Jessy Simonini, Campi di battaglia, (Prefazione di Pina Piccolo, Postfazione di Maria Luisa Vezzali), Ed. Sensibili alle Foglie, 2021, pp. 112, € 13,00

di Federico Picerni

«Vogliamo una poesia che sia viva e forte»: così leggiamo nella prosa poetica che apre e dichiara gli scopi di Campi di battaglia, raccolta di poesie a firma di Jessy Simonini (classe 1994), fresca di stampa per Edizioni Sensibili alle foglie. Una raccolta ricca e densa, ma al tempo stesso nitida e puntuale, «viva e forte», appunto; una ricchezza data in primo luogo dalla caratteristica forse più evidente e interessante della letteratura politica – soprattutto – contemporanea, cioè il continuo confondersi fra intimo e sociale, fra individuo e collettività, sullo sfondo di una realtà materiale che fornisce a sua volta l’oggetto della critica poetica e la materia prima che la rende possibile. Un contraddizione, forse, ma la dialettica ci insegna che è nelle contraddizioni che gorgoglia la vita.

I campi di battaglia in cui si aggirano questi versi sono dunque quelli della lotta politica (e non politicante, cui ci ha abituati il disgustoso spettacolo di istituzioni ormai putrefatte). Esattamente come l’intimo si mischia al sociale, la storia si mescola al presente. Lo sguardo poetico è al tempo stesso spettatore e partecipe, critico e freddo, oscillando fra questi estremi anche all’interno dei singoli componimenti. La poesia, non diversamente dai rivoluzionari che «disdegnano di nascondere le proprie opinioni» in conclusione del Manifesto di Marx ed Engels, non fa mistero di voler elaborare «nuovi e lucidi versi di guerra» contro la pacificazione di classe – e già questo, a parere mio, basta a invogliarci alla lettura. È quindi una poesia nitida e partigiana, tanto contro le piaggerie sull’arte disimpegnata, quanto in alternativa a un tipo di poesia (pseudo)politica, in arrivo da oltreoceano, cooptata dal potere in affanno e mercificata (Simonini stesso ne ha scritto e perciò rimando al suo articolo). Nella raccolta si susseguono i riferimenti a capitoli tragici della storia del movimento operaio e non solo – Portella, Fonderie Riunite, il 2 agosto 1980 – e citazioni di Lenin, Rossanda, canti rivoluzionari e delle mondine, scritte sui muri, in una specie di mosaico intertestuale che rompe i confini del testo poetico e lo aggancia alla realtà esterna. «Oggi la loro trasparenza ci può accecare», leggiamo in un verso che vale tanto per questi avvenimenti, quanto per la poesia che li (ri)narra.

Dal punto di vista formale, la nitidezza nulla toglie alla liricità, alla costruzione attenta, alla metafora e alla sperimentazione stilistica. È tutt’altro che esteticamente sciatta una poesia che decide di basarsi non sulla nebulosità o sulla distanza rispetto a chi legge, ma piuttosto sulla sua partecipazione consapevole e attiva. Può una simile poesia essere altro che «parole strappate», come scrive Simonini? Questa espressione, a mio avviso molto efficace, mi ha anche fatto venire in mente i versi di un poeta operaio cinese, Zeng Jiqiang, il quale scrive: «questa poesia / voglio scuoiarla tutta / e tenere solo le ossa». Versi potentissimi, che già da soli dimostrano come «scuoiare» la poesia non significhi disfarsi del suo valore artistico, ma semmai riorientarlo, ponendosi il problema di come la poesia possa schierarsi nei suoi campi di battaglia.

La raccolta è divisa in tre sezioni. La prima, «Il catalogo della Gioia Tauro», avvia il collocamento spaziale e sociale della poesia – e ancora una volta, spazi e condizioni sociali si sovrappongono. L’accezione della parola campi comincia a confondersi, passando dai «campi di battaglia» ai campi (agricoli o astratti) del lavoro sfruttato e della lotta, come Rosarno, Palmi e appunto Gioia Tauro, sino ai campi della Bassa Padana, dove si snodano anche le storie personali e famigliari. In questo senso, una chiave di lettura che mi sembra utile e valida – fra le altre – per leggere la raccolta consiste, come già accennato, nel continuo confondersi di personale e collettivo, «io» e «noi», storia individuale e «altrui dolore» (nelle parole della prefazione di Pina Piccolo).

Cifra che diventa ancora più esplicita nella seconda sezione, «Albumi di famiglia» (sì, albumi con la i); sezione meno immediata, dove la mimesi più marcata cede il passo alla memoria e all’intimità, ma dagli oggetti domestici, dai racconti e dai corpi dei membri della famiglia segnati dal lavoro trasuda continuamente la storia – la storia proletaria, fatta di «nomi piccoli sottratti alla litania / della storia ufficiale». Non senza introspezione, la quotidianità rompe gli argini dell’intimità per riversarsi – o farsi inondare – dal suo sfondo storico; le due dimensioni si fondono e confondono, come nei piccoli gesti e attenzioni dedicati a una figura dove si sovrappongono i profili di un’anziana nonna e un’anziana Rossanda. Emergono così le lotte, passioni, speranze, delusioni di chi «non studia la lotta di classe / la mette in atto la descrive», fra scontro sociale e le battaglie quotidiane del lavoro nei campi. È la realtà delle genti popolari umili e combattive, oggi svilite come «la classe operaia che vota Lega» da una sinistra che brancola senza bussola. «Albumi di famiglia» è anche la sezione in cui si respira più aria pasoliniana, ma anche dove si aggira, soprattutto nella fredda crudità dei corpi, lo spirito di Nella Nobili, straordinaria poetessa operaia e queer troppo spesso dimenticata.

Infine, l’ultima sezione, «Campi e campetti», introdotta non a caso da una bellissima ode a Mario Mieli, esplicita lo stacco generazionale. All’oppressione di classe se ne aggiungono altre, prima di tutto quella eteropatriarcale, «un altro campo di battaglia, altro schieramento», dove è necessario rompere anche altri ranghi, «conformi / alla morale e alle leggi di natura». E, accanto a questo, la gentrificazione, la sicurizzazione delle città, l’ondata repressiva felicemente bipartisan contro i poveri in espansione.

Quella di Campi di battaglia è insomma una poetica di contrattacco, in questo senso pienamente inserita nel suo tempo, espressione lirica della lotta sociale che ribolle e, sempre più incontenibile, non cessa di esplodere. Un contrattacco non solo al presente, ma anche al passato. Ciò significa non solo mantenere vivo il ricordo delle storie dimenticate, rompendo l’oblio di classe, ma anche sovvertire tutta la narrazione dominante dell’Italia repubblicana, uscire dai limiti asfissianti della «storia condivisa» e dell’interclassismo: «Non voglio manomettere la casa dei morti / solo capovolgere la lezione stabilita dai vivi».

Per concludere, una poesia militante esige domande militanti. Se vogliamo sfuggire al semplice fascino per la «storia dei vinti» e alla famigerata «malinconia di sinistra», di cui possiamo fare decisamente a meno oggi, tanti e tanto urgenti sarebbero i compiti posti dalla crisi totale del capitalismo, gli album(i) di famiglia andrebbero sfogliati con senso molto critico. C’è da capire in che modo il mezzo secolo trascorso dai fatti degli anni Settanta fornisca nuovi elementi utili a fare un bilancio delle lotte e dei metodi di allora, senza accontentarsi di una semplice «pacificazione storica» fra le correnti della sinistra rivoluzionaria del tempo.

Il secondo punto riguarda il ruolo della poesia politica di lotta oggi. È vero che «per adesso l’unico potere che ci deve interessare / è solamente quello di deturpare»? O vi sono ulteriori possibilità inespresse o ancora in erba? Come può aiutarci a fronteggiare i mostri dell’interregno (fra il vecchio che muore e il nuovo che non può ancora nascere), per usare un’espressione gramsciana di Pina Piccolo? E come conquistare una visibilità adeguata in tempi di scarsissima attenzione per la poesia? Tutte domande a cui potranno rispondere solo il futuro – e le/i poeti. Di certo, la capacità di tenere aperto uno spazio di riflessione critica e prospettive politicamente e artisticamente alternative è preziosa, non scontata. La poesia di Simonini ci ricorda che «è proprio la collera / il solo sentimento da salvare». Serve più poesia politica!

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