di Fabio Ciabatti

In un periodo come quello attuale in cui è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo può essere utile riprendere le parole di Rosa Luxemburg a proposito della rivoluzione:

“non esiste nulla di più inverosimile, di più impossibile, di più fantasioso di una rivoluzione un’ora prima che scoppi. Non esiste nulla di più semplice, di più naturale e di più evidente di una rivoluzione nel momento in cui ha sferrato la sua prima offensiva e ha riportato la sua prima vittoria”.

A partire da queste righe dedicate agli avvenimenti russi del 19171 si potrebbe dire, utilizzando un linguaggio che non appartiene alla Luxemburg, che la rivoluzione si configura come evento. Cos’è un evento? Seguiamo Badiou. Si tratta di un immanente rovesciamento delle leggi dell’apparire che ha come conseguenza di far esistere in una data situazione un termine prima inesistente. Si tratta, in altri termini dell’imprevedibile inizio di una rottura che si impone su tutti gli elementi che contribuiscono a creare la sua esistenza.2 Detto in modo ancora diverso, un evento è ciò che porta alla luce nuove possibilità che prima erano invisibili e addirittura impensabili. Non è in sé stesso la creazione di una nuova realtà, ma soltanto la creazione di una imprevista possibilità, ponendo in essere nuove soggettività e dando il via ad una serie di avvenimenti che aprono una nuova sequenza storica.3

Come noto il pensiero della Luxemburg è stato spesso accusato di spontaneismo. Però, se si può applicare, almeno in parte, la categoria di evento alla sua opera, allora parlare di spontaneismo non è la cosa più appropriata. Certo l’autrice contrappone spesso l’attività spontanea delle masse e la loro capacità di innovare la prassi politica all’inerzia e alla funzione frenante del partito e del sindacato. Ma se volessimo parlare in senso proprio di spontaneità dovremmo presupporre un tipo di comportamento che appartiene ad un soggetto come suo necessario attributo. Nel mettere in atto questo modo di agire il soggetto dovrebbe rimane identico sé stesso. Quello che compare nello sciopero di massa e nella rivoluzione si configura, invece, nello spirito della Luxemburg, come un vero e proprio “termine nuovo”. Il soggetto proletario si trasforma profondamente nel corso dell’evento rivoluzionario negando quell’incapacità di autogoverno delle masse sostenuta tanto dal socialdemocratico Kautsky quanto dal bolscevico Lenin, concordi nell’affermare che il socialismo va portato alla classe operaia dall’esterno. Attenzione però. Per la Luxemburg allo scoppio della rivoluzione non compare istantaneamente un soggetto bello e pronto per impadronirsi del potere e instaurare il socialismo. La rivoluzione rende visibile questa possibilità “estirpando dalle radici … lo spirito schiavistico” proprio della disciplina “inculcata dallo Stato capitalistico”.4 In sintesi, la rivoluzione fa parte del costituirsi del soggetto.

Non esiste, in altri termini, un soggetto che nella sua conformazione prerivoluzionaria sia in grado di innescare e portare avanti un’azione rivoluzionaria. Non esiste, cioè, un termine che, mantenendosi identico a se stesso, possa costituire la mediazione tra il prima e il dopo. E questo vale tanto per il soggetto sociale, il proletariato, quanto per il soggetto politico, il partito. Per questo non è raffigurabile una prassi/processo che per mero accumulo possa costituire la transizione da un periodo “normale” a uno rivoluzionario.
Una simile tematica è in continuità con quanto sostenuto da Marx: “la rivoluzione non è necessaria soltanto perché la classe dominante non può essere abbattuta in nessun’altra maniera, ma anche perché la classe che l’abbatte può riuscire solo in una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e a diventare capace di fondare su basi nuove la società”.5

Torniamo a Rosa Luxemburg. “La prassi del socialismo esige una totale trasformazione dello spirito delle masse degradato attraverso i secoli di dominio della classe borghese”. Ciò che accade nella tormenta del periodo rivoluzionario è appunto il fatto che il proletario si modifica “da padre di famiglia prudente”, a “romantico della rivoluzione”.6 In sintesi secondo la rivoluzionaria polacca il soggetto proletario prima dello scoppio rivoluzionario si presenta come degradato, polverizzato, sbriciolato, dominato, egoista, prudente, passivo; dopo, svegliato improvvisamente da una sorta di scossa elettrica, si trasforma in un soggetto unitario, attivo, solidale, idealista, insofferente verso le sue catene. Attraverso l’unità e la perfetta reciprocità di lotte economiche e lotte politiche, per mezzo della politicizzazione dei bisogni immediati della vita quotidiana il proletariato diventa in grado di “sentire immediatamente come questione generale, come faccenda di classe ogni questione di un qualunque piccolo gruppo di operai e di reagire istintivamente come un tutto”.7
Se questo scarto vale per il proletariato, possiamo invece invocare l’esistenza dell’organizzazione politica come elemento mediatore che rimane identico a se stesso prima e dopo il periodo della tormenta? Secondo Rosa Luxemburg la funzione del partito nei periodi rivoluzionari soggiace intrinsecamente a forti limitazioni. Il partito non può stabilire l’inizio della rivoluzione: troppo complessi sono i fattori che portano da un conflitto singolo a un’esplosione generalizzata. Ma c’è di più. Il partito non può, in senso proprio, dirigere una rivoluzione perché un programma, anche il migliore, può contenere solo indicazioni generali di carattere essenzialmente negativo e non la miriade di provvedimenti positivi per introdurre elementi di socialismo nei rapporti sociali. Siamo lontani dalla convinzione di Lenin per il quale “La dottrina di Marx è onnipotente perché è giusta”.8
E’ vero che il rapporto tra masse partito nei diversi scritti subisce delle oscillazioni. Ripetutamente la Luxemburg sostiene che la socialdemocrazia deve prendere la leadership politica durante un periodo rivoluzionario. In altri brani si sottolinea invece la capacità del movimento di massa di creare la propria organizzazione nel corso degli eventi rivoluzionari. In ogni caso “l’iniziativa e la direzione non consistono nel comandare a freddo, ma nell’adattamento più accorto possibile alla situazione e nel contatto più stretto possibile con le disposizioni della massa”.9
Una cosa è però certa: le organizzazioni della classe operaia sono soggette a una necessaria dialettica che vede la costante tensione tra un riformismo di massa e un’ortodossia settaria. Le deviazioni opportunistiche, infatti, “non scaturiscono dal cervello degli uomini ma dalle condizioni sociali”,10 e per questo non possono essere evitate ma solo superate. Il socialismo “non si afferma automaticamente in ogni circostanza della lotta quotidiana della classe operaia”.11 Le organizzazioni della classe operaia si modellano sull’attività ordinaria finendo per acquisire un ruolo conservatore che si esplica nel rielaborare di continuo le piattaforme già acquisite. L’organizzazione da mezzo diventa fine che, per autoconservarsi, favorisce la cieca obbedienza delle masse e la direzione di un ceto di professionisti, mentre viene messa a rischio dalla mobilitazione rivoluzionaria delle masse.
Simili conclusioni potrebbero essere contestate se si potesse ipotizzare una catena continua di riforme che porta al socialismo. Cosa che la Luxemburg nega recisamente. Se è vero che la crescente socializzazione dell’economia capitalistica contiene in nuce elementi di socialismo, è altrettanto vero che questi elementi si manifestano attraverso l’esasperazione di antagonismi di classe e l’inasprimento del carattere classista dei rapporti giuridico-politici. La borghesia, sostiene l’autrice, rinnega la democrazia non appena diventa permeabile alle istanze popolari.
Al contrario, per il proletariato salito al potere la democrazia è un elemento vitale. “La democrazia socialista non comincia solo nella Terra promessa, dopo che è stata creata la sottostruttura dell’economia socialista, non è un regalo natalizio bello e pronto per il bravo popolo che nel frattempo avrà fedelmente sostenuto un manipolo di dittatori socialisti. La democrazia socialista …. comincia nel momento della presa del potere da parte del partito socialista”.12 Ma se quello che abbiamo fin qui detto è vero né le masse né il partito possono essere pronti per la rivoluzione prima della rivoluzione. Questa dunque, quando scoppia, è sempre “prematura”. Durante una rivoluzione bisogna sempre spingersi avanti, non indugiare a metà strada altrimenti ci si consegna alla reazione. Affinché ciò sia possibile è necessario preservare quella libertà che è sempre libertà di chi la pensa diversamente. Non si tratta di “fanatismo della ‘giustizia’”,13 ma della convinzione che l’aspetto creativo, soprattutto durante una periodo rivoluzionario, è appannaggio delle masse. La rivoluzione proletaria può procedere soltanto attraverso sperimentazioni, errori, sconfitte.

L’insistenza della Luxemburg sulla capacità di avanzare attraverso le sconfitte mette in evidenza un elemento di continuità che va ad integrare il carattere evenemenziale della rivoluzione. Esiste un legame tra le diverse esplosioni rivoluzionarie anche se sono separate da periodi di apparente calma o di reazione. Con un’osservazione dal tono benjaminiano la rivoluzionaria polacca afferma: “Tutte le infinite sofferenze del proletariato moderno rievocano il ricordo delle vecchie sanguinanti ferite”.14 Viene qui evocato un vissuto collettivo proprio degli sfruttati, una memoria latente degli oppressi, un sostrato comune dal quale possono avviarsi percorsi condivisi di trasformazione soggettiva. Tutto ciò risulterebbe impensabile se non si presupponesse una rigidità dei rapporti sociali di produzione tale da rendere possibile un sentimento, per quanto vago, di un comune destino, una percezione condivisa dell’impossibilità di sottrarsi ai rapporti di sfruttamento e oppressione.
E’ questa stessa rigidità dei rapporti sociali di produzione che giustifica anche la necessità della rivoluzione. Ma necessità non significa inevitabilità. La rivoluzione è necessaria soltanto nella misura in cui si vuole evitare di cadere nel baratro cui ci conduce inerzialmente lo sviluppo capitalistico. Il capitalismo, infatti, tende al crollo una volta assorbite le aree non capitalistiche. Il crollo economico è però soltanto un punto logico di approdo, prima arriva la barbarie dell’imperialismo e della guerra, strumenti necessariamente utilizzati dalla borghesia per ritardare l’arresto dell’accumulazione capitalistica. In altri termini l’unica certezza che non può essere messa in discussione è l’alternativa tra socialismo e barbarie.

In conclusione veniamo ai nostri giorni per sottolineare il fatto che la richiamata impossibilità di pensare la fine del capitalismo non potrebbe presentarsi con tanta forza se non si accompagnasse alla radicata convinzione relativa all’incapacità di autotrasformazione dei soggetti potenzialmente interessati a tale fine. Al massimo, in una logica populista, si riesce a pensare ad una sommatoria di rivendicazioni portate avanti da gruppi sociali che rimangono essenzialmente separati, chiusi nel particolarismo delle rispettive identità. Pensiamo ad una parola d’ordine come “prima gli italiani”. Ti manca la casa, sei disoccupato, ti sfruttano sul lavoro: ognuno può interpretare questa parola d’ordine pensando alla sua situazione particolare proprio perché si tratta di una parola d’ordine vuota. L’identificazione di una causa fittizia dei problemi sociali permette di prefigurare cambiamenti per i quali non è necessario modificare i rapporti di forza tra capitale e lavoro, rivendicare alcun cambiamento nella distribuzione della ricchezza tra le classi, invocare alcun nuovo indirizzo di politica economica. E di conseguenza l’unità costruita attraverso questo significante egemonico vuoto non richiede alcuna effettiva mobilitazione, tanto meno la concreta solidarietà tra i gruppi portatori di differenti istanze rivendicative. E’ sufficiente un leader carismatico.
E’ possibile utilizzare questo schema coniugandolo a sinistra, come vorrebbero due autori quali Laclau e Mouffe? Tale possibilità riposa sull’idea che una simile sommatoria di interessi possa modificare i fondamentali rapporti di forza nella società. Ma affinché ciò sia possibile occorre interpretare i rapporti sociali di produzione come estremamente elastici. Da questo punto di vista, non esistono, in senso proprio, meccanismi cogenti di funzionamento del sistema. Esisterebbero soltanto delle combinazioni contingenti di interessi dei diversi gruppi politico-sociali che possono dare luogo a configurazioni estremamente differenziate e modificabili. In questa ottica, l’articolazione dei gruppi sociali è per sua natura frammentaria, determinata da una logica tutta politica. Non esisterebbe dunque un sistema in senso proprio che possa configurare un principio di continuità tra i gruppi sociali subalterni, un sistema che possa obbligare gli oppressi e gli sfruttati a un salto di qualità nella loro capacità di confliggere con l’ordine esistente in ragione dei limiti connaturati alle possibilità di trasformazione interne al sistema stesso.

Solo se si riconosce una necessità socialmente determinata, le leggi di sviluppo del capitalismo, diventa ipotizzabile un evento che apre nuove possibilità. Se tale necessità non viene riconosciuta le possibilità sembrano già essere tutte aperte, senza bisogno di modificare alcunché della sostanza dei comportamenti sociali quotidiani. Ma il fatto di non riconoscerla non significa che non esiste. Per questo credo che occorra ancora indagare, sulla scia di Rosa Luxemburg, come il particolare (il singolo conflitto) si possa sollevare al livello dell’universale (lo sciopero generale) attraverso una prassi che trasforma e unisce i soggetti coinvolti, piuttosto che mettersi alla ricerca di un universale (il significante egemonico) che possa essere rabbassato al livello del particolare (la singola rivendicazione) attraverso un’operazione ideologica che lascia inalterati, separati e passivi i soggetti coinvolti. La seconda via potrà forse sembrare più semplice, ma configura comunque una strategia di presa di potere dall’alto. Rosa Luxemburg invece suggerisce una via diversa: “conquistare il potere politico non dall’alto ma dal basso”.15 Oggi potrà sembrare impossibile e fantasioso, domani potremmo considerare questa via come qualcosa di semplice e naturale.

[L’articolo pubblicato è la relazione tenuta in occasione del convegno “Rosa Luxemburg … la rosa rossa era, è e sara”, organizzato a Roma il 25 maggio dal gruppo Devianze, attivo all’interno dei COBAS Lavoro Privato. Il medesimo gruppo sta organizzando un secondo appuntamento dedicato alla rivoluzionaria polacca per Ottobre 2019, sempre a Roma. Al momento hanno confermato la partecipazione: Chiara Giorgi (docente di Storia delle istituzioni politiche) e Maria Turchetto (docente di Storia del pensiero politico).]


  1. Rosa Luxemburg, La rivoluzione russa, Prospettiva, Roma 1997, p. 18. 

  2. Su questo tema si può per esempio vedere, tra i tanti testi di Alain Badiou, L’ipotesi comunista, Cronopio, Napoli 2011 e, in particolare il capitolo III, “La Comune di Parigi: una dichiarazione politica sulla politica”. 

  3. Per una sintesi sul pensiero di Alain Badiou cfr. il libro intervista Philosophy and the Event, Polity Press 2013. 

  4. R. Luxemburg, “Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa”, in Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 224. 

  5. Karl Marx, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 29. 

  6. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, in Scritti politici, ed cit. p. 335. 

  7. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed cit., p. 346. 

  8. Lenin, “Tre fonti e tre parti integranti del marxismo”, in Marx, Engels e il marxismo, Newton Compton Editori, Roma 1973, p. 75. 

  9. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed. cit., p. 334. 

  10. R. Luxemburg, “Problemi di organizzazione della socialdemocrazia russa”, ed. cit, p. 235. 

  11. R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, Prospettiva, Roma 1996, pp. 45-46. 

  12. R. Luxemburg, La rivoluzione russa, ed. cit, p. 68. 

  13. R. Luxemburg, La rivoluzione russa, ed. cit, p. 68. 

  14. R. Luxemburg, “Sciopero di massa, partito e sindacati”, ed cit., p. 315. 

  15. R. Luxemburg, “Discorso sul programma”, in Scritti politici, ed. cit., p. 630.