Computer umani e il problema della computazione. Note attorno My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles

di Domenico Gallo

“I discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile,

e non sopra un mondo di carta”.

Galileo Galilei

Il saggio When Computer Were Human di David Alan Grier è probabilmente la fonte più esaustiva sulla nascita e l’uso del termine “computer”. “Prima che i computer fossero delle macchine, essi erano delle persone. Erano uomini e donne, giovani e vecchi, istruiti e gente comune. Il contributo di questi lavoratori convinse gli scienziati dell’importanza che poteva avere la capacità di eseguire calcoli molto lunghi e complessi. Molto tempo prima che Presper Eckert e John Mauchly costruissero alla Moore School of Electronics il calcolatore ENIAC e Maurice Wilkes progettasse EDSAC alla Manchester University, i computer umani avevano già creato la disciplina della computazione. Si trattava di un sistema di metodologie numeriche che avevano testato su problemi pratici. I computer umani non erano degli eruditi o dei geni matematici, molti di loro conoscevano poco più che i fondamenti della matematica. Solo alcuni potevano essere avvicinati agli scienziati per cui lavoravano, e in diverse epoche e situazioni avrebbero potuto diventare essi stessi degli scienziati se la carriera scientifica non gli fosse stata preclusa per motivi di classe, educazione, genere o etnia” (Grier, 2001). Secondo gli studi di Grier, la necessità di elaborare calcoli di eccezionale complessità nasce con gli studi dell’astronomo Edmond Halley. All’inizio del Settecento, Halley comprese che alcuni avvistamenti cometari del passato in realtà descrivevano i transiti della stessa cometa e tentò di calcolarne l’orbita tenendo conto delle modifiche al moto che sarebbero state introdotte dall’influenza del Sole, di Giove e di Saturno. Si trattava di un calcolo di difficoltà estrema che Halley non riuscì a risolvere completamente.

Il lavoro di Halley, che morì nel 1742, venne ripreso dal francese Alexis-Claude Clairaut, che, per affrontare il suo modello di orbita, ebbe bisogno dell’aiuto di due persone per eseguire i calcoli, Joseph Jerome Lalande e Nicole Reine Lepaute, moglie di Jean-André Lepaute, orologiaio del re di Francia. Per cinque mesi i tre matematici si dedicarono alla computazione dell’orbita e nel 1758 pubblicarono la loro previsione per il raggiungimento del perielio da parte della cometa. Sbagliarono solamente di un mese, ma il loro eccezionale lavoro di calcolo dovette comunque sopportare pesanti attacchi. Molti matematici criticarono duramente  l’approccio basato sul calcolo a discapito della soluzione analitica dell’orbita, e, Jean le Rond d’Alembert ritenne il lavoro dei tre matematici “laborioso ma non profondo” (Grier, 2001), soprattutto a causa del mese di errore. Tuttavia, nonostante le critiche di D’Alambert, l’organizzazione di gruppi dedicati al calcolo iniziò rapidamente a diffondersi. Se per alcuni uomini il lavoro come computer era, in molti casi, temporaneo, per molte donne, invece, diventò una specializzazione capace di costituire una carriera professionale importante. Uno dei casi più interessanti di computer umani si sviluppò all’interno di un gruppo denominato ”Harem di Pickering” dell’Harvard College Observatory. Edward Charles Pickering, direttore dell’Osservatorio dal 1877 al 1919, iniziò ad assumere donne per lavori specializzati nel campo dell’astronomia. Sicuramente l’assunzione di sole donne tra le “Harvard computers” era stato influenzata dal basso costo della mano d’opera femminile rispetto a quella maschile, tuttavia deve essere sottolineato come molte di queste donne computer, oltre a svolgere un lavoro di computazione sempre più pesante e sofisticato, diedero un loro contributo originale alla storia dell’astronomia.

Williamina Fleming era stata la domestica di Edward Pickering che, insoddisfatto del lavoro dei suoi dipendenti maschi, pare abbia sbottato “persino la mia domestica è capace di fare questo lavoro meglio di voi”. Al di là della leggenda, Williamina Fleming, una donna abbandonata dal marito e con un figlio a carico, iniziò a lavorare all’osservatorio come impiegata amministrativa e, inseguito, come computer. Il suo contributo alla classificazione stellare è stato straordinario; durante la sua carriera scoprì 59 nebulose (tra cui la celeberrima Testa di cavallo), 10 nove e oltre 300 stelle variabili. Henrietta Levitt era una sua collega computer che lavorava sulle lastre di vetro su cui era stato fotografato il cielo notturno. Per 25 centesimi di dollaro l’ora, Henrietta Levitt e le donne dell’Harem di Pickering contavano le stelle e ne valutavano la luminosità e il colore. Non si trattava di un lavoro stupido, tanto è vero che Levitt ricavò una serie di relazioni numeriche che furono alla base della fotometria astronomica e che, ancora oggi, costituiscono la base per calcolare la distanza tra le galassie.

Questa breve nota storica può essere utile per comprendere, a partire dal titolo, la sorprendente potenzialità del saggio di Katherine N. Hayles e intuire come l’intreccio tra l’umano e le sue tecnologie sia stato in ogni epoca serrato e ambiguo, e destinato a sconvolgere le categorie del linguaggio che li rappresenta. Anzi, proprio la ricerca di Katherine N. Hayles, che dopo una laurea in chimica ha iniziato a ibridare le proprie conoscenze con ulteriori studi in letteratura, si pone alla fine del Novecento come crocevia della relazione tra letteratura, scienza e tecnologia.  How We Became Posthuman è del 1999, ma già nel 1991, introducendo Chaos and Order, una raccolta di saggi che aveva il progetto di approfondire la relazione tra ordine e caos attraverso i modelli della scienza e della letteratura, Katherine N. Hayles esordisce osservando che solo una visione estremamente tradizionale può semplicisticamente considerarli come concetti opposti. Gli eccezionali progressi delle scienze classiche, almeno fino agli albori del Novecento,  avevano dimostrato che i sistemi ordinati potevano essere studiati, analizzati e compresi, mentre il caos sembrava destinato a essere rappresentabile solo da discipline come la  statistica e la probabilità. Le ricerche matematiche e chimico-fisiche degli ultimi decenni (quelle di Edward Norton Lorenz, Ilya Prigogine e Benoit Mandelbrot, per fare un esempio), hanno invece dimostrato che il caos non è semplicisticamente lo stato in cui l’ordine è assente, ma uno stato che racchiude un’informazione estremamente più complessa e meno immediatamente decodificabile. Questa emergere della complessità come oggetto di studio fondamentale, dalle scienze matematiche, fisiche e biologiche si diffonde nella cultura umanistica e nell’arte. Una condivisione di paradigmi, sempre più fruttuosa di convergenze tra scienze e arti, che ci suggerisce come la stessa tradizionale contrapposizione tra cultura scientifica e cultura umanistica abbia perduto molto del suo potere di convinzione.

Katherine N. Hayles si muove oggi nell’avanguardia di una linea di pensiero che parte almeno da Galileo Galilei. La ricerca di Galilei, infatti, non può essere definita meramente fisica, ma contemporaneamente matematica, filosofica e letteraria. Sul contributo di Galilei come letterato è ancora molto interessante l’antologia di scritti curata da Alberto Asor Rosa nel 1974, che riesce a illustrare come, dal punto di vista umanistico, il contributo dello scienziato sia stato importante, mentre il saggio di Ludovico Geymonat del 1957 rimane una guida fondamentale per seguirne la battaglia politica e filosofica. Dunque Galileo non è tanto uno scienziato quanto un uomo di cultura immerso nella propria epoca, capace di esprimere un pensiero unitario che cerca complessivamente una chiave di interpretazione nel mondo. Ma è proprio a partire da Galileo che le discipline scientifiche intraprendono un percorso di autonomia e specializzazione che conducono a diffidenza e ostilità tra il mondo delle scienze naturali e il mondo delle scienze umane. Almeno dai tempi della conferenza di Charles P. Snow, “Le due culture e la rivoluzione scientifica”, è in corso un dibattito sui danni che questa divisione ha comportato. Senza ripercorrere le tesi di Snow, oggi forse un po’ naif, è utile invece riportare alcuni elementi dell’introduzione di Geymonat (anche lui, come Katherine N. Hayles, caratterizzato da una doppia formazione come filosofo e matematico). Geymonat infatti coglie nel testo di Snow potenzialità che lo scienziato-narratore inglese non sviluppa. Per Geymonat “se l’ottimismo con cui gli scienziati guardano al futuro può talvolta apparire eccessivo e persino ingenuo, certo è che l’esaltazione della cultura ‘tradizionale’ da parte dei letterati assume non di rado l’aspetto di sommaria esaltazione di tutto il passato” . Sono molti i temi che si intersecano in queste osservazioni, da un lato alcune categorie come il socialismo, il progresso e la democrazia, che, per alcuni, sopravvivono come miti, ma che sono storicamente legati alla capacità sociale di una visone culturale unitaria, dall’altro l’idea sempre presente di una scienza in mano al capitale, e quindi irrimediabilmente nemica,  la contrapposizione di “epoche di civiltà a epoche di cultura (…), del progresso quantitativo al progresso qualitativo, del meccanicismo all’organicismo, (…) tra ciò che è artificiale con ciò che è naturale, lo sviluppo lineare alla concezione ciclica della storia, (…) le masse alle élites”. Evidenziando queste polarità dello scontro tra modernità e antimodernità, Michela Nacci, in un suo saggio del 1982, intuisce che nel dibattito che caratterizzerà il periodo post-moderno del Novecento, quello tra naturale e artificiale svolgerà un ruolo fondamentale.

La fantascienza anglosassone aveva già pienamente sviluppato, con il suo fare eccentrico, alcune mappe per leggere come, indipendentemente dai progetti degli intellettuali, l’irruzione delle nuove tecnologie della comunicazione stessero rideterminando sia il rapporto tra naturale e artificiale, sia le stesse identità di enti troppo grossolanamente considerati a priori. Autonomi. Philip K. Dick è l’esempio più eclatante dello sconvolgimento tra le categorie di naturale e artificiale. Katherine N. Hayles, in How We Became Posthuman, a proposito del romanzo Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, scrive che “il lavoro di Dick dimostra quanto l’androide sia un potente oggetto di appropriazione culturale ” (pag. 160) e come costituisca il segno più evidente dell’instabilità dei confini tra sé e mondo, e della conseguente paura inconscia che il soggetto prova a proposito della propria identità che caratterizza la fine del Novecento. Ma è Antonio Caronia con il suo saggio Il Cyborg a inseguire la ridefinizione del rapporto tra organico e inorganico lungo tutta la storia della fantascienza. Prima di arrivare a Dick, e a dialettica tra naturale e artificiale più esplicita, è l’apparentemente ingenua fantascienza dei pulp ad attrarre la sua attenzione e a comprendere che già negli anni Venti e Trenta del Novecento la diffusione delle nuove tecnologie produttive, l’ampliarsi capillare dei sistemi di comunicazione e personale, fino al perfezionarsi dell’organizzazione del lavoro come una branca dell’ingegneria, stavano violentemente ristrutturando l’immaginario di intere nazioni. Un immaginario che non si basa su un’idea di natura originale, ma su una natura come è stata trasformata dal capitalismo, e da questa natura vera, concreta e aliena da ogni nostalgia, la fantascienza prende spunto per le sue violente visioni. I primi cervelli che si staccano dal corpo appartengono ai pulp degli anni Trenta; sono cyborg in cui la mente umana si interfaccia a organi elettro-meccanici e che permettono ai nuovi corpi di affrontare le condizioni inumane dello spazio. Cartesianamente divisi tra corpo e mente, queste prime assurde creature veicolano l’idea di un corpo in grado di modellarsi con le macchine e di proiettare l’uomo in quell’universo di progresso infinito che, esaurita la conquista e la colonizzazione del pianeta Terra, si proietta negli spazi siderali. Ma la fantascienza è uno strumento ambiguo e, quando elabora una metafora questa non è mai completamente ubbidiente ai propri creatori; assieme al corpo ibridizzato e capace di esplorare il cosmo, queste nuove forme del connubio mente-corpo diventano rappresentazione di una forza-lavoro sempre più indisciplinata. La fantascienza sembra avvertirci che il mondo della produzione è destinato inevitabilmente a dover affrontare la rivolta delle sue componenti fondamentali, il loro continuo ammutinamento, il manifestarsi di scelte autonome e radicali. “Tutto concorre a raffigurare la fantascienza di quegli anni come la rappresentazione fedele, anche se straniata, delle condizioni per cui la macchina produttiva possa continuare a produrre e delle crisi che, dall’interno o dall’esterno del sistema, possono inceppare quella macchina”.

My Mother Was a computer ostenta molteplici origini. La prima è la fantascienza come letteratura privilegiata a descrivere l’evolversi del corpo. Questo itinerario parte dal genio di Samuel Delany, dalla fantascienza femminile di Ursula Le Guin, Joanna Russ e Doris Lessing; passa per i saggi di Donna Haraway e di Teresa De Lauretis, ma deve molto anche alla fantascienza classica per la sua storica capacità di manipolare i corpi produttivi. L’altra origine è ancora vicina alla fantascienza, ma è una fantascienza che ha progressivamente perduto la presunzione di spiegare autonomamente le contraddizioni di una realtà ad elevato contenuto tecnologico. Quando nel 1984 viene pubblicato Neuromante di William Gibson, la fantascienza inizia a diffondersi nell’arte, nella letteratura ufficiale e nei movimenti, cessa di essere un genere letterario per diventare un modo di vivere e aggredire la realtà. Il cyberpunk è la morte e, contemporaneamente, la vittoria della fantascienza. L’esplorazione del “possibile storicamente determinato”, per citare una terminologia usata da Antonio Caronia, questo intrico di sfrenato realismo e immaginazione distordente, diventa rapidamente uno dei modelli più efficaci per interpretare una società che vive, secondo la metafora di Marshall McLuhan, “con il cervello fuori dal cranio e i nervi fuori dalla pelle” (p. 68). La pervasività di una società tecnologica in cui “tutte le forme di ricchezza derivano dallo spostamento di informazioni” (p. 69) ha portato a individuare nell’informatica, nella cibernetica, nella robotica e nella bioingegneria le discipline che sviluppano le tecnologie che più di ogni altre si avviluppano all’umano contemporaneo per indurne continue mutazioni. In questo nostro mondo fatto di simultaneità la tecnologia contamina e modifica il nostro corpo e, contemporaneamente, la nostra realtà. Molte pagine di My Mother Was a Computer sono spedificatamente dedicate al tema della creazione della realtà e di come letteratura e scienza offrano al dibattito filosofico un nuovo terreno di indagine. A partire dall’analisi di Arnold Gehlen si viene a delineare un ruolo dell’uomo che “deve interpretare la sua natura” (pag. 35), e la fantascienza ci ha prioritariamente mostrato casi estremi in cui l’uomo affronta la natura come propria. In primo luogo, come è peculiare della specie umana, l’evoluzione è anche la storia di come l’interazione tra uomo e ambiente abbia avuto come risultato la progressiva costruzione della natura. Ma, come i meccanismi evolutivi biologici sono in grado di trasmettere, di generazione in generazione, gli elementi di maggiore competitività, per l’uomo è stato altrettanto determinante riuscire a comunicare “quell’accumulo globale di conoscenze e di innovazioni, derivante dalla somma di contributi individuali trasmessi attraverso le generazioni e diffusi al nostro corpo sociale” (pag. 1). Questa è per Luigi Luca Cavalli Sforza una possibile definizione di cultura capace di enfatizzare come meccanismi darwiniani siano in grado di spiegare il modo in cui la cultura si conserva e si modifica nel tempo. Katherine N. Hayles ha portato alle estreme conseguenze lo studio di come le tecnologie siano l’elemento assolutamente determinante per l’evoluzione dell’uomo e per l’evoluzione dell’ambiente, e di come una cultura intrinsecamente dedicata alla tecnologia sia in grado di presentare raffigurazioni del presente di eccezionale profondità. Non si tratta ovviamente di una novità, questo è sempre accaduto, solamente oggi la distanza tra l’uomo è le tecnologie è collassata e, come scrive Katherine N. Hayles, la “letteratura come ‘allucinazione’ è stata in parte rimpiazzata dai messaggi in tempo reale, dalle chat, dai videogame, dalle e-mail e dalla navigazio­ne sul Web, che giocano un ruolo così importante nell’esperienza delle giovani generazioni”. Il discorso iniziale che apre My Mother Was a Computer è un gioco attorno alla figura della madre come la figura capace di insegnare a trasformare, attraverso la voce, le lettere di un testo ne “l’allucinazione di un significato”. Il tema è di eccezionale portata e conduce al dibattito più avanzato delle neuroscienze.

Anticamente si usava leggere pronunciando le parole, ad alta voce, anche se si leggeva da soli. Agostino nelle Confessioni riporta con ammirazione che il vescovo di Milano, Ambrogio, usava la lettura endofasica, senza emettere suoni: “Ma mentre leggeva gli occhi percorrevano le pagine e il cuore era rivolto a comprendere, mentre la voce e la lingua riposavano. Spesso, entrando da lui (…) ci capitò di vederlo leggere così, in silenzio, e mai in modo diverso.” (Confessioni VI, 3,3). Nel mondo ipermediale, l’allucinazione di un significato è costruita anche in modalità cibernetica e la stessa madre (metafora di una natura “naturale”) è sostituita da una madre computer (metafora di un connubio contro-natura di umano e di macchina). Ma, si chiede Katherine N. Hayles, come si costruisce la realtà?

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto.” La citazione tratta da Il Saggiatore di Galileo Galilei è nota, e da allora la scienza e la filosofia hanno conseguito molti progressi, soprattutto smantellando ipotesi creazioniste e religiose, e avviando una metodologia darwiniana che è perfetta anche nel comprendere come il sistema tecnologico altro non sia la massima espressione dell’umano e come abbia progressivamente contribuito a selezionare il tipo umano fino a oggi. In My Mother Was a Computer, Katherin N. Hayles prova a ipotizzare i prossimi nodi dell’evoluzione umana comprendendo come la stessa realtà sia stata, dalla preistoria, profondamente legata all’organicità dei soggetti che la ipotizzavano come elemento esterno e aprioristico. La nostra specie, 150.000 anni fa era costituita da pochi migliaia di individui che vivevano in Africa. Si trattava, secondo gli studi di Michail C. Corballis, di individui umani che sarebbero stati in grado di “capire la fisica delle particelle o i drammi di Shakespeare se solo avessero avuto la possibilità di farne esperienza” (p. 181). Individui homo sapiens, quindi, dotati di strutture cerebrali in grado di leggere, scrivere e contare perché erano normalmente dotati di reti neuronali in grado di elaborare queste funzioni. Diverse ricerche cercano di comprendere come mai il cervello di homo sapiens fosse dotato di neuroni in grado di comprendere il linguaggio scritto e la matematica molto prima della loro apparizione, qualche migliaio di anni fa, e l’ipotesi più accreditata è ampiamente argomentata negli studi di Stanislas Dehaene. Oggetti culturali come i numeri e le parole vengono “elaborati in forma parassitaria da circuiti neuronali innati che in precedenza erano rivolti  a comportamenti ben diversi dalla lettura e dal conteggio”.  Enrico Bellone, certamente storico della fisica italiano più profondo e rigoroso, commenta queste scoperte osservando che il linguaggio matematico in cui è scritto il libro della natura è probabilmente l’unico linguaggio che l’umano è in grado di leggere, e che sono i tentativi di linguaggio e di matematiche che, probabilmente, si sono dovuti selezionare fino a incontrarsi in quello peculiare alle caratteristiche neuronali di homo sapiens. Considerazioni di questo tipo ci riportano ancora a Katherine N. Hayles e alle domande che affronta in questo saggio sul perché umano e non umano, nel senso di Alan Touring, possono scambiarsi tra loro, e la macchina (che si basa su un “DNA logico binario”) possa essere scambiabile con un umano che possiede innate e univoche capacità logico-matematiche. E ancora ci riportano ad Antonio Caronia quando, studiando uno scrittore di fantascienza come Philip K. Dick, analizza la tragica paura dell’umano che riconosce in sé una dolorosa identità artificiale che non desidera, e ancora quando gli androidi, nella loro naturale, e inevitabile, evoluzione (che parte dalla medesima biologia e dalla medesima cultura del linguaggio) tendono a raggiungere l’umano e a fondersi con lui. Il mondo cyberpunk, grazie alla sua natura di movimento prima ancora che corrente letteraria, riesce a leggere questo contatto fisico tra naturale e artificiale che solo una visione evoluzionistica ci consente di comprendere dall’origine, cioè da quando, grazie a casuali mutazioni, tra i 200.000 e i 100.000 anni fa, in Africa homo sapiens inizia il suo viaggio.

Una conclusione a mo’ di dedica

Ho avuto la fortuna di avere due straordinari insegnati, Enrico Bellone e Antonio Caronia. Entrambi avevano una formazione scientifica, Enrico un fisico e Antonio un matematico, ma avevano fatto dell’approccio interdisciplinare una loro caratteristica, la cifra della loro battaglia culturale.

Antonio Caronia aveva scelto questo saggio di Katherine N. Hayles ed era riuscito a tradurne i primi tre capitoli, poi, dopo la sua scomparsa, Marialaura Pulimenti lo ha ripreso, facendo un ottimo lavoro. Questo mio testo è stato pubblicato nel 2014 dall’Editore Mimesis come postfazione alla traduzione italiana di My Mother Was a Computer di Katherine N. Hayles.

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