di Antonio Merola

Era il 1957: Miti d’oggi di Roland Barthes infligge alla cultura Occidentale una ferita al costato.
Il cervello di Einstein, un incontro di pugilato, la nuova Citroën; e poi ancora, l’astrologia, lo strip-tease, il Tour de France: l’alto e il basso, il sublime e il massificante, in breve ogni elemento di ciò che viene definito Cultura viene a mancare della propria essenza: il significato.
L’occhio di Barhes caratterizza invece l’operare umano, nel suo insieme, come un operare espressivo, dove per espressività si intende l’essere, per ogni elemento culturale, significante di un significato più ampio: la struttura di base. L’autonomia essenziale, in poche parole, va a farsi fottere, danneggiando drasticamente, se si vuole allargare il campo d’indagine dall’opera all’operatore, l’io, o l’idea di uomo. L’essere umano, quindi.

Oggi, sappiamo che il Cogito ergo sum non basta più. Il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Saussure ci ha insegnato che il linguaggio è arbitrario e ci hanno insegnato poi, a partire dagli studenti che per primi registrarono e trascrissero la Voce del Maestro, che una tale affermazione è verificata e verificabile in ogni suo aspetto cognitivo. Saussure non era un tipo da corbellerie, insomma. E le conseguenze di un tale pensiero ci portano subito alla scuola strutturalista e quindi, a Roland Barthes, o meglio, anche a Roland Barthes. Perché tutto ciò che viene dopo Saussure, in ambito critico, si basa proprio su un tale assioma: non è sulla scoperta della struttura, o di una struttura, ma sulla qualità della struttura, su cui si focalizza realmente l’attenzione; ovvero, in una critica negativa alla struttura, come nel femminismo, negli studi Queer, nel marxismo, o in una positiva, come nell’egemonia culturale capitalista. Non dovrebbe meravigliare, infatti, che alla base del pensiero umano vi sia una struttura, una qualsiasi struttura, che è presente anche nelle azioni più banali, nella quotidianità tutta, anche nel modo in cui un soggetto si appresta all’uso del bidet.

Ma, nel mare della consequenzialità, gli effetti non si manifestano sempre in maniera esplicita, come ci piacerebbe credere.

Torniamo per un attimo a quanto detto sopra: il pensiero umano è, in ogni sua forma, pensiero strutturato. Lo è, in quanto espressione del linguaggio, che a sua volta viene visto da Saussure come arbitrario. Bene; riassumendo, quindi, il linguaggio dell’animale umano è struttura arbitraria. Ma, quando parliamo di linguaggio, parliamo di lingue. E nel mondo, ad oggi, ne esistono più di seimila.
Eppure, benché l’ipotesi, anzi, l’affermazione, perché verificata e verificabile, di Saussure, l’affermazione di base quindi, è accettata e condivisa dai più, un’altra affermazione, questa sì ancora allo stato di ipotesi, ovvero quella della relatività linguistica di Sapir-Whorf, secondo cui il pensiero umano, e il modo in cui esso si esprime, è determinato, e non mediato, dalla lingua che il pensante si trova per nascita, o per apprendimento secondario, a parlare, trova difficoltà a essere dimostrata.

Banalizzando, potremmo dire che se il parlante A è inglese, il parlante A penserà in inglese, come un inglese, e così via per ciascuna delle seimila lingue del mondo.

La differenza tra Saussure e Sapir-Whorf non sta nel concetto di arbitrarietà: per il primo il linguaggio, per i secondi le lingue, sono entrambi un qualcosa di arbitrario; la differenza è invece nell’ipotesi che il pensiero sia, per i secondi, o non sia, almeno in modo diretto, per il primo, espressione del linguaggio. Soltanto se si prende l’affermazione di Sapir-Whorf come tale, e non come una mera ipotesi, si può arrivare logicamente ad affermare che il pensiero umano è strutturato. Questo perché verrebbe dimostrata la subordinazione tra pensiero e linguaggio, il nodo inestricabile. Ma finché ciò non viene dimostrato, noi avremo da un lato il pensiero, dall’altro il linguaggio, che è sì arbitrario, ma solo uno degli strumenti con cui l’uomo è in grado di esprimere se stesso. E, stiamo attenti, con linguaggio non si intende qui solo il linguaggio parlato; perché, a ben pensare, ognuno di noi, nel dialogo intimo con se stesso, parla in modo silenzioso, pensa costruendo linguisticamente il proprio pensare. In sostanza, non è con i grugniti che noi pensiamo, ma con parole ben precise, anche se non pronunciate. E già questo, sembrerebbe una constatazione a favore dell’ipotesi Sapir-Whorf.

Ma, poniamo per assurdo, anzi, realmente, visto che si tratta di un’ipotesi, che i nostri Sapir-Whorf non avessero ragione. Capovolgiamo il nostro enunciato: non più il pensiero come espressione del linguaggio, ma il linguaggio come espressione del pensiero. Siamo davanti a un dato di fatto, dove vedremmo annuire sicuro anche il docente Saussure. Ma siamo davanti, anche, a un uso del linguaggio come strumento, medium del pensiero. Peraltro, difettoso per il suo stesso fatto di essere arbitrario. Ovvero, anche se accettassimo l’affermazione capovolta di cui sopra, il linguaggio come espressione del pensiero, e non viceversa, ci troveremmo di fronte comunque a un’espressività mediata da uno strumento arbitrario per sua natura, e quindi a un’espressività fallace. Non è quindi il linguaggio che può esprimere l’umano nella sua essenza, la purezza del pensiero non mediato.

Eppure, non confermando l’ipotesi Sapir-Whorf, il pensiero resta comunque dato come altro, situato in un altrove da ricercare. Un’essenza, quella umana, che trascende il linguaggio, che si pone quindi prima del linguaggio e che non ne ha, necessariamente, bisogno. Verrebbe da pensare che anche questa volta i greci avessero ragione; verrebbe da pensare a Platone, dove l’altrove si conforma nell’Iperuranio, nel mondo delle Idee preesistenti…

Oppure, messo il pensiero in una condizione di impeachment, si potrebbe spostare l’attenzione nel sentire, il sentire come espressione dell’umano nella sua purezza, senza mezzi termini, senza mediazioni. Certamente, così era per l’uomo primitivo – dove, con primitivo non si intende necessariamente inferiore a livello cognitivo, quanto, semplicemente, l’uomo delle origini. Ma oggi, è davvero così che stanno le cose? Prendiamo per esempio il sentimento dell’ira, nella sua massima espressione, l’ira funesta e furibonda. Il sentire si manifesta prima ancora del linguaggio: un uomo delle origini sente, dentro di sé, un sentimento di furia. Lo stesso uomo delle origini non è ancora in grado di parlare. Sente quindi l’ira, ma non la definisce come tale. L’uomo del nuovo millennio, invece, vede il proprio sentire continuamente violentato dal linguaggio. Anche l’uomo del nuovo millennio, come il primo, sente la collera; ma egli sa, a differenza del primo, e grazie al primo, che quel sentimento di collera che lo brucia altro non è che il sentimento dell’ira; allo stesso modo, egli riconosce le altre emozioni, le sente e le definisce nello stesso momento, ne prende coscienza attraverso il linguaggio.

Inoltre, l’uomo del nuovo millennio transita anche per un individualismo mancato. Intendo dire che l’uomo primitivo non era a conoscenza della definizione di ira, ma sentiva l’ira, e che, tuttavia, è proprio l’uomo primitivo ad aver definito il sentimento dell’ira, perché, seguendo il principio di uguaglianza, più uomini avevano riconosciuto che un determinato sentire, che si ripeteva più volte nella propria vita, si ripeteva più volte anche nella vita dell’altro; un sentire comune, quindi, che lo ha portato a denominare un’emozione comune. L’uomo del nuovo millennio, invece, ha già di per se stesso un’intera gamma di emozioni definite, sa che X corrisponde all’ira tanto quanto Y corrisponde alla gioia, ma sa anche, anzi ritiene, che il proprio X o la propria Y, benché ira e gioia, si manifestino in lui, nel suo io intendo, diversamente dall’altro; che X e Y abbiano, in definitiva, una sfaccettatura personale che si distacchi dal principio di uguaglianza, ma che, tuttavia, e per questo lo chiamo individualismo mancato, non si ricrea, ovvero non si riconosce in una nuova definizione, non si ri-definisce, non si ri-nomina, se non, in rari casi, attraverso l’espressione artistica, a sua volta espressione, in casi ancora più rari dei primi, di ciò che fa l’uomo, l’uomo.


[Antonio Merola, classe 1994, è laureato in Lettere Moderne all’Università La Sapienza di Roma. Sue poesie inedite sono apparse su Atelier, Poetarum Silva, PageArte, Euterpe e nel Poetico Diario (LietoColle, 2017). Collabora o ha collaborato con con Altri Animali, (Racconti Edizioni), Flanerì, Lavoro Culturale e Culturificio. È cofondatore di YAWP: giornale di letterature e filosofie, per il quale ha curato inoltre la raccolta poetica L’urlo barbarico (A. V., Le Mezzelane, 2017) – recensione su Carmilla. Ha pubblicato sotto pseudonimo assieme a Iuri Lombardi la raccolta di racconti Il Vice Presidente venne dopo sette secondi, (2016) – ght]