di Franco Pezzini

Wu Ming 4, Il fabbro di Oxford. Scritti e interventi su Tolkien, prefaz. di Edoardo Rialti, pp. 194, € 17, Eterea, Roma 2019

Senza piaggerie – di cui l’autore del libro non ha bisogno – studi come questo sono un esempio eccellente del tipo di critica oggi necessaria in materia di fantasy (e non solo, ma limitiamoci al particulare). Benvenute le opere compilative ad ampio raggio, che se felicemente realizzate possono essere preziose per inquadrare il fenomeno nella sua latitudine; benvenuto anche un certo approccio ruspante in chiave fandom. Ma se non andiamo a incalzare nel rispetto della relativa complessità i singoli testi, la genesi, le fonti, le convinzioni di un autore – anche quando non dice ciò che ci piacerebbe sentire, e tenendo distinti la sua soggettività storica e l’impatto di opere che vanno oltre lui – ci fermeremo alla rifrittura delle stesse banalità e dei soliti travisamenti. In un tempo come il nostro in cui la banalizzazione è premiata, e il successo diluviale di un genere popolare come il fantasy vede un inevitabile scarto tra quantità e qualità delle voci, sia in termini di narrativa che di riflessione sulla medesima (gli autori si propongono spesso come critici tramite web e social), Il fabbro di Oxford è un prezioso richiamo alla complessità.

Dove attenzione, non si sta denigrando il fantasy, come d’uso a suon di semplificazioni tra certi progressisti snob: è un genere che ha offerto anche opere di qualità altissima, talora squisitamente letteraria e capace – a prescindere dal divertimento del lettore, che può essere un valore – di sollevare anche grandi questioni individuali e collettive. La domanda può semmai riguardare, come sempre, le motivazioni con cui il singolo autore si avvicina a un genere e l’abilità tecnica che può vantare. L’originalità e lo spessore. La capacità di porsi domande e di impostarle sul piano narrativo. Il rapporto con le “mode” d’epoca (visto che il fantasy è palesemente di moda). Le stesse sfide sollevate da un genere che sembra più facile da gestire (in teoria non richiede ricerche complesse come il romanzo storico, né costruzioni logiche rigorose come il giallo classico, eccetera) e dove la riproposta continua di alcuni topoi – a ricalco di certi plot fiabeschi, di strutture mitiche eccetera – è forse più facilmente apprezzata dai fan. Dove il rischio di semplicismo si gioca anche nel rapporto con ideologie che sul feticcio dell’eroico amano condurre le danze: si pensi ai possibili – ma non necessari – cortocircuiti con certo neoceltismo, neoteutonismo eccetera di marca reazionaria. Aggiungiamo il fatto che una parte cospicua del fantasy più interessante prodotto all’estero fatica ad approdare in Italia, dove si tende a proporre in traduzione – da cui ovvie imitazioni – il classico usato sicuro. Rinvio sul tema agli itinerari battuti da Davide Mana, esperto di fantasy anglosassone.

Ma torniamo al punto di partenza. Per capire la vera originalità dei maestri di un genere occorre esplorare le pieghe delle loro opere: e nel caso di Tolkien il legame tra lo scritto e gli studi che portava avanti (il suo “lavoro”), le ruminazioni su valori e lettura della realtà, le riflessioni con amici intellettuali (e non), le esperienze familiari, belliche e professionali, è talmente coeso che difficilmente si può parlare di una vera fuga dalla realtà stessa. Semmai, come vedremo, di una tensione all’oltre da sé – previa però immersione nel sé – con un linguaggio amato e nobile, legato a letterature di un certo passato: e tali echi veicolano in modo efficace, grazie a una personalissima frequentazione quotidiana, un intero orizzonte interiore e relative urgenze. Senza colpa di nessuno, è chiaro che la verifica di impianto e motivazioni di legioni di scrittori fantasy che oggi in Italia premono sui social mostrerebbe situazioni un po’ diverse. E veniamo al volume.

Di fronte a una miscellanea, come è questo testo di Wu Ming 4, c’è chi può storcere il naso: e sbaglierebbe. I temi monografici della raccolta finiscono col risultare illuminanti a più ampio raggio; l’interesse non si esaurisce nella singola questione, ma getta luci sull’intero panorama senza pretendere di esaurirlo (cfr. la definizione del lavoro critico di C.S. Lewis citata da Edoardo Rialti nella bella prefazione); quelli che paiono “dettagli” rappresentano spesso essenziali distinguo.

Consideriamo quanto compulsivamente, da un lato, un’estrema destra italiota continui ad allungare le mani su autori come Tolkien, in chiave astorica e campando proprio di categorie ambigue (come il cosiddetto antimodernismo, macrocontenitore che guarda in realtà a posizioni diversissime, ma che fa gioco omologare a forza sotto l’ombrello del guru di Rivolta contro il mondo moderno). Le geremiadi sarcastiche e insieme lamentose circa una “guerra di Tolkien” che vedrebbe la sinistra – i soliti comunisti – intenta a mangiarsi, oltre ai bambini, anche i simboli, negando spazio alla relativa istanza, sono proclamate a colpi di banalizzazioni. Non ultime quelle sul valore autentico del simbolo: una dimensione fondamentale, ma da ravvisarsi e interpretarsi dove e come l’autore e la sua cultura specifica lo richiedono, non sulla base di categorie astratte e (sotto sotto) dell’ideologia dell’interprete. Un semaforo rosso non è un richiamo simbolico alla funzione militare di Dumézil o all’avanzata del comunismo.

E quanto per contro tra certa sinistra – o presunta tale – tenda a riproporsi la citata e vetusta critica snob che, svalutando a prescindere una serie di istanze come escapistiche e non entrando in profondità tra le pieghe delle esperienze letterarie, non aiuta a formare i lettori alla complessità. Beninteso, sul piano del gusto personale è legittima la varietà di pareri; e non ha neppure senso che il fantasy “alla Tolkien” debba dettare la linea di un genere in fondo molto più variegato. Ma torniamo alla complessità, su un autore di spessore che richiede comunque gli strumenti di una buona critica letteraria e di un bacino di studi specifici (come avviene in generale con l’analisi della letteratura alta) per poter essere affrontato efficacemente. Persino autori lucidi come il grande Michael Moorcock hanno tranciato su Tolkien giudizi non condivisibili e un po’ superficiali (sia pure in pezzi in sé brillanti e interessantissimi come questo, tradotto da Massimo Scorsone che – sia detto per inciso – per i Draghi Mondadori si avvia ora a presentare una bella edizione di romanzi moorcockiani). Letture come il presente saggio di Wu Ming 4 fanno insomma un gran bene non solo alla causa di Tolkien, del fantasy e in generale della letteratura ma, tanto più oggi, tanto più in questa Italia, sono una lezione preziosa per superare giudizi facili e premasticati.

In questo ideale prosieguo al bellissimo Difendere la Terra di Mezzo dell’autore (Odoya, 2013, nuova edizione 2018) troviamo testi d’interventi, lezioni, risposte a opere – di vario impatto pubblico – uscite sul tema tolkieniano. Materiale molto vario, dalla comunicazione accademica alla ripresa di contributi volutamente non “tecnici”: dove però il critico riesce a mantenere una coerenza anche stilistica con rigore di contenuti (ricchissimi) e limpidezza di forma. A smarcare dagli angolini chiusi del fandom attraverso lo sguardo a un intero panorama sulla letteratura del Novecento – con cui Tolkien dialoga o di cui almeno condivide crisi o reazioni – e insieme a fornire pagine dalle incalzanti argomentazioni e dall’inattaccabile comprensibilità.

Cercando di riconoscere un ordine virtuale al flusso con cui i contributi della raccolta sono proposti, potremmo accorparli in tre sezioni.

Una prima sezione riguarda in generale, potremmo dire, i ferri del mestiere di Tolkien: dove in poche pagine si offre conto della marcia in più di un simile titano. Vi troviamo Costruire con la materia nordica: citazione creativa, riscrittura, reinterpretazione, fulminante lezione di scrittura che identifica tre sofisticatissime chiavi del narrare tolkieniano, e fa capire anche meglio il tipo di distanza da imitatori privi di una certa coscienza letteraria. Segue un focus su Lo Hobbit come strano romanzo di formazione, che sgrana i topoi di un racconto esemplare mostrando l’intelligenza di utilizzo, le simmetrie, la capacità di rileggere originalmente. E infine il delizioso intervento “Do you believe in fairies?” che è a sua volta un pezzo di letteratura nel ricostruire l’innervarsi nell’opera di Tolkien di spunti, echi di scoperte archeologiche, dialoghi personali, reinvenzione di figure folkloriche, a dare il senso di una vertiginosa esperienza immaginale e di un panorama culturale densissimo. Chi pretenda oggi di scrivere romanzi “alla Tolkien” (posto che abbia un senso, il sottoscritto dubita) dovrebbe dedicare a queste pagine una ruminazione prolungata.

Una seconda sezione concerne, a proseguire il discorso sulla costruzione narrativa, alcune figure-chiave dell’opera tolkieniana. Si parte con Aragorn, il re che ritorna: il viaggio di un eroe moderno, di nuovo in fitto dialogo con opere letterarie molto frequentate da Tolkien (Beowulf ma non solo) e con sue esperienze personali, per esempio di guerra. Si passa poi a Beorhtnoth – La volontà di uno solo e la sventura di molti – nell’ambito della strana opera che lo riguarda, mix di analisi filologica e invenzione narrativa tessuti attorno a un poemetto medioevale anonimo e mutilo, La Battaglia di Maldon (X-XI sec.), che Tolkien aveva riletto criticamente a smontare una certa retorica bellicista anche contemporanea. Troviamo quindi L’ombra del guerriero: guerra e antimilitarismo nella Terra di mezzo, dove in questione è in generale la figura dell’uomo che combatte, anche se poi si prendono in considerazione i profili specifici di Faramir e dello stesso Frodo. A chiusura, Lúthien e le altre: i personaggi femminili: non molti di numero e non protagonisti (più per motivi letterari legati alla tipologia delle fonti che per un presunto maschilismo di Tolkien) ma di grande interesse. Si pensi a Galadriel, Éowyn, Arwen ma anche all’unico personaggio femminile negativo del Signore degli Anelli, cioè “Her Ladyship” – come la chiamano gli orchi – il mostruoso ragno Shelob.

Un ultimo gruppo di testi affronta temi monografici che hanno visto dibattiti più o meno vivaci. Così La riscossa della Contea o la rivolta moderna riprende la riflessione sulla politica, l’economia (merce, denaro), la categoria-rivolta nelle vicende che portano gli hobbit ad abbattere Saruman; I mostri, gli eroi e i critici demolisce con acutezza il saggio di Alessandro Dal Lago Eroi e mostri: il fantasy come macchina mitologica (il Mulino, 2017) con le sue posizioni appunto semplificanti e superate; Un tomista nella Terra di Mezzo critica con motivazioni condivisibili – ma apprezzamenti anche positivi – gli esiti di un altro saggio, Santi pagani nella Terra di Mezzo di Tolkien di Claudio Antonio Testi (Edizioni Studio Domenicano, 2014), che innova con intelligenza il panorama delle letture cattoliche sull’opera tolkieniana, superando l’approccio confessionistico.

Lascio volutamente in chiusura, forzando l’ordine dell’indice, un cenno all’introduzione. Intitolata un po’ provocatoriamente Il demiurgo reazionario e siglata dalla citazione di una bozza di lettera di Tolkien, “Assegnare ‘etichette’ agli scrittori, vivi o morti, è un comportamento insensato, in ogni circostanza, un passatempo infantile per menti piccine”, eccetera: dove l’autore riprende qualche riflessione del libro precedente sulle banalizzazioni ormai storicamente inaccettabili, da sinistra come da destra, nell’approccio a quella che resta buona letteratura, “cioè quella che attraverso la finzione coglie frammenti di verità”. Banalizzazioni che convergono nell’equivoco, pur offrendo interpretazioni ovviamente diverse.

Affronta quindi il discorso sulla critica alla contemporaneità in Tolkien e sottolinea come l’opera di lui non fornisca mai “risposte didascaliche o fideistiche, ma sempre complesse”: un riflettere sofferto, ma fiducioso sul fatto che le grandi narrazioni possano aiutare a reagire alla perdita di senso del mondo. Da ciò la sua narrativa, dove emerge un’“ostilità per l’industria, il controllo statale, la perdita del rapporto con il paesaggio, il razzismo, la guerra e il militarismo, che sono fenomeni della storia contemporanea” (ciò che stronca una certa sua omologazione facile, fumogena, all’antimodernismo fascistoide). E con una tensione appunto sull’oltre da sé: “Per questo non dovrebbe meravigliare che nell’epoca del pensiero unico e del sé ipertrofico, dominata dall’eterno presente della merce e dalla catastrofe ambientale, quella narrativa continui a ispirare nuovi livelli di lettura”.