di Armando Lancellotti

Nicola Labanca, Caporetto. Storia e memoria di una disfatta, il Mulino, Bologna, 2017, pp. 239, € 19,00

L’ultimo libro dello storico Nicola Labanca, recentemente uscito presso il Mulino, tratta di una delle numerose ricorrenze storiche centenarie di questo 2017 e più precisamente di quell’avvenimento che sul piano internazionale e della storia mondiale ebbe sicuramente un impatto minore di altri contemporanei eventi epocali, quali le rivoluzioni russe di febbraio (marzo) e ottobre (novembre) o l’entrata degli Stati Uniti nella Grande Guerra (aprile), ma che per la storia italiana rappresentò un punto di non ritorno ed un trauma nazionale profondo che fece sentire i suoi effetti per un lungo periodo di tempo successivo alla sua conclusione: la battaglia, la disfatta e la rotta di Caporetto del 24 ottobre 1917.

Lo studio di questa pagina così determinante della storia italiana del ‘900 viene affrontato dallo storico e docente dell’Università di Siena in un saggio volutamente più “agile” e “snello” delle ponderose monografie già disponibili sull’argomento e/o di recente e quasi contemporanea uscita ed attingendo cospicuamente ad un materiale di archivio tanto ricco quanto spesso poco considerato dagli studiosi nei cento anni che ci separano dai giorni dell’attacco austro-ungarico e tedesco alle linee italiane sull’alto Isonzo: i verbali di centinaia di interrogatori di semplici soldati, sottufficiali, ufficiali ed alti ufficiali compiuti dopo la guerra da una apposita Commissione di inchiesta, di cui sono stati spesso esaminati – ricorda Labanca – i due volumi della Relazione finale, ma non tutte le carte e tutto il materiale dalla Commissione raccolti.

Come già nel libro scritto e curato qualche anno fa insieme a Oswald Überegger sulla guerra italo-austriaca [su Carmilla], Labanca intraprende strade di ricerca più originali e meno praticate di altre, riuscendo a ricomporre in sole duecento pagine un quadro della disfatta di Caporetto completo, ricco di spunti per successivi approfondimenti e scritto con una prosa efficace e piacevole.

Labanca prende a prestito dallo storico militare inglese John Keegan il concetto di “nebbia di guerra”, che efficacemente spiega come per il soldato che combatte la percezione di ciò che accade in battaglia sia qualcosa di confuso, di caotico ed impreciso, essendo il combattente totalmente preso dalla preoccupazione per la propria sopravvivenza, dallo scompiglio della battaglia, dall’impressione provocata dal sangue e dalla morte che lo circondano e lo incalzano. La sua visione delle cose è come quella di chi osserva la realtà a sé circostante avvolta da una fitta nebbia o di chi fissa un oggetto da una prospettiva troppo ravvicinata. Trascende, quindi, le possibilità del soldato direttamente coinvolto nello scontro la comprensione d’insieme della battaglia e a maggior ragione della guerra nel suo complesso; ma l’effetto della “nebbia di guerra” si produce anche per chi comanda la truppa e pure per gli alti ufficiali, che, anche se non partecipano direttamente alla battaglia armi in pugno e la osservano da una diversa prospettiva, spesso non ne colgono però il senso complessivo; anche la loro è una prospettiva “annebbiata” e parziale.

Questo concetto, sostiene Labanca, si può certamente applicare ai soldati italiani coinvolti nella battaglia e nella rotta di Caporetto, dal 24 ottobre fino al 9 novembre 1917, quando l’esercito riuscì a riorganizzare una linea difensiva lungo il Piave, «di essa i combattenti, e spesso i comandanti, conoscevano quello che vedevano, ma avevano difficoltà a raffigurarsi l’insieme» (p. 9).

Per diradare questa nebbia occorre – come sempre richiede il lavoro storiografico – la presa di distanza dall’oggetto, la ricostruzione del quadro complessivo, la composizione delle differenti prospettive, l’accumulo di riflessioni, analisi e studi e la considerazione delle loro diversificazioni e stratificazioni nel corso del tempo. L’idea dell’autore è allora quella di pensare Caporetto a cent’anni di distanza, prima considerando l’infittirsi di quella coltre di “nebbia di guerra” che calò sul tratto di fronte dell’alto Isonzo tra Plezzo e Tolmino e non solo nei giorni della sconfitta, della rotta e della ricostituzione della linea difensiva sul Piave, ma anche per molto tempo ancora dopo la battaglia, per poi procedere al diradamento di quelle brume, reso possibile dal lavoro di un secolo di storiografia.

La prima interessante parte del volume è dedicata proprio alla lettura, all’ascolto, delle tante voci dei protagonisti della battaglia e della rotta di Caporetto – i militari – attraverso il materiale della Commissione di inchiesta. Ne esce un quadro estremamente ricco e diversificato di punti di vista, percezioni e giudizi sull’accaduto, articolato per differenze di grado gerarchico, per estrazione sociale, per istruzione e cultura, per orientamento politico e per livelli di consapevolezza molto eterogenei, sia della battaglia di Caporetto in particolare, sia della guerra italiana ed internazionale nel suo complesso.

L’unico che in quelle convulse giornate sembrò non avere dubbi sulle ragioni dell’accaduto fu Luigi Cadorna, il Comandante supremo delle forze armate italiane, che già il 28 ottobre divulgò un comunicato a tal punto sconcertante che il governo cercò di correggerlo e di edulcorarlo in una seconda versione ufficiale, anche se nel frattempo quella originale era già circolata all’estero e da lì rientrò in Italia. In essa si parlava di soldati “vilmente ritiratisi” ed “ignominiosamente arresisi” al nemico.

Ciò che colpisce – scrive Labanca – del comunicato del 28 ottobre è che «Cadorna sembrava volere dare l’impressione di aver capito e saputo tutto. E di aver trovato subito i colpevoli: non lui stesso, in primo luogo, né il Comando supremo o l’esercito, ma i soldati (di “taluni” reparti, che avevano ceduto, ma in fondo anche delle altre truppe i cui sforzi “non erano riusciti a impedire” la disfatta) e per certi versi il governo (se solo all’esercito, e non a quello, in guerra “sono affidati l’onore e la salvezza della Patria”)» (p. 11). In realtà, come le analisi e le attente ricostruzioni del libro di Labanca dimostrano nei capitoli centrali, le cose non stavano in questi termini e le responsabilità principali della disfatta sono da ricercarsi proprio negli errori e nelle gravissime deficienze dei comandi e quindi di Cadorna in primis. Le ragioni militari, in sostanza, vengono prima di quelle “politiche” (il presunto tradimento e il disfattismo) che, non disinteressatamente, Cadorna lasciava intendere.

Caporetto, seppur quantitativamente non paragonabile alle catastrofiche ecatombi di Verdun o della Somme sul fronte occidentale, per l’Italia fu davvero qualcosa di sconvolgente e pauroso: «Da sole la rottura del fronte e poi la rotta a essa seguita […] portarono all’invasione austrotedesca di più di 20.000 kmq del territorio nazionale e […] arretrarono di 150 km il fronte dal Carso, dall’Isonzo e dalle Alpi Carniche sin giù al Piave. L’Italia lasciò sul campo 11.000 morti e 29.000 feriti. In mano agli avversari restarono 300.000 prigionieri. Forse altri 300.000 uomini rimasero sbandati nella rotta. Dopo l’ottobre del 1917, con Caporetto, la guerra italiana combattuta fin dal maggio 1915 all’offensiva per Trieste e Trento diventò strettamente difensiva» (pp. 86-87).

Anche se «l’immagine che diede origine al più resistente mito di Caporetto: lo “sciopero militare” dei soldati italiani» (p.92), ovverosia la rappresentazione che più si impresse nell’immaginario collettivo fu quella dello sbandamento di una fiumana di soldati che precipitosamente arretravano, spesso gettando il fucile o abbandonando l’uniforme, in realtà le ragioni decisive della disfatta sono da ricercare sul piano strategico-militare, tanto in relazione alla situazione del fronte dell’alto Isonzo nell’autunno del 1917, quanto in relazione all’intera conduzione della guerra da parte dell’alto comando italiano.

È noto che il tratto tra Tolmino e Plezzo era considerato una parte relativamente tranquilla del fronte e che i comandi italiani non sospettavano che gli austro-tedeschi potessero attaccare lì, nonostante che tra settembre ed ottobre fossero arrivate sempre più informazioni circa i preparativi nemici di truppe per un attacco proprio in quel punto. La sottovalutazione del caso particolare si inseriva poi in un quadro strategico generale che considerava il fronte giulio, ma nella sua parte meridionale, come quello centrale e decisivo per le sorti del conflitto italiano e che concepiva ostinatamente la conduzione della guerra sull’Isonzo in un solo modo possibile, che presto trasformò la guerra sul fronte italiano in una assurda carneficina non dissimile a quelle che si consumavano su tutti gli altri fronti: l’offensiva continua, per infliggere al nemico le cosiddette “spallate” (le dodici battaglie dell’Isonzo, l’ultima della quali fu proprio quella di Caporetto). Ma la guerra di trincea dava maggiore «forza alla difesa rispetto ai piani dell’offesa» (p. 99).

Tra gli “errori di valutazione” non vanno certo dimenticati – spiega Labanca – anche la sopravvalutazione delle potenzialità e della forza dell’esercito italiano e la sottovalutazione del fatto che il paese era entrato in guerra tra mille divisioni e contraddizioni politiche. Ancor più nello specifico poi, la ricerca ossessiva della “spallata” offensiva aveva indotto i comandi a concentrare troppe forze sulle prime linee, senza che venissero predisposte truppe di riserva nelle retrovie, linee arretrate ben attrezzate e pronte all’utilizzo in caso di ripiegamento, o che fossero concepiti piani precisi per comandi preparati ad attuarli. Anche gli ordini, tardivi indecisi ed inadeguati, impartiti da Cadorna subito dopo la rottura del fronte lasciano intendere come l’incomprensione della nuova tattica d’attacco degli austro-tedeschi (l’infiltrazione) e l’impreparazione fossero massime. Una inadeguatezza complessiva dell’alto comando italiano che secondo Labanca trovava una spiegazione non secondaria anche nella impostazione data allo Stato Maggiore dal Comandante supremo. «La centralizzazione sulla figura di Cadorna […] della politica di ricompense e promozioni […] contribuiva a creare passività ed induceva al conformismo e al servilismo una parte della più alta ufficialità italiana» (p. 64). Insomma, una scarsa capacità di prendere iniziative indipendenti le cui conseguenze si sarebbero rivelate fatali anche a Caporetto.

Se dal vertice dell’esercito italiano passiamo alla considerazione dei punti di vista e delle prospettive della base del medesimo, il quadro cambia completamente. Dalle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta dai soldati semplici si evince come le trincee italiane fossero «rudimentali, da tracciare, da rafforzare» (p.25) e come fosse di conseguenza forte il malessere patito dalle truppe del Regio Esercito al fronte, che forse anche per questo – osserva ed ipotizza Labanca – nel momento dell’improvviso attacco nemico «cedettero, o non resistettero quanto forse essi stessi avrebbero potuto pensare di saper fare» (p. 25). Nonostante gli sforzi economici, produttivi, industriali per armare adeguatamente l’esercito dopo l’entrata in guerra del ’15, le distanze fra l’esercito italiano e gli eserciti di molte delle altre potenze belligeranti si erano sì ridotte, ma non completamente colmate e di fronte al massiccio, improvviso ed inaspettato attacco nemico, un attacco molto ben preparato e progettato, le truppe italiane si trovarono in grande difficoltà.

Oltre agli aspetti tecnico-militari ci sono poi quelli politici che emergono dalle parole pronunciate dai soldati semplici davanti alla Commissione. Non si trattò tanto di uno “sciopero militare” effettivamente e consapevolmente concepito e realizzato (cosa che Labanca tende decisamente ad escludere che sia accaduto), quello “sciopero militare” cioè che rappresentò lo spauracchio principale per lo Stato maggiore dell’esercito, per la classe politica e dirigente italiana, e non solo quella interventista in senso stretto, ma che in realtà – nonostante Cadorna nel suo comunicato del 28 ottobre lasciasse proprio intendere che la rotta fosse dovuta a questo – non si verificò mai, quanto piuttosto si trattò della “stanchezza” dei soldati, del loro scoramento e della loro sostanziale sfiducia o «presa di distanze dall’esercito, dal governo e dallo Stato liberale che li avevano trascinati in quel conflitto» (p. 27).
Al momento della ritirata e del ripiegamento molti soldati erano sbandati, spesso anche per l’impreparazione dei comandi che non seppero come comportarsi nel momento della rottura del fronte e della rotta, in altri casi per scelta spontanea e personale, in altri ancora forse anche con la speranza che questo significasse finalmente la fine della guerra. Di fatto, molti erano arretrati gettando l’uniforme e il fucile lungo i cigli delle strade o dentro ai fossi. «Quei soldati, almeno in quel momento, fra l’Isonzo e il Piave, non volevano più fare la guerra» (p. 29), nonostante che il “pugno di ferro” della più inflessibile disciplina militare, a cui Cadorna aveva da subito fatto ricorso dopo l’entrata in guerra, colpisse implacabile con soppressioni e fucilazioni sommarie, nel tentativo di arginare lo sfaldamento delle truppe.

La Commissione di inchiesta, scrive Labanca, riservò «qualche attenzione […] anche al comportamento degli ufficiali inferiori, tenenti e capitani, perché si voleva essere rassicurati che aveva tenuto la borghesia italiana, la quale aveva riempito i gradi dell’ufficialità di complemento» (p. 34). Dalle testimonianze raccolte – conclude lo storico – risulta chiaro che anche per i sottufficiali di complemento le ragioni della rotta fossero sostanzialmente militari, anche se poi certi aspetti della reazione e del comportamento dei soldati avrebbero potuto anche fare supporre o temere ci fosse dell’altro.

Salendo i gradi della gerarchia militare, Labanca considera le testimonianze rese alla Commissione dagli ufficiali subalterni (sottotenenti, tenenti) e da quelli superiori. In questo caso si trattava di uomini con un sufficiente livello di istruzione e di cultura, che consentiva loro di avere, rispetto alla truppa, una visione d’insieme ben più articolata di quanto accaduto a Caporetto e della guerra in generale, una guerra di cui condividevano le ragioni e di cui sostenevano la necessità, avendo sposato le ragioni dell’interventismo italiano. Nonostante questo, fa notare Labanca, è necessario distinguere tra le posizioni dei subalterni, solitamente più vicine a quelle dei semplici soldati, nonostante qualche accusa “cadornista” di disfattismo o di codardia, e quelle degli ufficiali superiori, nelle quali l’addossamento delle responsabilità ai combattenti ritenuti imbelli e vigliacchi è decisamente più frequente, anche se non mancano lucide analisi tecnico-militari sull’efficacia della nuova strategia dell’infiltrazione messa in atto dagli austro-tedeschi e sulle carenze delle linee difensive italiane. Insomma, mano a mano che si sale di grado nella catena di comando militare, la spiegazione “militare” (cioè innanzi tutto la responsabilità dei comandi) lascia il posto alla spiegazione “politica” (cioè la responsabilità dei soldati disfattisti e di chi ne avrebbe traviato lo spirito patriottico).

La Commissione di inchiesta coinvolse infine anche i generali e gli alti comandi dell’esercito italiano, che direttamente (Cadorna, Capello, Cavaciocchi, ecc) o indirettamente erano stati investiti dalla disfatta e dalla rotta di Caporetto.
Innanzi tutto, fa notare Labanca, i generali facevano parte (e così si consideravano) della élite del paese ed inoltre la loro prospettiva sull’accaduto era di molto diversa e “distante” da quella non solo dei semplici soldati, ma anche da quella degli ufficiali inferiori. In linea di massima, osserva Labanca, nelle dichiarazioni degli alti ufficiali emergono la tendenza alla spiegazione giustificazionista della disfatta di Caporetto, che viene spesso derubricata a livello di una delle tante pesanti sconfitte subite da tutti gli eserciti combattenti, o il ridimensionamento dell’impatto politico della rotta. A questi argomenti si aggiunge poi il tentativo degli alti comandi di “scaricare” verso il basso le responsabilità dell’accaduto, non solo in direzione della truppa, ma anche degli ufficiali di complemento o comunque subordinati.
«È in questo quadro, di una élite militare che, nel segreto della deposizione a una commissione d’inchiesta, prova a scaricare su altri responsabilità anche proprie, che vanno lette le ripetute accuse ai soldati. Qui, il cadornismo si rivela più diffuso di quanto si potesse pensare” (pp. 54-55).

Certo non mancarono anche le voci che registrarono e denunciarono tanto l’efficacia delle strategie nemiche quanto l’insufficienza e le carenze delle forze e delle difese italiane, ma la propensione alla spiegazione cadornista era prevalente. Forse, fa notare Labanca, solo pochi avrebbero sottoscritto le esatte parole dello sconcertante comunicato del Comandante supremo del 28 ottobre, ma l’idea che la disfatta fosse stata facilitata, se non proprio causata, dalla propaganda neutralista o disfattista e da uno strisciante pacifismo, che poteva aver portato se non proprio allo “sciopero militare” quanto meno all’arrendevolezza dei soldati, al crollo morale delle truppe, fino addirittura alla vigliaccheria, emerge dalle parole degli alti ufficiali e dei generali del nostro esercito.

Per quanto riguarda le accuse di ignominia e di viltà di fronte al nemico, gli alti comandi poi divergevano al momento di individuarne la causa scatenante ed il fattore determinante: chi accusava i “rossi”, chi i “neri”, chi cioè i socialisti e chi i cattolici, chi il Psi, che aveva adottato la linea del “né aderire né sabotare” senza mai sposare quella dell’”unione sacra”, chi la Chiesa cattolica, su posizioni di ostruzione verso lo Stato liberale sin dall’unità e neutraliste e critiche verso la guerra, come quelle espresse dal discorso del Papa sull’”inutile strage”. Gli scioperi operai di Torino e la rivoluzione in Russia non facilitavano certo le cose, dal punto di vista dello Stato maggiore.

«Insomma», conclude Labanca, «non si può dire che tutti i generali fossero chiusi in un cieco antisocialismo (o anticlericalismo). Vi erano posizioni differenziate, o quanto meno sfumature importanti, nei loro ragionamenti sulle ragioni della rotta. Qualunque fosse la graduatoria dei sospetti e delle analisi, però, forse tutti questi generali avrebbero condiviso […] la stessa sensazione: “Nell’autunno del 1917 l’esercito era maturo per la disfatta”» (p. 73). Infine, su tutte queste analisi e conseguenti valutazioni sulle cause dell’accaduto «svettavano soltanto i portatori di un giudizio, o meglio di un pregiudizio, convinti di sapere cosa era successo: erano gli interventisti più accesi, i sostenitori della tesi dello “sciopero generale”, Cadorna con il suo comunicato del 28 ottobre. Tra gli alti ufficiali interrogati dalla Commissione a distanza di mesi da quando era stato emesso, e pur consapevoli che Cadorna era stato di fatto ormai destituito e accantonato, non pochi si dimostrarono ancora pienamente convinti della giustezza di quel comunicato» (p. 78).

Il quadro che emerge dalla lettura delle testimonianze rilasciate alla Commissione di inchiesta è quindi quanto mai composito e complesso, come complessa e difficile era la situazione del paese e non solo della sua parte combattente, ma anche della società civile; Caporetto risvegliò ed acuì contrasti e criticità che attraversavano trasversalmente il paese. Senza pretendere di riassumere in poche righe le ricche argomentazioni e le accurate ricostruzioni del libro di Labanca, ricordiamo che Caporetto, oltre a trasformare la guerra italiana da offensiva in difensiva e a lasciare nelle mani del nemico una quantità ingente di territorio nazionale, di armi e materiale bellico di ogni tipo, col pericolo concreto di perdere definitivamente la guerra qualora gli austro-tedeschi fossero riusciti a sfondare anche sul Piave e a penetrare in Pianura Padana, causò, tra le tante cose, anche la caduta del governo, la sostituzione di Cadorna con Diaz, l’adozione di una nuova strategia militare, la predisposizione di un moderno apparato di propaganda, la radicalizzazione delle contrapposizioni politiche che poi avrebbero contribuito, dopo la guerra, all’avvio del processo che condusse alla crisi e al crollo dello stato liberale.

La disfatta e la rotta di Caporetto toccarono i nervi scoperti di un paese che nella Grande Guerra era entrato tra mille contraddizioni: quelle di uno stato che inviava milioni di uomini, ed in particolare contadini, a combattere per una nazione dalla quale nei precedenti cinquant’anni di vita unitaria quelle medesime masse popolari erano rimaste escluse e non integrate; quelle di un governo e di un capo dello stato che guidavano il paese in guerra attraverso una “forzatura” politica che riusciva a scavalcare l’ostacolo di un parlamento e di una società civile in maggioranza neutralisti. Ovvero quelle di due fronti, neutralisti ed interventisti, non solo tra loro contrapposti, ma estremamente eterogenei al proprio interno, cosicché l’interventismo rivoluzionario, quello irredentista e quello nazionalista, a ben guardare, non potevano aver molto in comune tra loro, come, sull’opposto fronte, il neutralismo cattolico, quello socialista e quello giolittiano. E così poco avevano in comune che alla fine giolittiani e cattolici ad una sorta di molto incompleta “unione sacra” italiana parteciparono (a maggior ragione dopo Caporetto), ma mai i socialisti; mentre nell’altro campo, chi pensava di combattere per Trento e Trieste rischiava la vita e moriva per gli obiettivi imperialistici segretamente fissati dal governo con il Patto di Londra. Lacerazioni che sarebbero riemerse poi nel clima del dopoguerra, infuocato anche dalla questione della “vittoria mutilata”, la cui “mutilazione” – osserva Labanca – fu in buona parte dovuta anche alla pesante disfatta di Caporetto, che poneva l’Italia, agli occhi dei suoi alleati, nella posizione dell’ultima delle potenze vincitrici. E tutto questo, a cui si aggiungevano speranze e delusioni, illusioni e frustrazioni sociali e politiche prodotte dalla guerra, fu un carburante potente ed abbondante per il motore del fascismo che in pochi anni prese in mano il paese.

Insomma se il 1917, come si è soliti affermare, fu un cruciale anno di svolta all’interno di quell’evento, la Grande Guerra, che viene assunto come punto di inizio del “secolo breve”, allora il 1917 italiano il suo punto di non ritorno lo conobbe sull’alto Isonzo, tra Tolmino e Plezzo, ed è forse corretto dire che il “secolo breve” italiano sia iniziato con Caporetto.