di Sandro Moiso

Andrew Spannaus, LA RIVOLTA DEGLI ELETTORI. Il ritorno dello Stato e il futuro dell’Europa, Mimesis Edizioni 2017, pp. 110, € 10, 00

Occorre ripartire dal Trattato di Westfalia, l’intesa che mise fine alla guerra dei trent’anni nel 1648, e che pose le basi del diritto internazionale per secoli, per comprendere il testo di Andrew Spannaus recentemente edito da Mimesis.
Già autore di un testo sulla prevedibile vittoria di Trump, pubblicato lo scorso anno dallo stesso editore e recensito all’epoca su Carmilla (“Perché vince Trump”), l’autore prosegue nella sua ricostruzione dei motivi e delle ragioni che hanno portato al successo (relativo) dei cosiddetti movimenti populisti al di qua e al di là dell’Atlantico. Con un attenzione particolare, come si deduce dal titolo, alle contraddizioni venutesi a sviluppare in Europa tra governati e governanti.

Per l’autore “L’idea di Westfalia è semplice: «gli Stati sono responsabili per il proprio territorio e i propri cittadini, e altri Stati non dovrebbero interferire con nessuno dei due». È stato il principio guida nelle relazioni tra le nazioni occidentali per tre secoli, anche se ignorato abbondantemente nei confronti di altre aree del mondo, con l’imperialismo coloniale.”
Proprio dall’abbandono di tale principio governativo ed organizzativo egli fa derivare le attuali tendenze populiste o, come dichiara il titolo stesso, la rivolta degli elettori nei confronti delle élite.

La costruzione dell’Europa Unita si è basata infatti su una progressiva cessione dei compiti e delle scelte dei singoli governi nazionali ad un ente sovranazionale che spesso compare sotto le spoglie della Banca Centrale Europea ancor più che del parlamento di Bruxelles, che dovrebbe costituire la sede ideale per il dibattito tra i rappresentanti “democraticamente” eletti dai cittadini europei al fine di giungere a soluzioni politicamente condivise.

In effetti però ciò che ha finito col trionfare è stato uno stato di permanente eccezionalità che ha giustificato azioni di intervento decisamente autoritario sulle costituzioni dei singoli stati (come nel caso del “famigerato” pareggio di bilancio inserito nella Costituzione italiana modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 con la legge costituzionale 1/2012 entrata in vigore l’8 maggio 2012) e sulle decisioni degli stessi governi. Regime di eccezionalità che in Italia si è fatto sentire a partire dalla caduta “accelerata” del Governo Berlusconi nell’autunno del 2011 e ben riassunto (e giustificato) nelle parole di Mario Monti, riportate dal testo: “Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di grave crisi, per fare passi avanti… E’ chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni [di sovranità] solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore a farle, perché c’è una crisi in atto visibile e conclamata”.

Questo regime di permanente eccezionalità, che ha giustificato negli ultimi anni tagli di spesa pubblica, manovre di aggiustamento ai danni di cittadini e lavoratori e immensi favori nei confronti della finanza internazionale, ha finito però col dare vita ad uno scontento generalizzato e acefalo che nel corso del 2016 ha visto il voto favorevole alla Brexit in Gran Bretagna e la clamorosa sconfitta del progetto renziano di riforma costituzionale.

Questi due episodi, insieme alla vittoria di Trump alle ultime elezioni presidenziali americane, divengono centrali all’interno della ricostruzione che Spannaus fa del diffondersi a livello politico dei movimenti populisti. Movimenti che vengono anche presi in esame a proposito del loro parziale “fallimento” nel corso delle elezioni nazionali svoltesi in Europa, nel corso del 2017, in Olanda e in Francia.
Pur essendo convinto che tali movimenti non potranno giungere al successo nemmeno nella Germania di Angela Merkel, l’autore ritiene comunque che le vittorie dei rappresentanti e dei partiti “europeisti” non costituiscano altro che vittorie di Pirro degli stessi.

Il fatto che la protesta non ha travolto le istituzioni non significa che i problemi sono stati risolti. Anzi, diventa ancora più importante affrontarli, pena il dilagare in un futuro prossimo di una sfiducia ancora più profonda tra la popolazione e una nuova tornata di proteste meno gestibili.
L’esempio più evidente è quello di Donald Trump negli Stati Uniti. Per mesi la grande stampa e la classe politica hanno trattato Trump come un fenomeno inspiegabile, se non attraverso i pregiudizi di una classe di americani poco istruiti. Non si è voluto guardare ai motivi veri per cui un candidato così imperfetto riuscisse a raccogliere così tanti voti, e alla fine le istituzioni hanno pagato il prezzo, ritrovandosi un corpo estraneo alla Casa Bianca.
Trump è stato eletto perché ha acceso i riflettori su due grandi temi: la perdita dei posti di lavoro nell’industria e il fallimento della politica estera. Sono temi fondamentali, a prescindere dalla capacità o volontà reali di risoluzione del neopresidente. […] Lo stesso ragionamento vale per l’Europa. La protesta è cresciuta per via di politiche che hanno privato i governi di quel potere di iniziativa che avevano utilizzato in modo così efficace fino agli anni Settanta, per raggiungere un livello alto di benessere economico e sociale. Gli effetti negativi della globalizzazione non si sono prodotti per caso, grazie a inevitabili cambiamenti internazionali: sono il risultato di scelte politiche ben precise, che possono anche essere riviste.

Ma, al di là dei dati e delle spiegazioni che Spannaus fornisce a dimostrazione della sua tesi, ciò che può essere di reale interesse all’interno del testo è costituito dalle ricette che l’autore suggerisce per far fronte alla crisi economica che travaglia le economie e le società occidentali e i provvedimenti che i governi in carica dovrebbero applicare.
Partendo dal presupposto che “I grandi temi alla base della rivolta degli elettori che hanno portato Donald Trump alla Casa Bianca hanno un denominatore comune: la sovranità. La globalizzazione economica e finanziaria è osteggiata perché ha favorito la delocalizzazione del lavoro e perché ha permesso alla finanza speculativa di acquisire un potere spropositato sulla politica degli Stati. Tutto questo si basa sull’eliminazione dei confini, soprattutto in termini economici: ormai le grandi società e i grandi capitali possono spostarsi con facilità, un fattore che condiziona pesantemente le decisioni dei governanti che devono fare i conti con la nuova realtà dei “mercati internazionali”, spesso più potenti degli strumenti legislativi nazionali.” Spannaus giunge ad affermare che “Il fallimento dell’élite occidentale è strettamente collegato all’abbandono del concetto di sovranità. Una certa visione del mondo, da attuare con strumenti a volte democratici e a volte no, ha facilitato le politiche che hanno fomentato il malcontento di grossi segmenti della popolazione, che a sua volta vedono in questi “valori” della globalizzazione una minaccia non solo al proprio benessere, ma ancora di più alla propria identità.
Oggi, l’idea di un ritorno al “nazionalismo” viene considerato pericoloso, per forza negativo, in quanto associato alle guerre del passato. A guardare bene, però, una ripresa del concetto di sovranità nazionale sembra particolarmente importante proprio per contrastare la perpetuazione degli errori più gravi del mondo occidentale negli ultimi decenni.

Il nazionalismo identitario ed economico diventa così l’apparente soluzione, tipica del populismo, dei problemi sociali ed economici. Da qui il ritorno a Westfalia e al riconoscimento dei confini e dei poteri nazionali. In una prospettiva che non si allontana nemmeno di una virgola dalla vecchia concezione borghese, poi socialdemocratica e fascista, del mondo. Ma è davvero questa l’unica, fuorviante a parere di chi scrive, prospettiva possibile per il movimento antagonista?
Oppure sarebbe meglio, approfittando dell’abolizione dei confini e dei fasulli governi nazionali operata dal capitalismo stesso (i cui limiti secondo Marx erano rappresentati dal modo di produzione capitalistico medesimo), operare al fine di ritrovare un’unità internazionale dei lavoratori e dei movimenti di lotta?

Spannaus sottolinea le scelte di Trump e le loro conseguenze possibili, condivise da milioni di elettori e lavoratori americani: “Il 23 gennaio 2017 il presidente Donald Trump ha firmato un decreto per certificare il ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership (TPP), l’accordo commerciale che l’amministrazione precedente aveva negoziato per anni con altri undici paesi dell’area del Pacifico. Questo ordine esecutivo rappresenta un primo passo verso una nuova direzione, controversa, della politica commerciale americana.[…] Le bordate di Trump contro gli accordi di libero scambio hanno provocato una risposta di orrore in buona parte del mondo politico e accademico. Le temute politiche “protezionistiche”, che economisti di destra e di sinistra ci hanno assicurato essere la formula per il disastro, sembrano essere tornate in auge, minacciando di riportare il mondo a un passato terribile quando i governi intervenivano troppo nell’economia.1

I dati successivi alle politiche di delocalizzazione del lavoro sono certamente allarmanti: “Il numero totale dei posti di lavoro nelle manifatture negli Stati Uniti è crollato di oltre 7 milioni di unità dal 1980, men¬tre la popolazione complessiva è cresciuta di quasi 100 milioni di individui. In termini percentuali, attualmente i lavoratori nelle manifatture rappresentano solo l’8% della forza lavoro, circa un terzo rispetto al 1970. È risaputo che gran parte di questi lavoratori ora si trovi con impieghi meno retribuiti in termini reali e più precari, sempre che abbiano ancora un posto di lavoro. Una delle risposte più abusate dagli esperti è che la perdita del lavoro industriale non è dovuta al commercio, ma alla tecnologia. L’automazione sta accelerando e lo farà ancora di più con la rivoluzione digitale. Si produce di più con meno lavoratori al giorno d’oggi, una tendenza irreversibile.2

La spiegazione non convince certo né i lavoratori, né coloro che, come l’autore, in un ritorno alle politiche protezionistiche vedono una possibile panacea.
Come mai buona parte dei prodotti di consumo comprati negli Usa e in Europa vengono prodotti in paesi come la Cina, il Bangladesh, il Messico e il Guatemala? La tecno¬logia non fornisce la risposta; gli stipendi e i costi operativi bassi sì.
Un argomento più coerente è quello dei prezzi. Si dice che in molti settori ad alta intensità di lavoro i processi produttivi siano semplice¬mente troppo costosi per rimanere nei paesi più avanzati, e quindi il commercio mantiene i prezzi bassi. Cosa direbbero i consumatori del¬le fasce basse se non potessero trovare i beni economici a Wal-Mart?
Si tratta di un problema reale, che solleva questioni complesse su come invertire la corsa verso il basso dell’economia low-cost, ma è possibile cambiare rapidamente la prospettiva se si adotta una visione più a lungo termine: perché i poveri (compresi i working poor) non possono permettersi beni più costosi? Non ha a che fare proprio con la perdita di posti di lavoro ben pagati? Uno sguardo veloce al mondo mostra la debolezza della tesi che i costi bassi siano essenziali per il benessere economico. I paesi più ricchi non sono caratterizzati dai costi bassi; è proprio il contrario.
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Citando l’economista americano Henry Carey che, nel 1851, scrisse L’armonia degli interessi, Spannaus ricorda che: “Nel suo libro Carey esprime una visione che è ancora oggi pertinente: a lungo termine o la condizione dei lavoratori sfruttati in altre aree del mondo sarebbe stata innalzata, avvicinandosi a quella dei paesi più sviluppati, oppure il lavoratore americano sarebbe stato abbassato al livello delle persone sfruttate dal sistema imperiale.
La premessa centrale di Carey è che “ogni uomo è un consumatore nella misura in cui produce”; cioè, se produci qualcosa, avrai il reddito necessario anche per consumare, e alla fine aumenterà il commercio. Quest’idea sarebbe considerata terribilmente antiquata da parte di molti economisti oggi. Eppure, per i lavoratori americani ed europei che hanno vissuto la fase recente di globalizzazione è fin troppo reale
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Ecco quindi riproporre un’impossibile unità di interessi tra lavoratori ed economia nazionale, in nome della produttività e del lavoro industriale, in cui il vantaggio consumistico del lavoratore sembra discendere direttamente dal vantaggio della propria impresa o del proprio stato di appartenenza nel mercato mondiale. Ora, senza citare obbligatoriamente il Discorso sul libero scambio di Karl Marx, è evidente che una tale visione giustifica sia il rilancio dell’estrazione e dell’uso del carbone promesso da Trump ai minatori impoveriti degli stati dell’Est sia, altro esempio, la “compartecipazione” dei lavoratori dell’ILVA di Taranto alla distruzione della vita e dell’ambiente in nome del valore-lavoro oppure le speranze riposte negli effetti benefici delle Grandi Opere. Ma una tale visione sta proprio alla base della concezione economica e politica interclassista.

Serve un nuovo approccio alla politica commerciale, per iniziare un cambiamento fondamentale che archivi le politiche low-cost, anti-produttive degli ultimi decenni. Servono misure specifiche da attuare per cominciare a cambiare, prendendo spunto da concetti già presenti nel dibattito politico attuale. Per cominciare, si considerino i dazi.5 Dazi ovvero protezionismo, ovvero accettazione del principio di concorrenza con i lavoratori degli altri stati o dell’esclusione dei lavoratori immigrati dai diritti dei lavoratori residenti: una politica di separazione all’interno del mondo del lavoro che va in direzione esattamente opposta a quella che si prospettava poco sopra.

Direzione, quella del protezionismo economico, che non può avere alla fine altri sbocchi che non siano quello della guerra (inevitabile nell’epoca dell’imperialismo finanziario), accompagnato da quello, ancor più tragico, della passiva accettazione della stessa da parte dei lavoratori, in nome del supremo interesse nazionale.
Magari attraverso la riproposizione, qui in Occidente dove la questione nazionale si è chiusa almeno da un secolo, di un terzo risorgimento, così come già fu qui in Italia quella del secondo risorgimento destinata a castrare e soffocare qualsiasi elemento di autonomia e azione proletaria e rivoluzionaria all’interno della lotta di Liberazione dal fascismo e dal capitale.

Il testo di Spannaus può perciò aiutarci, anche se in negativo, a riflettere su tutto ciò e questo può costituire già per sé un motivo sufficiente per una sua attenta lettura.


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