la prima stagione era più innovativa e varia per stile e argomenti e considera la seconda un passo indietro verso un maggiore conformismo visivo e tematico, chi al contrario la accusa di dispersività e di eccessiva disparità fra episodi efficaci e mediocri e preferisce la seconda stagione più sintetica, organica e compatta. In realtà, considerando lo show nel suo complesso, si può affermare con obbiettività che il livello medio di entrambe le stagioni è, come si è già detto, più che soddisfacente e la risonanza acquisita da Love, Death & Robots, con tanto di logo stilizzato divenuto iconico tra i fan, sembrerebbe suffragarlo..

L’unico appunto possibile, almeno rispetto alla gloriosa tradizione da cui la serie deriva, riguarda la colonna sonora che tradisce quasi totalmente quell’Heavy Metal da cui avrebbe dovuto originarsi, attestandosi invece su una neutralità estremamente spuria ed eterogenea (country-blues, elettronica, disco, perfino l’immancabile Walkiria di Wagner, lo Star Spangled Banner e la Kalinka del Coro dell’Armata Rossa): un soundtrack di puro commento intradiegetico quindi, o al massimo di sottofondo atmosferico privo di particolari connotazioni. Questo si che è davvero un passo indietro, almeno per chi, come me, appartiene alla vecchia generazione, assuefatta ad associare l’overdrive delle chitarre distorte con quello dei motori delle astronavi…