di Enzo Names e Nicolò Molinari

A questo link il capitolo precedente.

Una constatazione si accompagna all’entrata in scena dei gilet gialli: la legalità non fa parte del loro universo.
Dal primo giorno l’obiettivo è chiaro e preciso, bloccare gli assi di circolazione, i ponti e perturbare il flusso di veicoli.

Questa, almeno in un primo tempo, non è una scelta rivendicata esplicitamente per volontà strategica di attacco all’economia capitalistica, né come irriducibile affermazione di radicalità.
I blocchi vengono, semplicemente, lanciati e realizzati; nascono come i funghi dopo le piogge di novembre, prima sparpagliati, poi in gruppi più numerosi a trasformare le rotatorie da fluidificatori di traffico a luoghi di vita e lotta.
Nessuna domanda di permesso, sono il frutto di una determinazione cocciuta e messa semplicemente in pratica.
Guardando i video dei primi giorni, l’atmosfera appare quella di una gita di famiglia, invece dell’area picnic panoramica si bivacca alle porte dell’autostrada.

Le rotatorie divengono un luogo di ritrovo e di organizzazione, iniziano a fiorire cumuli di pallet da poter bruciare per riscaldare le giornate sul bitume, costruzioni più o meno arrangiate sbocciano a bordo strada. Queste realtà costruiscono una forma di “federazione delle soggettività” della zona che sperimenta il cospirare inteso come volere comune.
Sono luoghi dove si passa quotidianamente, c’è chi resta la giornata perché non ha un lavoro o è in pensione accanto a chi di corsa offre cibo, soldi e coperte.
Fanno pensare ai presidi che la Val di Susa ci ha mostrato da anni sulle montagne dove la rassegnazione non è di casa e la lotta è storia sociale della valle.
Le baracche d’appoggio possono poi diventare delle costruzioni pronte a sfidare ogni legge, amministrativa in primis e di gravità poi.
Un arco di trionfo di pallet viene completato in Aquitania come sfida estetica ad una lignea riproduzione della torre Eiffel innalzata in Provenza.

I pedaggi autostradali diventano un altro obiettivo.
Sulla scia di altri movimenti di lotta, la pratica dell’occupazione dei caselli si ripete ai quattro angoli dell’Hexagone, con l’operazione di apertura delle sbarre, condita da distribuzione di volantini e raccolta fondi.
I blocchi a singhiozzo e le operazioni più forti, sebbene più brevi causa sgomberi polizieschi (come i blocchi di ponti o del porto di Saint Nazaire) penano però a imporre il rapporto di forza dei gilet a livello nazionale sebbene centinaia di distributori di benzina si ritroveranno a secco.
L’appuntamento del sabato, caratterizzato da un corteo nelle città più grandi, diventa rapidamente un momento indispensabile del processo di lotta.
Il sabato pomeriggio è l’appuntamento fisso, è il giorno dei gilet. E della loro determinazione a bloccare la tranquillità del giorno dello shopping e a scompaginare i piani dei governanti che emanano divieti di manifestare.
La manifestazione selvaggia dei sabati diviene un rito con atti settimanali che si susseguono ininterrotti. Nonostante un calo di partecipazione notevole, a Bordeaux all’atto 51 del 9 novembre 2019 due-trecento persone erano ancora in strada e hanno avuto la forza di entrare in stazione per bloccare per qualche minuto i treni in arrivo.

Quando al secondo sabato di scontri relativamente estetici nella piazza del comune di Bordeaux divenuta zona rossa, i poliziotti hanno inondato l’intero centro città, occhi e polmoni di tutti – presenti o passanti – di lacrimogeni, non è scappato quasi nessuno.
Molti al contrario hanno giurato di non voler subire più.
È quasi buffo osservare come in pochissimo tempo una molteplicità di persone di tutte le età e soprattutto over 40 possa equipaggiarsi con maschere occhialini e maalox come il più esperto militante. L’esperienza con i lavori manuali si riflette poi anche nell’equipaggiamento che diviene ben più diversificato ed efficace dei soli modelli di Decathlon.
Più tardi, durante uno degli incandescenti sabati di dicembre migliaia di gilet attraversano un viale costellato di banche.
Un gruppo d’incappucciati s’attacca alle grandi vetrate. Il tonfo del vetro piombato al suolo viene salutato con olé e applausi da centinaia di persone che assistono all’attacco.
Non era accaduto prima, o almeno non in maniera così di massa e convinta.
Non sono improvvisamente divenuti tutti “Black Block”, ma quello che tanti hanno vissuto tra violenze della polizia e consapevolezza che la forza collettiva si manifesta in mille forme si consolida rapidamente. Non è un movimento classico con un programma preciso e dei metodi fissi, la contaminazione è virale.
La sfilata di selfie sulle barricate infuocate ne è l’esempio più evidente.

Il corteo diviene un momento di contaminazione importantissimo, una sorta di “assemblea diffusa”, dove condividere con altri i propri sentimenti, rendersi partecipi delle reciproche difficoltà di vita: un momento dove creare solidarietà, empatia e amicizia, un momento per sentirsi meno soli.
La scansione in “atti” settimanali diviene il ritmo del movimento dei GJ. Con almeno tre caratteristiche specifiche:

–   La scelta d’investire un luogo centrale e simbolico come il centro cittadino, di Parigi ma anche nelle capitali regionali (Montpellier, Tolosa, Bordeaux, Nantes, Lione…), in quanto centro nevralgico del potere e dell’immaginario collettivo.
–   La determinazione nel rifiutare le regole imposte dal governo, non chiedendo autorizzazione per la gran parte delle manifestazioni. Questa scelta carica di radicalità offre soprattutto una qualità pratica, permettendo una libertà maggiore nello scegliere le strade durante la giornata di lotta ed evitare che ogni possibile obiettivo venga difeso.
–   La tattica di scandire il movimento nei giorni in cui vi è più disponibilità di persone accettando di fatto la continuità del ritmo lavorativo e allontanandosi dalla ricerca di una sorta di sciopero generalizzato che era stato evocato nei primi giorni dei blocchi sistematici. Se è da segnalare il fallimento della volontà di bloccare l’economia senza interrompere il lavoro, alcuni settori economici sono stati pesantemente esposti alle conseguenze dei blocchi e dei cortei, ma una dimensione più ampia di “sciopero generale” e “blocco totale” è stata ben lungi dall’essersi messa in moto.

I sabati con i gilet gialli sono diversi dai cortei classici.
La prima cosa che salta all’occhio è la dimensione più individuale, o meglio di individui o gruppetti.
Gli habitué delle manifestazioni sono disorientati, non c’è una testa, non ci sono spezzoni, gli striscioni neanche (verranno col tempo e importati da realtà più abituate ai cortei come gli studenti). Gli slogan fioriscono sui gilet che diventano col passare delle settimane veri e propri tazdebao.
Le questioni legate all’autogoverno e al municipalismo sono fatte proprie da alcune realtà dei GJ che daranno il via alla “assemblea delle assemblee” con l’intento di federare le varie realtà per proporre azioni coordinate.

Ripensando ai cortei di Bordeaux, un aspetto mi ha colpito profondamente. Il cambiamento repentino dell’attitudine della gente durante i sabati.
Una sorta di corso accelerato di politicizzazione e di radicalità. Ma senza ideologie o leader a dirigere la folla con arringhe incendiarie.
Una sorta di crescita collettiva senza uno spazio collettivo dove coordinarla e organizzarla.
Questo il paradosso. Persone che nello spazio di 15 giorni passano da invocare alleanze con la polizia a urlare di gioia nel vedere bottiglie infrangersi sui blindati o vetrine sfondate. Quest’evoluzione penso sia il frutto dell’esperienza individuale e collettiva di chi sceglie di non perdersi un sabato nonostante la certezza di scontri e la frequenza di danneggiamenti durante il passaggio dei gilet.
Bordeaux è una città tranquilla e in apparenza molto borghese, come il suo centro storico. È chiamata la “bella addormentata” e non è un complimento per chi segue le lotte sociali.
Tantissimi che sono scesi in piazza con i gilet erano alla prima esperienza di questo tipo.
E l’hanno vissuta con una carica emotiva e un’energia spesso strabordante.
Lo stupore di chi, salvo qualche passeggiata del primo maggio, mai aveva fatto cortei di lotta di fronte agli attacchi della polizia si trasforma radicalmente così come cambia la considerazione delle forze dell’ordine.

La politicizzazione e la radicalità maturano anch’esse nel corso delle settimane.
All’inizio gli slogan erano soprattutto contro Macron, attraverso filastrocche popolari, talvolta truculente, talvolta sessiste.
L’invito a raggiungere i gilet era onnipresente così come un ottimismo inclusivo anche, ahinoi, per i poliziotti.
Se nelle prime settimane il coro “polizia con noi” è riecheggiato diverse volte, sono bastate delle giornate a respirare gas e schivare proiettili e schegge per forgiare una determinazione precisa: “tutti odiano la polizia”, come insegnava il movimento contro la riforma del lavoro, altrimenti puntualizzato in “la polizia odia tutti”.

Alle prime manifestazioni a cui ho partecipato a Bordeaux cercavo di capire come le persone più “calme” vivessero la presenza di gruppi col volto coperto, perché mi stupiva la tranquillità con cui le azioni di questi gruppi venivano vissute, ma soprattutto la quasi simpatia di cui godevano come osservando due signore 60enni che si fanno fare una foto con dietro una barricata in fiamme.
Un signore della CGT mi dice che nei GJ tutti possono sentirsi a casa, che l’esperienza l’ha aiutato a capire le ragioni di altre realtà, ad esempio quella dei “black block”.
Poi aggiunge “prima non condividevo, ma parlando con loro ho compreso, ora non lo farei, però non mi infastidisce più, si tratta di azioni contro degli oggetti, non di violenza, degradare degli oggetti per lanciare un messaggio: siamo in collera e chiediamo giustizia.”

La repressione e la sordità dei governanti hanno esarcebato gli animi.
Il trattamento mediatico di demonizzazione e il disprezzo (di classe) mostrato dall’intellighenzia di “sinistra” per un movimento eterogeneo, non ideologico e privo di eleganze dialettiche ha fatto il resto. Politicizzazione, radicalizzazione e spunti di autogestione divengono quindi elementi capaci di indicare una ricchezza diffusasi attraverso l’esperienza dei GJ.
Nemmeno le sirene populiste e razziste, evocate sia dalla destra estrema che dal presidente Macron, hanno attecchito per calmare gli animi e dirigerli verso un capro espiatorio funzionale al potere in carica.
La mobilitazione ha offerto dell’energia collettiva in una società sempre più individualizzata e regalato una consapevolezza delle potenzialità che si raggiungono quando “la paura cambia di campo”.
I Gilets Jaunes sono la prova che i processi di periferizzazione, la frattura sociale creatasi tra centro e periferie è comunque in grado di produrre soggettivazione, di produrre forme di nuove resistenze, ricomposizioni sociali e dinamiche di lotta capaci di rispondere alle trasformazioni del capitalismo contemporaneo.

Questo estratto fa parte di un testo più articolato che da oggi circola liberamente in rete, intitolato  “On est là”- Siamo qua – Gilets jaunes: il movimento tenace della Francia invisibile, potete leggerlo e scaricarlo da qui :  onestlagiletgiallihome.wordpress.com.

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