di Paolo Lago

Cristò, La carne, postfazione di P. Zardi, Neo Edizioni, Castel di Sangro (AQ), 2020, pp. 163, € 14,00.

Recentemente è uscita, presso Neo, una nuova edizione del romanzo breve La carne di Cristò, edito per la prima volta nel 2015 da Intermezzi Editore. Lo scrittore, la cui ultima prova narrativa è La meravigliosa lampada di Paolo Lunare, un delicato racconto dai tratti fantastici e soprannaturali, ne La carne affresca una società del futuro che ha introiettato l’abulia e la spersonalizzazione dei rapporti umani. L’io narrante ha ottant’anni e, in una società dove si può vivere molto più a lungo di oggi, probabilmente ha ancora un discreto numero di anni davanti a sé. Intorno a lui si muovono svariati personaggi, dal medico Tancredi e sua moglie Lucia fino a Giulio e la sua compagna Monica, che gli fa da badante. In questa società, come se niente fosse, in mezzo agli esseri umani, si muovono gli “zombi”.

“La figura dello zombie” – come ha osservato Gioacchino Toni – “ha assunto una posizione di rilievo nell’immaginario collettivo contemporaneo grazie alle sue indubbie capacità di metamorfosi che le hanno consentito di mettere in scena le ansie, le paure e le speranze del momento”1. Si tratta perciò di una figura che può rappresentare metaforicamente diversi risvolti della contemporaneità: ad esempio, la spersonalizzazione operata sugli individui dalla società dei consumi, connotata da una ipertrofica fruizione dei media di massa; la pratica disumanizzante del lavoro; la rappresentazione dei migranti, da parte di quegli stessi media, che attraversano le frontiere e che naufragano su fragili barconi, raffigurati spesso come una massa indistinta dalle connotazioni meccaniche e disumane. Nel mondo abulico del futuro affrescato da Cristò, gli “zombi” sono delle figure che quasi rappresentano, in un rispecchiamento metaforico, tutti gli altri esseri umani: “Nel mondo com’era quando avevo otto anni, a mezzanotte le strade erano piene di gente. Soprattutto ragazzi, soprattutto d’estate. Adesso, invece, è come se scattasse un coprifuoco volontario. Non che gli zombi siano pericolosi. Non hanno mai attaccato uno di noi, né un animale vivo. Probabilmente lo farebbero, ma immagino che manchi loro l’istinto della caccia”. Gli “zombi”, perciò, probabilmente altro non rappresentano che tutti gli esseri umani assuefatti a una nuova esistenza dai tratti abulici e spersonalizzanti, all’interno di una società in cui la rappresentazione dello spettacolo delle merci assume caratteri quasi ‘pornografici’ (l’io narrante passa infatti gran parte del suo tempo in un cinema porno), mentre il cadavere dell’amato gatto di famiglia viene rinchiuso da Tancredi in una scatola delle scarpe “Stellarossa Converse”, e con questo nome viene chiamato lo stesso corpicino senza vita dell’animale domestico.

Una siffatta società suona purtroppo attuale in epoca Covid e sembrerebbe quasi che il romanzo fosse stato scritto in tempi recenti, con riferimenti diretti al coprifuoco e al virus-zombie distruttore di vite ma anche di coscienze, divenuto un fenomeno mediatico diffusore di angoscia, paura e assuefazione alle più disumane restrizioni. Nella società descritta da Cristò si scatena anche una caccia al nemico, al diverso per eccellenza, lo stesso “zombi”. Diversi gruppi di persone si organizzano in ‘ronde’ e fanno a gara nell’uccidere quanti più “zombi” possibile. Entrare nelle ‘ronde’ esige un comportamento particolare: bisogna colpire, uccidere o “segnalare” i mostri, anche a costo di incappare in qualche vecchio amico ormai trasformatosi in “zombi” e, una volta entrati, non se ne può più uscire, come spiega Giulio al protagonista: “Le prime volte che vai puoi anche solo guardare per abituarti. Ma poi, quando hai cominciato non puoi fermarti. Se ne vedi uno lo devi colpire o segnalare. Basta farlo una volta, poi diventa naturale. Se è uno che conoscevi, un tuo parente, un tuo amico, non puoi impedire che gli altri lo mettano fuori uso. Non puoi fermarli o sei fuori”. La caccia al ‘diverso’, identificato come un pericoloso nemico, rispecchia dinamiche assai presenti nella società contemporanea. La ricerca del “capro espiatorio”, un soggetto debole e connotato da diversità sul quale riversare i mali e le afflizioni della società è un meccanismo antropologico arcaico che connota diversi gruppi sociali antichi. Lo “zombi”, perciò, oltre che rappresentare un essere umano completamente assuefatto alla disumanizzazione operata da una società consumista e spettacolare, può riflettere anche un vero e proprio soggetto debole, identificabile ora con gli immigrati, gli stranieri, gli omosessuali e via di seguito. La dinamica della ricerca del “capro espiatorio” possiede anche risvolti sadici, come afferma Giuseppe, un personaggio che fa parte delle ronde anti-“zombi”: “«Lo so cosa pensi» dice Giuseppe. Non aspetta che io risponda. «Che siamo dei sadici». Non rispondo. «Molti di loro lo sono» continua. «Hanno trovato un gioco divertente. Senza rischi. Possono massacrare degli esseri viventi senza ucciderli. Possono sfogare le loro frustrazioni»”. Quasi come degli uomini-macchina, degli uomini oggetti (come gli schiavi delle società antiche), gli “zombi” possono perciò essere uccisi senza rimorsi, senza sentirsi in colpa, solo per sfogare i propri istinti sadici, risvolti inquietanti di una società completamente abulica e spersonalizzata. Non persone, ‘paria’ della società, gli “zombi” vengono lasciati per terra massacrati e agonizzanti: “La nottata procede in maniera piuttosto monotona. Ho messo diciassette x sul block notes. Ho fatto un cerchio attorno a quelli che ho visto per terra fuori uso. Sono sette. Il secondo, il terzo, il quinto, il settimo, l’undicesimo, il tredicesimo e l’ultimo. Lo spettacolo non è raccapricciante come mi aspettavo. Non reagiscono. Rimangono immobili mentre vengono massacrati con le spranghe. I loro occhi non sono espressivi. Subiscono come manichini. Li lasciamo sulla strada e andiamo via senza fretta”.

Questa società disumanizzata trova il suo esatto opposto nel “mondo quando avevo otto anni”, una frase che il protagonista ripete spesso per confrontare la disumanizzazione che avvolge il suo mondo con l’umanità che, invece, esisteva ancora nella sua infanzia. Nell’universo distopico in cui si trova a vivere, “non esiste più domenica, non esiste più né il primo né il pomeriggio. Non esistono tutti, non esiste il mare. Esiste solo la fame. Esiste solo la carne”. Gli “zombi” sono affamati di carne e possono contagiare gli esseri umani in qualsiasi momento, provocando in essi una fame altrettanto violenta. La “fame” e la “carne” che dominano questa società del futuro probabilmente sono una metafora non solo dei desideri più o meno inconsci dei consumatori in epoca capitalistica (gli zombie che assaltano il centro commerciale in Zombie di Romero ne sono l’immagine più diretta) ma anche dei vari discorsi ‘dominanti’ che ogni momento ci vengono inculcati dal potere e dai suoi dichiarati servitori, i media. Discorsi e narrazioni dominanti vengono continuamente diffusi dal potere per mezzo dei media, per controllare le coscienze degli individui e introiettare in essi desideri, paure e angosce perché se ne stiano sottomessi ai più svariati diktat del Capitale.

Su tutto, perciò, si distende una vera e propria perdita di personalità e di identità: e ciò accade al protagonista nei momenti finali della narrazione in cui un vortice di sensazioni si succede in modo ipertrofico:

“Mi ammalerò. Mangerò carne di zombi. Mi metteranno fuori uso. Finirò nel fosso. Sarò una cosa nuova. Sarò parte del tutto. Sarò colui e coloro, la consapevole imperfetta perfezione, il simbolo simbolico, l’uno e il molteplice, il fratello del mio figlio unico, l’infinito corridoio degli specchi contrapposti, sarò il tempo tralfamadoriano, la sfera di Flatlandia, la leggendaria verità dei fatti, l’eccezione costante, l’indimostrabile dimostrazione di indimostrabilità, sarò l’allucinazione allucinata, il Simurgh, la mano che disegna se stessa, il segno di uguaglianza tra x e y, sarò x, sarò y, sarò z, la risposta del comico Pagliacci, l’unico barbiere del villaggio, sarò il tesseratto, l’insieme degli insiemi, la collezione delle collezioni, la biblioteca di tutti i libri possibili, il moto perpetuo.
Oppure sarò semplicemente morto. Che, in fondo, è la stessa cosa”.

L’ipertrofia asindetica delle immagini e delle sensazioni, delle possibili infinite metamorfosi si spegne in una immagine di morte che – come nel cortometraggio di Pasolini, La terra vista dalla Luna, la cui morale suona “essere vivi o essere morti è la stessa cosa” – corrisponde con una infinità di vite parallele, di vite metamorfiche, forse a rappresentare l’estrema via di fuga da un mondo devastato dall’imperante zombificazione. Una via di fuga che, probabilmente, permette di vedere uno spiraglio di libertà, grazie a innumerevoli forme in divenire e non controllabili, nel mondo zombificato e spersonalizzato che, fuor di metafora, continua ad avvolgerci anche dopo aver terminato la lettura di questo piccolo gioiello narrativo di Cristò.


  1. G. Toni, Zombie (e) immaginari, in L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini, G. Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, prefazione di V. Evangelisti, Mimesis, Milano-Udine, 2018, p. 101 

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