di Giovanni Iozzoli

Il mio giovane amico e collega Pasqualino è un concentrato antropologico di rara trasparenza. Modenese, figlio di meridionali, bassa scolarizzazione (molto bassa), operaio generico, già segnato da un futuro piuttosto in salita. Il suo eloquio andrebbe studiato in un dipartimento di linguistica: un impasto di italiano televisivo, da bar di periferia, napoletanismi arcaici e gergo da officina padana.

Pasqualino raramente si occupa delle questioni sindacali, che gli sembrano remote e ostiche come la biologia molecolare; né mai si è interessato alle faccende politiche.
Da qualche giorno, però, il nostro ha scoperto una passione travolgente per il dibattito pubblico e l’attualità: concentrandosi essenzialmente sulla vicenda del ritorno in Italia di Silvia Romano.
Pasqualino pare abbia sviluppato un’avversione – potente e improvvisa, come un innamoramento – nei confronti di Silvia Romano Aisha. Pasqualino odia Silvia. Ed è riuscito persino a bersi una puntata intera dell’orrido Giletti, dedicata all’argomento, con la pretesa di discuterne il giorno dopo con i colleghi.

Naturalmente Pasqualino ignorava tutto circa l’esistenza di Silvia Romano, fino al giorno della sua sbandieratissima liberazione. Non sapeva neanche che fosse stata rapita, né se ne sarebbe dato gran pena se lo avesse saputo. Di sicuro ignora anche i dettagli a proposito del suo rapimento, il luogo dove è stata catturata, ad esempio – a 80 km dai resort di Briatore –, preferendo pensare piuttosto a un qualche oscuro, infido e misterioso “Medioriente”, come scenario di questa torbida vicenda che tanto lo indigna.

Il ragazzo è buono come il pane. Certe parole dure e sarcastiche sulla sua bocca stridono e lasciano sgomenti. La sua ostilità è il riflesso di discorsi assimilati in famiglia e nel suo circuito di estrema periferia, ancor più immiserito dalla reclusione anticovid; luoghi in cui la convivenza tra ragazzi italiani e stranieri è strettissima ma non pacificata, con tensioni identitarie sottotraccia che permangono, nei parcheggi notturni di polisportive vuote e bowling scalcinati. Del resto lo stesso Pasqualino, pur essendo un nativo, non si sente affatto un autoctono: la sua evidente “napoletanità” lo rende poco avvezzo a frequentare i suoi coetanei emiliani purosangue. Insomma: Pasqualino ce l’ha con Aisha, ma non sta neanche tanto bene con se stesso.

Dunque, considerando che il nostro uomo era totalmente disinteressato alla storia di Silvia prima dell’11 maggio e che se l’avesse conosciuta prima del rapimento non le avrebbe dedicato la minima attenzione, allora viene da chiedersi: perché la sua trasformazione in Aisha l’ha fatto così tanto imbestialire? Chi conosce Pasqualino, resta colpito e meravigliato dalla sua nuova verve (in)civile. Qual è il dispositivo segreto che accende gli animi dei mille “Pasqualini”, stancamente sottomessi dalle dinamiche della vita eppure capaci di insorgere fieramente scoprendo nemicità strampalate?

Mentre Aisha veniva sepolta dalle contumelie degli haters, le diverse anime (organizzate) dell’Islam italiano, la inondavano di video-auguri, complimenti ed effusioni on line. Inutile negare che per ogni associazione o comunità sarebbe un fiore all’occhiello una affiliazione della ormai celebre neo-convertita. Ma c’è anche la curiosità di capire meglio i moventi e le condizioni di questa ragazza: lei ha conosciuto solo un volto del complicato caleidoscopio dell’islam contemporaneo – quello di un salafismo combattente, povero e retrivo -, ma in Italia e in Europa avrà modo di confrontarsi con molti altri mondi, radicalmente diversi sia per consuetudini che per aspetti dottrinali. E’ vero che il conservatorismo prevale nella maggior parte delle moschee italiane, ma sta venendo avanti anche una giovane generazione di ragazzi – e soprattutto ragazze – che stanno ridisegnando la geografia della presenza islamica in Italia. Aisha che farà? Il tipo di imprinting che ha segnato la sua conversione, come si misurerà con questa complessità?

Torniamo al nostro Pasqualino, addetto al montaggio in una piccola aziendina metalmeccanica emiliana. Ho provato a farlo parlare un po’, per capire il senso della sua avversione contro Aisha. In certo casi meglio ascoltare, che imporre omelie democratiche. Mi ha semplicemente ripetuto con veemenza le solite bassezze che si sono sentite in questi giorni in tv o lette su certi giornalacci: perché abbiamo speso quattro milioni per liberare una traditrice? Ed è forse questa la parola chiave, per decostruire il suo discorso. Traditrice. Silvia ha tradito. E’ diventata un’altra. Ha persino somatizzato l’alterità – tanti avranno pensato che non somiglia nemmeno più alla ragazza delle foto pre-sequestro. E’ passata al nemico esibendone persino l’abbigliamento, a mo’ di stendardo saraceno.

Certo, si tratta di un Nemico difficilmente definibile, in termini razionali. Pasqualino si sente davvero in guerra con “l’Islam”? Si, più o meno. Anche se vive in apparente concordia dentro un rione multietnico, in mezzo a centinaia di musulmani, e nulla lo divide concretamente da loro – a parte qualche abitudine alimentare. Pasqualino avrebbe effettivamente più difficoltà a convivere con dei borghesi modenesi. Del resto, lui non conosce granché del suo Nemico, non sa cos’è “l’Islam”, né tanto meno gli interessa molto. Ma nel corso degli anni – quelli cruciali della sua crescita come individuo e cittadino -, con la persistenza di un veleno sapientemente inoculato ogni giorno, gli è stato spiegato che il Nemico esiste, che parla arabo e che rappresenta una minaccia per il suo mondo. Un giovane proletario italiano di trent’anni fa non avrebbe avuto nessun problema ideologico con l’Islam.

C’è da dire che l’operazione di costruzione del Nemico non si è posta solo sul piano (sub)culturale – avrebbe avuto basi troppo labili per resistere a lungo. Piuttosto, tale dispositivo narrativo si è innestato su una frattura naturale, e molto materiale, che si è aperta nella società tra quelli come Pasqualino e i circostanti mondi migranti; suo padre, un edile precario da molti anni, chissà cosa racconterà in casa circa i “ladri di lavoro” stranieri. Ed è proprio questo il terreno minato: l’occupazione degli spazi urbani, l’accesso al welfare e all’edilizia popolare, e soprattutto la competizione al ribasso sul mercato del lavoro, consentita dalle moderne relazioni industriali deregolate. Su questa base miserabile, è fiorita una versione altrettanto miserabile – e caricaturale – del famoso scontro di civiltà. Huntington ne resterebbe mortificato.

Nemico uguale Competitore. Competitore uguale Musulmano. Musulmano uguale Nemico. Una sequenza illogica che, pur conservando una sua dimensione materiale, mischia identità confessionali, etniche e sociali, in un guazzabuglio incendiario. E’ su tali fallaci equazioni che sono state costruite vent’anni di politiche culturali islamofobe: e hanno funzionato nella misura in cui hanno contribuito a frammentare ulteriormente i destini di classe, ai piani più bassi della piramide sociale. In certi stabilimenti industriali, tale separatezza è rappresentata plasticamente dall’organizzazione del lavoro e degli spazi: al piano superiore gli addetti alle reti commerciali e impiegatizie (autoctoni); in produzione, meridionali dalle residue stabilità contrattuali; nella logistica e nei reparti nocivi, stranieri “cooperatori” poveri e precari.

Il discorso islamofobo non è stato rozzo e banale come si pensa, aveva e ha una sua articolazione e qualche elemento di direzione politica. Ai livelli superiori hanno lavorato le star dal pedigree intellettuale, gente come Oriana Fallaci; ai piani bassi hanno picchiato ai fianchi le horror tv berlusconiane e i dispositivi media-onnivori come la Bestia salviniana. Su Carmilla, il nostro Gioacchino Toni tiene una rubrica periodica intitolata Nemico (e) immaginario: Pasqualino potrebbe incarnare la verità storica di questa nemicità immaginaria – il nemico come entità indefinibile, inafferrabile, eppure sempre ben presente nella tua testa, piazzato sul tuo stesso pianerottolo, solo apparentemente inoffensivo e cordiale, in attesa di colpirti alle spalle ed estrometterti da quel poco che hai.

Torniamo ad Aisha. L’opinione pubblica democratica e la stampa perbenista, hanno ovviamente dichiarato solidarietà a Silvia Romano, per gli attacchi subiti a causa della sua conversione. La maggior parte dei commentatori ne ha accettato con qualche perplessità le scelte; qualcuno, condiscendente ma molto dubbioso, ha evocato in modo sottile la necessaria verifica psichiatrica. In generale si cerca di tenere in piedi la maschera liberale che esalta la sacralità della libera scelta individuale. Il problema di questo approccio è il paternalismo di fondo: una tolleranza esibita verso modelli giudicati arretrati e indigeribili, ma che per il momento è più saggio rispettare, destinati come sono ad essere superati dialetticamente dallo sviluppo storico.

E’ una visione fiduciosamente positivista e ingenuamente illuministica: la religione è solo un ritardo dei popoli – “oppio e consolazione”, diceva Marx. Lasciamogli indossare il velo, perbacco. Prima o dopo quel velo cadrà, sotto la spinta della estetica della “libera società dei consumi” (non era proprio quello che si aspettava Marx) e finalmente potranno diventare come noi. La fascinazione fatale non ha già funzionato per i popoli ad est del Muro? Anche una parte del micromondo femminista condivide questo approccio. In generale presumiamo di essere il punto più avanzato di una linea retta e unilaterale di progresso e civilizzazione, che vede nel nostro modo di vivere, di essere uomini e donne del XXI secolo, lo stadio più avanzato e luminoso. Il progressista medio ama il mito del “buon selvaggio” da emancipare, tanto quanto il missionario è convinto della ineluttabilità della conversione.

Mentre lo xenofobo vorrebbe allontanare il diverso, l’illuminista é certo della sua assimilazione. Per entrambi la strada è segnata: il “pacchetto Occidente” va accettato in pieno, senza riserve, e nessuno sfuggirà all’eccelsa medicina – con le buone o con le cattive. E’ per questo che i popoli del sud del mondo, pur invidiando il nostro modello sociale e affrontando autentiche odissee per condividerlo, restano piuttosto diffidenti verso il sistema di valori che il nostro immaginario collettivo lascia trasparire: le nostre fiction, il nostro stile di vita sempre più slabbrato e scollato dalla quotidianità, dalla terra, dalla realtà, dalle cose essenziali che non sappiamo più riconoscere. Siamo diffidenti verso lo straniero, però consegniamo in mani straniere le cose più preziose che abbiamo – bambini e anziani, futuro e passato: anche nella xenofobia, offriamo di noi un’idea un po’ schizofrenica.

Nizza, 24 agosto 2016. A pochi passi dalla Promenade des Anglais, dove poche settimane prima c’è stata una sanguinosa strage terroristica, un nucleo di polizia interviene prontamente sulla spiaggia. Non sta sventando un attentato. Sta multando una signora che ha fatto il bagno ed è seduta sulla sabbia in burkini – un velo sulla testa e un paio di fuseaux. La polizia, inflessibile, le rammenta che in spiaggia è obbligatorio spogliarsi sulla base di un ordinanza del sindaco che impone – in un rovesciamento parossistico dei nostri anni ’50 – “il decoro dei costumi”. Succederà anche a Cannes e in altre località. Spogliarsi non è più una scelta ma un obbligo, un codice d’accesso necessario a condividere lo spazio pubblico. La gloriosa Repubblica affida a poliziotti da spiaggia quel che resta della sua grandeur: il tramonto dell’Occidente si misura sui centimetri di cosce e di glutei femminili esibiti sotto minaccia di multe ed ostracismo. Una rozzissima rappresaglia “anti-Islam” che però, sotto sotto, dice anche molto sulla condizione della donna: in Occidente, non “in Islam”.

Ma perché, secondo Pasqualino, Silvia va considerata una traditrice? Cos’è di preciso che ha tradito? Se il nemico è abbastanza indefinibile – musulmani sono i terroristi del Bataclan, ma anche i padroni del Paris Saint Germain e pure il suo gentile vicino di casa e i suoi colleghi di officina con cui cazzeggia tutto il giorno – anche il “suo” campo, quello che vorrebbe difendere, è tutt’altro che distinto e perimetrato. L’Italia? L’Occidente? Il cristianesimo popolare delle Madonne e di Padre Pio, tanto caro ai suoi nonni ma da cui lui non si sente attratto? Quali sono i due mondi in lotta? In questo delirio polisemico, per delimitare campi così ingarbugliati, Bin Laden andò a recuperare la parola “crociato” – salibyon – con cui definire gli americani, un termine che in arabo non ha neanche un vero e proprio corrispettivo (nella storiografia musulmana non esiste l’epopea delle “Crociate”). Quindi, tra crociati e neoconvertiti, Pasqualino si ritrova solo e sempre più confuso. Costretto a tagliare con l’accetta la sua vita e le sue appartenenze. E alla fine ritorna la domanda centrale: chi o cosa ha tradito, quella benedetta figliola che ora si fa chiamare Aisha?

Un paio di anni fa, una giovane ragazza si presentò in un centro islamico di Modena e chiese informazioni sull’Islam, da cui si sentiva attratta. Le spiegarono alcune cose e lei andò via soddisfatta. Il giorno dopo arrivò il padre, incazzato, a chiedere conto ai dirigenti della Moschea; gentilmente gli spiegarono che la ragazza era venuta con le sue gambe, che nessuno era intenzionato a plagiarla e che del resto era maggiorenne. E poi, gli chiesero con garbo, che male ci sarebbe se la giovane si interessasse all’Islam? Il padre, furente, gridò: meglio morta che musulmana! E non era una invettiva o una deplorevole iperbole. Per quel genitore, come per la maggior parte delle persone normali, la scoperta di una figlia tossicodipendente o prostituta o narcotrafficante o rapinatrice, stimolerebbe, dopo lo sconcerto iniziale, un moto di comprensione, il tentativo di recupero, di protezione, una interrogazione sulle proprie responsabilità. Ma davanti alla figlia musulmana, il senso di rottura irreversibile, di repulsione, di perdita, sarebbe enorme, non sopportabile. Quindi Pasqualino non è poi così sconclusionato, nella sua avversione. Essa è radicata nella società. Da noi non abbiamo dei movimenti esplicitamente anti-musulmani come Pegida; abbiamo piuttosto una “Pegida” diffusa, non organizzata ma non meno viscerale. La stessa parola Islam ha assunto un potenziale esplosivo, divisivo: è forse la categoria storico politica più dirompente e problematica dell’età contemporanea.

Silvia, diventando Aisha, ha effettivamente tradito “qualcosa”: un ethos comune, uno spirito dei tempi che vede nell’Islam un nemico irriducibile; e non è solo una roba da giornalismo sottoproletario alla Vittorio Feltri; l’Islam è pericoloso perché contrasta la concezione iperliberale dell’individuo padrone di sé e del mondo, signore dei mercati, performante, all’inseguimento furioso del conseguimento economico come fonte di senso esistenziale. Da questo punto di vista, l’Islam è oggettivamente una sopravvivenza “nociva al progresso” – con le sue priorità estranee all’imperativo economico, agli attaccamenti mondani, la repulsione per la logica finanziaria, una certa idea di destino e di “lentezza”, che era propria degli antichi.

Il monoteismo assoluto della Tecnica, i derivati, l’autorealizzazione dell’Io, il Prozac, il neo schiavismo liberista, la corsa demente alla catastrofe ecologica, il solipsismo metropolitano tutto spritz, palestra e distanziamento affettivo. Questi sono alcune degli elementi valoriali grazie a cui vorremmo convertire i barbari. E viene da ridere pensando che in realtà la maggior parte dei musulmani già convive perfettamente con questi fondamenti della modernità: anzi, quelli che esibiscono arcaismi pseudo-shariatici, sono coloro che in realtà si trovano più a loro agio nel mondo peccaminoso che l’Occidente gli ha squadernato davanti.

Il 20 novembre 1979, Muhamed Saif al Otaybi, notabile saudita, alla guida di un commando formato da alcune centinaia di insorti, si barrica nella Grande Moschea della Mecca, prendendo in ostaggio migliaia di pellegrini. E’ una profanazione senza precedenti ed un trauma per tutto il mondo arabo. Il re e il gruppo dirigente saudita, capiscono che scricchiolii pesanti stanno minando il trono d’oro su cui sono seduti: gli insorti li accusano di rammollimento filo occidentale. La Moschea viene espugnata dopo due settimane, i capi degli insorti giustiziati, ma le petrolmonarchie sanno che è arrivato il momento di uscire, metaforicamente, dai salotti. Era necessario lanciare un vero e proprio Jhiad che ricostruisse la propria verginità politico-religiosa e una qualche funzione di leadership dentro il mondo sunnita, dirottando verso un nemico esterno le energie ribollenti del mondo arabo. Ma chi doveva combattere, per loro, questa guerra assai poco santa?

La scelta cadde sui montanari afghani e l’Afghanistan divenne il terreno di una carneficina di lunga durata: da quel momento un fiume di milioni di petrol-dollari si riversò sugli altipiani sabbiosi, per trasformarli in una micidiale trappola antisovietica. Stravolgendo la vita, la cultura secolare e il tessuto sociale di villaggi e città. Gli Usa fecero altrettanto, nel più grande sforzo economico mai prodotto dai tempi del Vietnam. Nessun giovane rampollo saudita era però disposto ad andare a combattere e rischiare la pelle insieme ai rozzi pashtun; l’unico disponibile fu il giovane silenzioso figlio del costruttore yemenita Bin Laden, che portò tra le montagne afghane la bandiera saudita, rinnovando i suoi buoni rapporti (anche di business familiare) con gli americani. Il “data base” dei combattenti a libro paga della Cia si chiamava Al Qaeda. Poi divenne altro. Da lì comincia la storia del Jhiadismo contemporaneo e si sviluppa incontrollabilmente quella del salafismo: un fenomeno moderno, iperpolitico, ad alimentazione esogena.

Il salafismo combattente costituisce oggi un esercito di mercenari al servizio dei soliti noti attori: Arabia Saudita, Emirati, Turchia, Pakistan e naturalmente Usa e Israele, che impiega queste truppe in geometrie ad alleanze variabili, tra Siria, Iraq, Libia e Corno d’Africa. Lanciano guerre, guerriglie, destabilizzano governi, massacrano prevalentemente i musulmani (stando sempre ben attenti a non sparare una pallottola verso Tel Aviv). E aprono la strada ai bombardamenti umanitari e alla occupazione militare occidentale. La massa di risorse di cui dispone questo esercito – fatto anche di predicatori, madrasse, Ong, televisioni, uso spregiudicato del web: una Bestia versione salafita – ridisegna l’antropologia dei popoli, “wahabizza” interi territori, crea danni difficilmente reversibili. Basti vedere come hanno ridotto l’Afghanistan, 40 anni dopo il sedicente Jhiad. Tra queste bande mercenarie, gli Al Shabab che hanno rapito Silvia hanno un loro ruolo preciso, di ascendenza emiratina, per la precisione. E tutti costoro – Jhiadisti e Pasqualini – sono figure tragiche della crisi della modernità, non residui del passato.

E qui torniamo ad Aisha. Lei si è rivelata effettivamente una traditrice: ha tradito il vuoto pneumatico e il disperato nichilismo delle nostre “movide” metropolitane; ha tradito le estetiche conformiste e seriali; ha tradito il primato del denaro, del successo, e tutta l’ipocrisia neo coloniale dell’Occidente che avrà misurato e toccato con mano, già da volontaria, in mezzo alla miseria africana. C’è da augurarsi che la traditrice Silvia possa un giorno fornire il suo piccolo contributo nello sforzo di edificazione di un Islam europeo – mistico e colto, l’unico possibile nell’Occidente affamato di spiritualità –, che sarebbe una risorsa per questo continente, non un pericolo, fuori da ogni retorica “buonista”. Una storia che sta già dentro le radici d’Europa, nella nostra geografia, nella nostra cultura, nella nostra letteratura (come ben sa ogni liceale). Intanto, bentornata a casa, Silvia-Aisha.

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