di Armando Lancellotti

Come più volte si è scritto su “Carmilla” [1] [2] [3], il mito del “bravo italiano”, ossia quell’autorappresentazione nazionale, assolutoria e rassicurante, che vuole che l’italiano – per natura, indole e cultura – non sia capace di atti efferati, di crimini crudeli e che pertanto, anche in tempo di guerra, si dimostri mite, bonario, umano e quasi sempre ben disposto anche nei confronti del nemico, è uno stereotipo paradigmatico così profondamente radicato nella coscienza collettiva italiana che, al presentarsi di ogni occasione favorevole, ricompare per manifestarsi in tutte le sue molteplici declinazioni possibili, con l’automatismo infallibile di una sorta di coazione a ripetere. Un’autorappresentazione falsa ed ideologica che dal dopoguerra è andata progressivamente consolidandosi, per divenire infine contenuto e forma essenziali dell’immagine che il popolo italiano tende a proporre di se stesso.

Numerose e complesse sono le dinamiche storico-politiche che hanno plasmato la leggenda degli “italiani brava gente”, così come gli interessi divergenti di forze politiche, parti della società e soggetti internazionali molo diversi, ma alla fine convergenti nella creazione di un mito che, dopo il 1945, rispondeva alle esigenze di molti: i reduci del fascismo da poco crollato, i due principali e contrapposti partiti della nuova Italia repubblicana e democratica (DC e Pci), gli Alleati angloamericani. Senza scendere nel dettaglio, in questa sede basterà ricordare quanto perniciosi siano stati gli effetti della ipostatizzazione ideologica di questo distorto mito collettivo: esso infatti ha determinato la sostanziale rimozione delle pagine peggiori della storia del fascismo italiano e delle sue tante guerre e ha trasformato un passato storico, che è ancora “prossimo” – non è, infatti, trascorso ancora un secolo dagli anni in cui, per esempio, camice nere, soldati e civili italiani si macchiavano di crimini brutali in Africa – in un “trapassato remoto” fondamentalmente ignorato o comunque avvertito come così lontano da non intrattenere più alcun legame col presente.

La ricerca storiografica, già da molto tempo e negli ultimi trent’anni almeno con un continuo crescendo quantitativo e qualitativo di studi e progetti, ha prodotto una conoscenza storica ormai molto approfondita di fenomeni quali l’antisemitismo italiano, il razzismo coloniale, i crimini di guerra compiuti sui diversi fronti, i campi di concentramento fascisti, ma questa davvero considerevole mole di ricerche effettuate, di pagine e di volumi scritti e stampati sembra non essere in grado di scalfire la forza di resistenza del mito del “bravo italiano”. La polemica consumatasi a metà giugno sulla carta stampata italiana, a seguito dell’imbrattamento a Milano della statua di Indro Montanelli e della richiesta della sua rimozione, sulla scia di analoghi fatti accaduti in molte città e paesi del mondo, come forma di protesta contro il razzismo e dopo i fatti di Minneapolis e la morte di George Floyd, ha visto coinvolto soprattutto Marco Travaglio, che, nel tentativo di scagionare dalle accuse di razzismo, sessismo e stupro colui che ritiene il proprio mentore e punto di riferimento professionale ed intellettuale, è scivolato in considerazioni, tanto sull’operato di Montanelli in Etiopia quanto sul contesto storico e politico dell’impero africano italiano, a dir poco sgangherate ed imbarazzanti.

Ora che col trascorrere dei giorni la polemica si è smorzata, diviene possibile osservarne i contenuti e le questioni sollevate, tralasciando per il momento la contingenza del fatto in sé (l’opportunità o la fondatezza della richiesta di rimozione del monumento), così come la gravità degli atti compiuti in Etiopia a metà degli anni Trenta del secolo scorso da Montanelli (che comprò una bambina di 12 anni, la sposò e ne abusò sessualmente, secondo le modalità del “madamato”, largamente praticato dagli ufficiali italiani in AOI). L’intero impianto del ragionamento di Travaglio – facilmente reperibile su “Il fatto quotidiano” come su altri giornali di metà giugno – si regge sui passaggi logici tipici del riduzionismo storico, che può facilmente lambire il peggior revisionismo, anche quando si premura di dichiarare il contrario, come premessa generale del discorso. Nell’intervista rilasciata per Accordi&Disaccordi di Andrea Scanzi e Luca Sommi [ilfattoquotidiano.it 13/06/2020] Marco Travaglio ripropone la consueta immagine di un colonialismo – quello italiano – da “operetta”, un po’ straccione e un po’ improvvisato, intrapreso da un paese che, arrivando per ultimo nella corsa all’Africa, cercò di prendere quel poco che rimaneva, lo scatolone di “sabbia libico” o poco più, ecc.

Sembra (fingere di) dimenticare il direttore de “Il fatto quotidiano” che l’imperialismo italiano non fu un’iniziativa estemporanea, scollegata dal quadro complessivo della politica dei governi dell’Italia liberale, prima e fascista poi; che esso fu un obiettivo costante della politica estera italiana per sessant’anni almeno – da Depretis e Crispi fino alla seconda guerra mondiale; che per conquistare l’Abissinia il nostro paese di guerre ne intraprese almeno due, essendo necessario contare anche quella crispina conclusasi con la disfatta di Adua; che per prendere la Libia l’Italia giolittiana dichiarò guerra all’impero ottomano, contribuendo ad aggravare un quadro politico internazionale già sull’orlo del precipizio; che per “riconquistare” Tripolitania e Cirenaica dopo la Grande guerra, il fascismo, coi Badoglio e i Graziani, adottò strategie e pratiche di repressione e terrore contro la popolazione civile cirenaica, superate per ferocia solo da quelle poi messe in opera dagli stessi due alti ufficiali fascisti in Etiopia, con il ricorso alle armi chimiche e ai gas, ai campi di concentramento, allo stragismo sistematico contro civili inermi.

Se, come opportunamente e correttamente scrive Travaglio, tutto va ricondotto al “contesto” storico particolare, allora “questo” è il “contesto” in cui va collocato anche l’operato del giovane ufficiale di un battaglione di ascari eritrei, Indro Montanelli, cioè quello di una Italia fascista, guerrafondaia, imperialista, profondamente razzista e quel giovane ufficiale si comportò da fascista, colonialista e razzista. La rigorosa e doverosa adesione al contesto storico è indispensabile infatti per la corretta comprensione dei fatti, non per la giustificazione o l’assoluzione degli attori di quei fatti; perché se così non fosse, allora una qualsiasi azione – anche la più feroce e criminale – se coerente col contesto storico generale in cui si svolge, ne uscirebbe giustificata ed insieme ad essa il suo attore.

Sostiene Travaglio:

È un’accusa che mi fa sorridere. Lui voleva diventare abissino. Era andato in Africa un po’ nel mito del Duce, ma soprattutto nel mito di Kipling, di cui era un grande lettore. Gli piaceva l’avventura. Era partito per l’Africa come il classico europeo affascinato dall’ avventura esotica, dalle popolazioni indigene. Si era immerso nelle tradizioni e nella cultura del luogo. I commilitoni africani gli dissero: “Tu sei single, ti devi sposare”. E lui, a differenza di altri soldati che semplicemente andavano a prostitute, preferì prendere moglie. Allora c’era anche il cosiddetto “madamato”, questa sorta di sposalizio provvisorio, nato più che altro per evitare la prostituzione e le malattie. Una via di mezzo fra il matrimonio nostro e quello loro. Era del tutto normale, allora, sposarsi a partire dai 12 anni, per le ragazze abissine, come lui stesso ha spiegato diverse volte. È per questo che mi fa sorridere l’accusa di razzismo. […] Non credo che Montanelli fosse un santo, semplicemente gli eritrei gli hanno spiegato che da loro il matrimonio funzionava così, dai 12 anni le donne si sposavano, a 20 anni erano vecchie, a 30 morivano. Quella era la tradizione. Non era vissuta come una violenza, né dall’ uomo né dalla donna. E non c’era il corteggiamento o il fidanzamento: il matrimonio era combinato quasi sempre dalle rispettive famiglie. Si faceva così e lui ha fatto così. Non ha mai avvertito la cosa come razzismo. Che era ben altra cosa, come ha spiegato lo storico Angelo Del Boca sul Fatto, ossia vietare le unioni miste, il matrimonio con i non italiani. […] Ad anticipazione delle leggi razziali del 1938, Mussolini cominciò a censurare Faccetta nera e tutte le canzoni che inneggiavano alle unioni miste. Nel ’37 ci fu la svolta, si decise che bisognava bloccare le unioni miste e il miscuglio del sangue, e Faccetta nera diventa una canzone proibita. Prima, era una canzone che, a suo modo, indicava l’integrazione. Era il contrario del razzismo. Il razzismo lo sposa Mussolini dopo il 1937 e l’anno successivo promulga le leggi razziali. Nel 1937 diventa reato anche il madamato e si proibisce il matrimonio misto anche per chi si fermava a vivere nelle colonie. [famigliacristiana.it 17/06/2020]

Insomma il colonialismo e la guerra per l’impero fascista sono ridotti all’avventura esotica nel nome di Kipling, come se la teoria del “fardello dell’uomo bianco”, cantata dall’omonima poesia dello scrittore britannico, non fosse proprio il concentrato di quel paternalismo razzista di cui anche la sottomissione fisica e lo sfruttamento sessuale della donna africana conquistata sono dirette conseguenze. Il ricorso al madamato viene presentato come una forma di rispetto delle tradizioni locali da parte di un ufficiale aperto e ben disposto nei confronti della popolazione conquistata (mentre per la truppa rimangono le sciarmutte) e non come qualcosa di riprovevole che mai lo stesso Montanelli avrebbe anche solo immaginato di compiere con una dodicenne italiana e dalla pelle bianca, prova provata, cioè, di quanto il senso di superiorità e di disprezzo verso i neri abissini sostanziasse il razzismo fascista in AOI. E come se non bastasse “Faccetta nera” viene interpretata come un inno all’integrazione, all’incontro tra popoli e razze, inneggiante alle unioni miste! Ne consegue che per Travaglio anche il madamato favoriva l’integrazione e il confronto paritario tra uomini italiani e donne abissine. Possibile che Travaglio non capisca (finga di non capire) che i provvedimenti di discriminazione e segregazione razziale introdotti in AOI nel 1936/’37 e che effettivamente, tra le altre cose, impedivano la frequentazione di sciarmutte e madame per evitare il rischio della nascita di meticci e della mescolanza del sangue, altro non erano se non l’altra faccia della stessa medaglia, che si chiama in un solo modo: razzismo? Una sola delle argomentazioni di Travaglio sopra riportate ci risulta corretta e condivisibile: la relazione consequenziale che stabilisce tra i provvedimenti razzisti africani del ’36/’37, che fecero da premessa, preparandone il terreno, e le leggi razziali antisemite del 1938, che sono pertanto da intendersi come parte integrante dell’ideologia e della politica fasciste degli anni Trenta e non come un’appendice posticcia, conseguente alla volontà di compiacere l’alleato germanico.

Va precisato che l’arringa difensiva di Marco Travaglio – così scomposta, approssimativa e piena di stonature, che probabilmente il suo destinatario non l’avrebbe desiderata – si riferisce ad un solo caso, quello di Montanelli, appunto, e non esprime l’intenzione di assolvere l’imperialismo fascista nel suo insieme; ma seppur riferita ad un solo individuo, essa presenta gli stessi stereotipi e i medesimi passaggi logici che, trasferiti ed estesi dalla parte al tutto, reggono e sostanziano il mito degli “italiani brava gente”, che anche quando interpretano il ruolo del colono conquistatore, quando prendono possesso e dominano terre e popoli ritenuti inferiori non perdono mai completamente quella bonarietà e quel sentimentalismo che ne contraddistinguerebbero l’indole. Ecco allora che l’«Arcitaliano» (così da numerosi suoi estimatori Montanelli viene considerato) coincide in toto con il «Buon italiano».