di Raúl Zecca Castel*

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Nella terra degli zonbies il confine tra vita e morte è sempre stato straordinariamente labile e, soprattutto, mai definitivo. Eppure, molto spesso, il voudu non ha nulla a che fare con questa folclorica ambiguità esistenziale, mentre c’entrano parecchio gli affari, il business.

È così che il numero delle vittime causato da Matthew, l’uragano che nei primi giorni di ottobre ha investito la regione caraibica ed in particolare la Repubblica di Haiti, si è trasformato ben presto in un caso degno di attenzione. Sin dai primi momenti successivi al passaggio del ciclone, infatti, la cifra relativa ai morti sul territorio haitiano è andata crescendo di minuto in minuto, lievitando in maniera esponenziale fino a superare velocemente le mille unità. A sole poche ore dal disastro, tutte le maggiori agenzie di stampa confermavano questi dati tragicamente allarmanti e le testate dei principali quotidiani internazionali riportavano fedelmente numeri altissimi, oscillanti tra i novecento e gli oltre mille morti.

Nulla di particolarmente strano, purtroppo, considerando la violenza di questa ennesima calamità, se non fosse che stando alle fonti del Ministero degli Interni haitiano, la conta ufficiale, in data 7 ottobre, era ancora ferma a 288 vittime, oltre due terzi in meno. Persino l’ultimo bilancio ministeriale, aggiornato al 13 ottobre e reso noto dalla Direction de la Protection Civile (DPC), risulta decisamente più ottimistico rispetto a quanto diffuso dai media. Le vittime accertate sarebbero infatti 546.

Sia ben chiaro: nulla esclude che questi numeri possano raggiungere e anche superare quelli diramati dai giornali di tutto il mondo, dal momento che ci sono ancora molte zone completamente isolate e interi villaggi che continuano ad essere irraggiungibili per i soccorsi, tuttavia resta il fatto che l’entità reale della tragedia, sin dal principio, non ha mai coinciso con ciò che è stato riferito dai principali canali di informazione.

Tale curiosa discrepanza ha insospettito Francois Anick Joseph, attuale Ministro degli Interni, il quale ha dichiarato di non sapere da dove provengano i dati pubblicati dall’agenzia Reuters – la prima a fornire cifre superiori al migliaio -, aggiungendo poi che “le catastrofi naturali vengono troppo spesso utilizzate come opportunità affaristiche, già che ci sono effettivamente persone interessate a gonfiare le cifre, interessate a mostrare che la situazione è più grave, al fine di far aumentare i finanziamenti”.

La denuncia del Ministro, come immaginabile, non ha trovato la minima eco, ma certamente invita a riflettere sulle dinamiche umanitarie che l’emergenza mette in moto e va letta come un monito a restare in guardia di fronte al rischio dello sciacallaggio istituzionalizzato. Secondo alcuni calcoli, ad Haiti sarebbe presente una ONG ogni 3mila abitanti. Non c’è da meravigliarsi dunque che sia stata ribattezzata la “repubblica delle ONG”. Ciò che invece lascia piuttosto perplessi è che, nonostante anni di lavoro portato avanti dalla cooperazione internazionale allo sviluppo, sia in forma pubblica sia in forma privata, e dopo miliardi di donazioni e finanziamenti indirizzati a quel fazzoletto di terra che conta poco più di 10milioni di abitanti, Haiti continui ad essere il paese in assoluto più povero di tutto il continente americano, occupando la 153° posizione (su 177) nella classifica redatta in base all’indice di sviluppo umano.

haiti_street_protest_kolera492_2Evidentemente sorgono spontanee alcune domande circa la trasparenza e l’efficacia delle attività promosse da queste “multinazionali della solidarietà” [1] che proprio in questi ultimi giorni, dopo i primi nuovi casi di colera, hanno richiamato l’attenzione internazionale sul rischio di un ennesimo disastro umanitario. Un rischio estremamente concreto, certo, ma che talvolta chiama in causa responsabilità non esclusivamente ascrivibili a fattori naturali e che, paradossalmente, trova invece nelle stesse ONG i primi germi del suo realizzarsi. A titolo di esempio basti ricordare che successivamente al terremoto del 2010, la Croce Rossa Americana ricevette circa 500 milioni di dollari per la ricostruzione, ma – come denunciò l’organizzazione no-profit ProPublica in un’inchiesta che suscitò scandalo -, tutto ciò che la Red Cross riuscì a costruire furono sei case e un ospedale.

La stessa epidemia di colera che contagiò oltre 700 mila persone uccidendone quasi 10 mila e che ora torna a mietere vittime fu provocata da un batterio portato nel paese dal contingente nepalese della MINUSTAH, la missione di stabilizzazione dei caschi blu dell’ONU, operativa dal 2004. Anche in quel caso le proteste della popolazione e di alcuni rappresentanti politici locali restarono lettera morta, ma la verità è che l’insofferenza degli haitiani nei confronti dell’“invasione umanitaria” e della militarizzazione del loro territorio cresce di pari passo con l’inefficienza delle operazioni di soccorso.

La maledizione di Haiti continua, dunque, ma ancora una volta il voudou e gli spiriti Loa, così come le avversità della natura, hanno poco a che vedere con questa tragedia. La maledizione è umana, troppo umana.

[1] A titolo di esempio basti ricordare che successivamente al terremoto del 2010 la Croce Rossa Americana ricevette circa 500 milioni di dollari per la ricostruzione, ma come denunciò l’organizzazione no-profit ProPublica in un’inchiesta che suscitò scandalo tutto ciò che riuscì a costruire furono sei case ed un ospedale. Sul tema delle “multinazionali della solidarietà”, degli “aiuti selettivi”, della “industria della fame” e della “Repubblica delle Ong” in riferimento alla storia recente di Haiti, è uscito nel 2015, con End edizioni, La fame di Haiti, di Fabrizio Lorusso e Romina Vinci.

*Autore del saggio Come schiavi in libertà. Vita e lavoro dei tagliatori di canna da zucchero haitiani in Repubblica Dominicana, Ed. Arcoiris, 2016.

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