di Walter Catalano

Leopoldo Santovincenzo, La balena di Piazza Savoia. L’immaginario che avevamo in dote, Exorma Edizioni, Roma, 2017, pp. 288, € 16,50

Un po’ detective e un po’ critico cinematografico, un po’ gothiano Wilhelm Meister che traccia i suoi anni di apprendistato dalla periferia provinciale fino al centro del mondo, un po’ Achab melvilliano a caccia di fantomatiche balene, Leopoldo Santovincenzo, con questo suo originalissimo e inclassificabile romanzo-saggio si muove funambolicamente tra i generi, in equilibrio tra la memorialistica autobiografica, l’inchiesta giornalistica di costume, il mystery d’indagine e la teoria critica del cinema.  Non ci vengono in mente antecedenti per questo affascinante tour de force letterario; in parte – per altro lucidamente riconosciuti e citati dall’autore fra i riferimenti finali del post-scriptum – possono averlo ispirato le Confessioni di un mangiatore di film dallo Schermo delle mie brame (1978), del troppo presto scomparso Enzo Ungari, e le novelle feticistiche sull’infanzia e sulla memoria di Michele Mari, da Euridice aveva un cane e Tu, sanguinosa infanzia, ma, a parte questi accostamenti espliciti, il libro resta davvero un unicum.

Tutto comincia al principio degli anni ’70 (o forse alla fine dei ’60?) a Campobasso, in piazza Savoia, il luogo in assoluto più incongruo per favorire l’incontro di un bambino e di una balena : ”La pelle grigio scuro a tratti si scioglieva degradando in un bianco sporco e ingiallito come pagine di un libro ammuffito. Ho sfiorato i fanoni, lunghi, secchi e sfilacciati. Sono così fitti perché devono trattenere il plancton, l’ho letto su un libro illustrato. L’odore è denso, salato di salmastro e disinfettante. Naturalmente è morta anche se sul momento non ci ho pensato. Sta facendo l’estremo viaggio prima di decomporsi per sempre, mesto tour di periferia o forse funerale lento del più grande mammifero di tutti i tempi.”.  Il ragazzino, conserva un ricordo vivido e numinoso dell’evento: non sospetta certo di aver appena avuto un’epifania in senso joyciano.

Più tardi un giovane uomo ricorderà il lontano episodio: l’ha sognato o l’ha vissuto davvero? Si tratta forse di un ricordo artificiale come l’unicorno di Blade Runner?Il problema è che nessun altro sembra essersene accorto, nessuno sembra ricordare il passaggio di una balena a Campobasso”. Il detective allora si mette in moto, coltiva negli anni la sua ossessione privata, parte dai coetanei e dai familiari e allarga l’inchiesta, cerca indizi nella memoria personale e in quella collettiva, tracce, materiali, documentazione; e, tassello dopo tassello, con tetragona e paziente lentezza, giunge a ricostruire il puzzle, lo scenario originario: il viaggio – surreale e onirico quanto si vuole ma tutt’altro che immaginario – di una balena sotto formalina, trasportata da un camion ed esibita a pagamento come in una fiera ottocentesca: quasi estrema, innocente, propaggine dei famigerati freak-show in cui gli sfortunati fratelli di John Merrick, The Elephant Man, e dei Pinheads di Todd Browning (“Gabba gabba, we accept you, we accept you, one of us !”) venivano esposti alla malsana curiosità del pubblico.

Ma il percorso personale diventa ricerca storica, e le balene, postume pellegrine, in realtà, si rivelano essere due diverse: s’incrociano infatti attraverso i capitoli le storie parallele di Goliath, che viaggia per un quarto di secolo sulle strade d’Europa, oltre la Cortina di Ferro e fino in Grecia e Israele, per poi sbarcare a Bari dove inizia  il suo tour nell’Italia degli anni ’70; e Jonas, animale fenomeno, lungo 24 metri, 58.000 kg di peso, al cui interno è stato inserito un frigorifero a dinamo per evitarne la putrefazione, che da Torino giunge in Svizzera, passando per Milano, dopo aver attraversato la Norvegia, la Germania, l’Olanda, il Belgio e la Francia. Una balena a sud e una a nord accerchiano, sottomarine e tacite, i sogni e l’immaginario di un’intera generazione.

E così, nel suo percorso tortuoso e concentrico che accompagna l’altrettanto tortuoso percorso della generazione che oggi – anno più, anno meno – ha passato da non troppo i ’50, la balena reale diventa, anche e forse soprattutto, balena metaforica: come Giona e come Pinocchio, anche il nostro detective viene inghiottito nel ventre della bestia, caverna onirica e luogo magico della fantasia: il suo buio denso di sogni si trasforma nella sala cinematografica, “quel vortice luminoso in cui si rincorrevano polvere, colori e fumo di sigarette”, e mostra al bambino di provincia, già sprofondato nell’agonia postuma della balena, la fulgida apoteosi e la lenta agonia del cinema popolare. Nel pellegrinaggio tra Godzilla e King Kong, tra kung fu e wuxiapian, tra Franco e Ciccio e Charles Bronson, annotando maniacalmente i titoli e le date di visione dei film fin dalla più tenera età, il novello cinefilo cresce e si muove dalla periferia verso il centro, dalla provincia verso la Capitale, dall’infanzia verso l’età adulta, per giungere a Roma insieme a Goliath, o forse a Jonas, in contemporanea con Guerre stellari.

Di lì a poco il bambino è ormai diventato adulto, il cinema non è più il Cinema, la balena è scomparsa, putrefatta o cremata, e tutta una generazione già non ha trovato le risposte che cercava, per sovrappiù avendo perso anche “l’immaginario che aveva in dote” – come suona il sottotitolo del libro – in un paese ormai incapace di stupirsi o di commuoversi per una balena imbalsamata, o per un sogno di celluloide.

Frammenti autobiografici, scenari provinciali, istantanee di famiglia, schizzi di personaggi dimenticati e inattuali – il casereccio magic-bus di Herbert Pagani che approda a Campobasso, un autostoppista inglese raccattato sull’autostrada, il domatore di orsi tedesco di un piccolo circo di periferia, crepuscolari fratelli di Goliath e di Jonas – popolano gli interstizi del rapsodico percorso mentre si susseguono le epifanie. La visione della scritta “Dante Di Nanni è vivo”, su un muro nel quartiere romano di Prati, è un’incognita svelata anni dopo dalla lettura di Senza tregua di Giovanni Pesce – filo rosso dai Gap all’extraparlamentarismo degli anni ’70 – e con il ricordo parallelo di un film visto all’Ariston in cui Giuliano Gemma interpreta il partigiano Silvio Corbari, conduce all’amara riflessione:  ”…viene da pensare a come sia cambiata la scena sociale al centro dei film italiani. Ho provato a fare una piccola ricerca. Tra il 1967 e il 1971 sono protagonisti contadini, operai, muratori, barbieri, fioraie, prostitute, bagnini, emigrati, pizzaioli, venditori ambulanti, pretini di campagna, ragionieri, sottoproletari. Quando lo sguardo si volge al passato ecco apparire alla ribalta partigiani, manovali anarchici, briganti, peones, pirati anticolonialisti. Sfido, frugando tra le produzioni italiane degli ultimi anni, a trovare una simile galleria. In compenso troverete manager, architetti, bancari, avvocati, imprenditori, broker, ingegneri, medici – meglio se primari – scrittori o sceneggiatori in quantità, professori, studenti di buona famiglia… Insomma, per figurare in società, almeno in quella cinematografica italiana, il proletario deve essere giovane, carino, pulito, umile, rispettoso, parlare con lieve accento dialettale, meglio se toscano che fa ridere, non avere troppi problemi economici, vestire con gusto, pazienza se non è firmato. Appena un gradino più giù e diventa immediatamente il coatto, rumoroso, volgare, griffato in stile periferia, ignorante, teledipendente, sguaiato,, sempre col cellulare in mano, che è poi il modo in cui i cineasti borghesi esprimono la loro paura del contagio marcando la differenza e amplificando l’orrore. In mezzo, incredibilmente, non c’è niente. Per vedere un operaio civile, incazzato, orgoglioso bisogna aspettare i collegamenti dalle fabbriche di alcuni programmi di informazione giornalistica… “.  L’oblio di una balena misura la distanza fra Claudio Caligari e Paolo Sorrentino, fra Amore tossico e La Grande Bellezza… solo un’esempio fra i tanti.

E lungo il percorso, sull’onda di analoghe riflessioni, storia personale e locale, allegoria molisana e anamnesi metafilmica, prospettano una storia che non riguarda solo il protagonista e solo Campobasso: “Come abbiamo potuto smarrire la memoria di Goliath? Dimenticare la balena è stato il peccato originale del Molise…” – conclude Santovincenzo; ma non si sta parlando anche di noi tutti? Non è forse l’Italia intera oggi, persa in un identico oblio, ad essersi miseramente ridotta solo a “una provincia senza immaginazione”? Un paese senza passato e dunque senza futuro.

Leopoldo Santovincenzo è programmista e regista a Rai 4 dove ha realizzato e condotto tra il 2011 e il 2015 il format dedicato al cinema di genere Wonderland ed è autore di varie produzioni televisive e testi di critica televisiva e cinematografica, tra i quali Fantasceneggiati,  scritto con Carlo Modesti Pauer e qui recensito qualche tempo fa.