di Armando Lancellotti

passato-prossimo-grechi-presente-imperfetto-coverGiulia Grechi, Viviana Gravano, (a cura di), Presente imperfetto. Eredità coloniali e immaginari razziali contemporanei, Mimesis, Milano-Udine, 2016, pp. 194, € 18,00

Ormai due anni or sono, nel novembre del 2014, si è tenuta a Roma, presso la Casa della Memoria e della Storia, un’iniziativa di due giornate di incontri e di studio sul tema dell’immaginario postcoloniale italiano e delle eredità prodotte dal colonialismo del nostro paese che aveva lo stesso titolo del libro recentemente uscito a cura di Giulia Grechi e Viviana Gravano, che di quella “due giorni” raccoglie le relazioni, i lavori ed i materiali prodotti. Un volume con il quale la casa editrice Mimesis incrementa un catalogo già ricco di studi e saggi che da punti di vista differenti e con approcci molteplici affrontano il tema del colonialismo italiano; basti citare al riguardo alcuni titoli della stessa collana – Passato prossimo – a cui appartiene anche il libro che qui presentiamo: Alessandro Boaglio, Plotone chimico. Cronache abissine di una generazione scomoda, 2010; Paolo Bertella Farnetti, Adolfo Mignemi, Alessandro Triulzi (a cura di), L’impero nel cassetto. L’Italia coloniale tra album privati e archivi pubblici, 2013; Valeria Deplano, Alessandro Pes (a cura di), Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, 2014.

Le riflessioni compiute e proposte in quella occasione intendevano dare un contributo al progresso degli studi post-coloniali, che nel nostro paese non hanno ancora conosciuto uno sviluppo analogo a quello prodottosi altrove e non solo e non tanto per il presunto minor peso del colonialismo italiano rispetto ad altri imperialismi o per l’inferiore durata della sua storia, ma anche e soprattutto per il fatto che dal 1945 in poi, quel paese – l’Italia, appunto – che nei precedenti decenni fascisti aveva fatto di tutto per conquistare l’Impero e per fare degli italiani un popolo razzista di dominatori-civilizzatori di razze inferiori [su Carmilla], ha rapidamente sgravato la propria memoria di un passato divenuto ingombrante, nascondendo dietro una fitta nebbia di oblio i roventi deserti della Libia o gli assolati altopiani etiopi.

Ricordare, ripercorrere e ripensare quel passato e i suoi lasciti è divenuta, pertanto, un’urgenza sempre più impellente proprio oggi, sia per colmare una lacuna o correggere un ben poco involontario errore della memoria collettiva italiana, sia – come scrivono le curatrici, tanto delle due giornate di incontri quanto del libro, G. Grechi e V. Gravano – per «mettere in relazione quel passato coloniale con l’oggi: rispetto alla relazione degli italiani con i migranti che vivono nelle nostre città, che lavorano nelle nostre campagne e nelle nostre aziende; rispetto a quelle seconde, terze o quarte generazioni, che si fa ancora inspiegabilmente fatica a definire semplicemente italiane/i; rispetto alle relazioni con gli altri paesi del Mediterraneo, nostre ex colonie, o ex colonie di altri paesi europei; rispetto alla nostra cultura di consumo e agli immaginari che circolano nei linguaggi visivi contemporanei (dalla pubblicità alle serie televisive, al cinema, ai quotidiani, ai festival culturali)» (p. 23).

Una lettura postcoloniale del colonialismo italiano può fornire un contributo alla comprensione del processo di formazione della nazione e del “carattere nazionale” italiani, dal momento che – come opportunamente ricordano le due studiose – esso è stato intrapreso ben prima del fascismo, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, e quindi ha accompagnato buona parte della storia d’Italia dall’unità al secondo conflitto mondiale, in stretta relazione con altri «eventi di portata altrettanto globale, come le migrazioni di milioni di italiani», proprio mentre i governi propagandavano la conquista di un “posto al sole” per dare lavoro alle braccia disoccupate e come «le relazioni tra nord e sud, spesso caratterizzate anch’esse da un atteggiamento profondamente coloniale, tutto interno ai confini della nazione» (p. 25).

L’originale progetto – Immaginari (post)coloniali. Memorie pubbliche e private del colonialismo italiano – presentato in occasione del Convegno si proponeva inoltre di approntare un innovativo ed inedito archivio del colonialismo italiano, al fine di andare oltre l’approccio meramente storiografico e secondo una prospettiva di tipo postcoloniale che sia in grado di scardinare e oltrepassare la logica dell’archivio istituzionale, che «è di per sé uno strumento coloniale, usato per definire “l’altro”, attraverso una vera e propria ossessione tassonomica, non a caso nata nella modernità in parallelo alla formazione delle nazioni, e dei conseguenti nazionalismi» (p. 28). Se – come sostengono le autrici – l’istituzione archivio, tradizionalmente intesa, oltre ad essere luogo di conservazione della memoria è anche uno strumento culturale di potere, «fondamentalmente di origine europea, che deve catalogare l’intero mondo per condurlo a una sola spiegazione, a una sola lettura universalista, e quindi al possibile controllo» (p. 28), allora un valido contributo al superamento di questa logica di dominio propria della forma mentis imperialistica occidentale può venire dalla realizzazione di un archivio “affettivo” (p. 25), che nasca dalla raccolta di oggetti di piccoli archivi privati, di collezioni di persone e famiglie che hanno vissuto il periodo coloniale, da catalogare poi secondo un criterio insolito, non “misurativo”, tassonomico e quantitativo, ma qualitativo, “affettivo” e “narrativo”.

Pertanto – propongono Grechi e Gravano – «immaginiamo la scheda», che accompagna gli oggetti, prima digitalizzati e poi restituiti, «non tanto come un dispositivo quantitativo di controllo, ma come un piccolo componimento, una narrazione, attraverso la quale i donatori potranno raccontare liberamente le storie che li hanno legati e li legano al loro oggetto. In questo modo l’archivio conserverà la memoria intima, e quindi affettiva, degli oggetti, innescando sentimenti empatici in chi poi andrà a leggere le storie, e facendo in modo che la “storia” del colonialismo italiano non sia più solo patrimonio delle narrazioni istituzionali ma divenga materia viva e condivisa. Ogni oggetto è portatore di una propria biografia, e allo stesso tempo rifrange la storiografia, e la biografia delle persone che hanno avuto a che fare con esso. Non si tratta perciò di costruire un museo di oggetti, ma un archivio di storie» (p. 26); storie che intrecceranno punti di vista molteplici e apriranno prospettive nuove e plurali.

Di questo fervido laboratorio di idee e progetti dà conto il libro Presente imperfetto, che nelle quattro parti che lo compongono (I. Immaginari (post)coloniali; II Verso un postcoloniale italiano; III Archivi aperti; IV Le pratiche) raccoglie gli interventi e i contributi di tanti studiosi di aree disciplinari differenti (storici, archivisti, sociologi, studiosi di cultural studies, di cinema e media, fotografi, storici dell’arte, scrittori e critici letterari), alcuni dei quali, a mo’ d’esempio, di seguito consideriamo.

brusca-e-strigliaCristina Lombardi Diop (Teoria e grammatica della razza. Il passato prossimo del razzismo coloniale), docente di italianistica e studi di genere presso la Loyola University di Chicago, prende le mosse dall’interessante considerazione secondo cui, per quanto sia corretto e doveroso denunciare i processi di generale amnesia o di complessiva rimozione del passato coloniale e razzista italiano che hanno caratterizzato la memoria collettiva del nostro paese in seguito alla perdita delle colonie, l’insistenza sull’oblio della storia «lascia inesplorata (o rischia di offuscare) la persistente presenza del razzismo nel senso comune e nella quotidianità» (p. 45). Secondo la studiosa, esiste un immaginario coloniale e razzista ben più presente e duraturo di quanto non si sia per lo più consapevoli; anzi, proprio la generale inconsapevolezza riguardo ad esso certifica l’avvenuta traduzione senza soluzione di continuità, dal recente passato coloniale al presente, di immagini, stereotipi, pregiudizi razzisti che sono a tutti gli effetti forma mentis diffusa.

Per spiegare l’origine e lo sviluppo di un immaginario razzista persistente, Lombardi Diop fa ricorso alla metafora, presa a prestito da David Theo Goldberg, della “evaporazione” della razza, che esprime il senso di una diffusione pervasiva, di un «movimento non lineare, ma piuttosto a spirale, delle tracce sedimentate del razzismo coloniale, movimento che produce la simultanea visibilità e invisibilità dei suoi elementi» (p. 46). Si tratta di un processo di sedimentazione che avviene per riattualizzazione continua di rappresentazioni razziste che provengono dal passato e che finisce per rendere consuete e familiari quelle medesime rappresentazioni; è uno scambio comunicativo continuo tra passato e presente, «un “campo discorsivo mobile” che contiene il passato e contemporaneamente produce nuove immagini adatte alla contemporaneità» (p. 46). E come vi è continuità tra l’immaginario razzista del passato e quello del presente, così non vi è separazione tra il razzismo di Stato, delle istituzioni politiche e statali e quello diffuso nella «società civile, attraverso (pre)giudizi e pratiche del vissuto individuale» (p.46).

calimeroSe, come vuole Lombardi Diop, il «razzismo scaturisce in modo esplicito dalle passioni incontrollate della gente comune e prende forma nelle pratiche quotidiane» (p. 47) e se il “razzismo quotidiano” è «quel processo attraverso il quale le idee razziste assumono significato perché tradotte in pratiche quotidiane ripetute e quindi familiari e gestibili» (p.47), allora determinante diviene l’humus sociale in cui tutto questo si produce, la cornice complessiva all’interno della quale prende forma quella che la studiosa definisce la “grammatica della razza”, «ossia quella logica sociale attraverso la quale le sfere primarie del razzismo (la sfera istituzionale, quella ideologica, e quella delle pratiche sociali) si congiungono a formare una sintassi del sentire comune» (p.47).

Per rendere conto di quanto sostenuto sul piano teorico, Lombardi Diop, applicando concetti presi a prestito da Roland Barthes, considera di seguito alcune immagini della cultura popolare e della propaganda razzista di epoca fascista per coglierne gli aspetti di continuità con una celebre immagine pubblicitaria comparsa per la prima volta agli inizi degli anni Sessanta, quella di Calimero per il detersivo per lavatrice Ava. Ciò che per Barthes vale per l’immagine pubblicitaria – l’estrema chiarezza di un significato intenzionalmente stabilito a priori e la polisemia dell’immagine, che può essere letta sia a livello denotativo sia a livello connotativo – può essere esteso anche al messaggio propagandistico. La decodifica del messaggio dipende poi tanto dalla cultura del singolo destinatario del messaggio stesso quanto dall’ideologia sociale del contesto complessivo e «la lettura di una pubblicità o di un fumetto dipende dai diversi tipi di conoscenza investiti nell’immagine attraverso la combinazione di testo/immagine/stile del disegno/azione narrativa» (p.48).

la-doccia-salutareTra le immagini più ricorrenti della propaganda coloniale che coinvolgeva anche quei bambini del Ventennio divenuti poi «genitori degli adulti di oggi nati all’inizio del boom economico» (p. 49) – cioè quando venne inventato il personaggio di Calimero – vi era quella del soldato/colonizzatore, portatore di civiltà, nel solco della civilizzatrice Roma antica e del “destino/fardello dell’uomo bianco”; immagine già presente nella retorica coloniale del periodo liberale, ma corroborata dall’insistenza del fascismo circa la specificità razziale “bianca” degli italiani e la sua essenziale distanza dalla razza “nera” africana, etiope in particolare. È del 1937 l’introduzione in Africa Orientale della legislazione razziale e segregazionista e degli anni di poco precedenti e successivi sono fumetti quali La Piccola Italiana, Piroletto e famiglia in A.O., Peperino nell’Etiopia italiana, o le serie di cartoline postali coloniali a colori, in cui l’atto civilizzatore italiano consiste di frequente nel «lavaggio “salutare”, tema presente in molte delle immagini che ci giungono dagli imperi europei, che associavano la nerezza alla sporcizia, misurando il grado di civilizzazione alla quantità di sapone a disposizione degli europei per sbiancare e curare l’igiene del corpo e della casa. Il lavaggio “salutare” connota il corpo nero come un pericolo dal quale la razza italiana deve proteggersi a causa della sua contaminazione e della degenerazione dell’ordine sociale che esso provoca. Queste immagini entrarono in circolazione pervadendo la coscienza dei “bravi italiani”» (p. 52).

Il meccanismo connotativo innescato da queste immagini è il medesimo della pubblicità del detersivo per lavatrice Ava e del suo personaggio, Calimero, il pulcino nero, apparso per la prima volta in televisione con Carosello nel 1963. Calimero viene sottoposto al lavaggio “salutare” con il detersivo Ava dalla bianca e bionda “olandesina” che gli rivela che lui non è nero, ma solo sporco e così, nuovamente riportato alla sua natura bianca può ricongiungersi alla madre che lo aveva rifiutato, «apostrofandolo con la frase rimasta famosa: “Vattene via, piccolo sgorbio nero”. […] Nella sequenza narrativa di Calimero, il contrasto sporco/pulito denota l’azione del bianco (il detersivo) che trionfa sul nero (lo sporco), mentre connota simultaneamente e ripropone gli elementi dominanti dell’immaginario igienico-razziale del fascismo. […] In conclusione, il passaggio generazionale tra i protagonisti del colonialismo e coloro che furono esposti alla sua propaganda da una parte, e i figli del miracolo economico dall’altra, fa sì che il bagaglio razziale del colonialismo possa essere rimesso in circolazione rendendo invisibili gli elementi razzializzanti del suo messaggio» (p. 53).

Nel suo intervento, dal titolo Appunti su scuola italiana, colonialismo e razzismo, Gianluca Gabrielli, dottore di ricerca in History of education all’Università di Macerata e autore di numerosi lavori sul razzismo italiano e sulla storia della scuola italiana, va alla ricerca di “costanti” nell’atteggiamento della scuola, dagli anni precedenti l’unità politica del paese fino ad oggi, nei confronti delle popolazioni non europee e dei popoli colonizzati da europei ed italiani in particolare.

ilpontedoro_1966Una prima costante la individua nello stereotipo, già precedentemente considerato, della missione civilizzatrice e lo fa partendo da un testo della scuola elementare, un sussidiario, non di epoca coloniale, che porta la firma del “maestro Manzi” e che uscì in prima edizione nel 1966 con il titolo Il ponte d’oro. L’immagine di copertina – osserva Gabrielli – meritoriamente «rompeva gli stereotipi della subordinazione africana, e anche quelli della semplice fratellanza di matrice cristiana, ciononostante il suo senso rimaneva interno a un’interpretazione del mondo in cui la “civiltà” matura nella società bianca e occidentale, e che solo un gesto di generosità del bianco può permettere che si trasmetta alla società nera (originariamente considerata priva di civiltà)» (p. 66): è infatti il ragazzo bianco che, in una sorta di corsa a staffetta, generosamente passa la pergamena, simbolo metonimico di cultura e conoscenza, al ragazzo nero, che altrimenti ne rimarrebbe privo.

Una seconda costante è quella della categorizzazione tassonomica e gerarchica delle razze, in base ai tratti somatici, al colore della pelle e secondo la tipica logica deterministica del razzismo biologico positivistico che connette tratti morali, comportamentali, cognitivi, culturali, spirituali ed altri ancora all’identità razziale. Gabrielli ritrova questa pedagogia razzista già nel Giannetto, «il libro di letture e cultura generale per la scuola primaria di Luigi Alessandro Parravicini che rappresentò un best seller tra gli insegnanti con un centinaio di ristampe tra il 1834 e il 1900» (p. 67). Il determinismo estetico-razzista, che fa corrispondere la presunta bellezza bianca alla sua superiorità in termini di intelligenza, laboriosità, moralità e civiltà, si fa via via sempre più frequente nei testi scolastici sia a fine Ottocento, in un clima culturale egemonicamente positivistico-evoluzionistico e nel momento delle prime conquiste coloniali italiane nel Corno d’Africa, sia durante il fascismo, soprattutto a partire dagli anni della conquista dell’Etiopia e della conseguente introduzione in A.O. della legislazione razziale.

In questo periodo fu introdotto un libro destinato ai ragazzi dai 10 ai 14 anni, Il secondo libro del fascista, che «insegnava la superiorità “razziale” degli italiani e l’inferiorità delle popolazioni africane e degli ebrei; la “teoria della razza” era espressa in termini biologici senza alcuna ambiguità» (p. 69). Il crollo del fascismo – osserva Gabrielli – non scalfì però più di tanto il paradigma razziale, ormai presente nella società italiana e nella fattispecie nella scuola da quasi un secolo e pertanto tenacemente radicato e molto diffuso, se è vero che manuali scolastici e testi di geografia in particolare riproponevano lo stereotipo eurocentrico e razzista del primato dei popoli di razza bianca ed europei. Alla permanenza e alla resistenza, esplicite o sotto traccia, del paradigma razziale si aggiunse poi il silenzio, via via crescente fino a diventare oblio, riguardo al passato coloniale italiano, con la fine della guerra e la perdita anche della amministrazione fiduciaria della Somalia (1960); oblio che riguardò l’intera società italiana e pertanto anche la scuola. Quanto mai significativo l’esempio proposto da Gabrielli di «un volume per le verifiche pubblicato nel 1965; qui la mappa delle colonie italiane su cui i ragazzi dovevano tracciare i nomi dei possedimenti nazionali semplicemente non comprende l’Etiopia (la maniera più efficace di non fare i conti con il fascismo era fare finta che non fosse mai esistito)» (p. 71).

È a partire dagli anni Settanta e in seguito alla riforma e al rinnovamento della scuola che di colonialismo e razzismo si comincia a parlare nelle aule italiane, ma le omertà e i silenzi del passato continuarono a fare sentire il loro peso al punto che – dice Gabrielli – si può parlare di una “decolonizzazione per interposto colonialismo”, in quanto gli italiani cominciarono a fare i conti con il colonialismo ed il razzismo altrui, appoggiando e condividendo le lotte degli afroamericani negli Usa o dei sudafricani contro il regime segregazionista, ma continuando sostanzialmente ad ignorare il colonialismo, il razzismo, le stragi e i crimini compiuti dagli italiani, nonostante i grandi passi avanti compiuti nel frattempo dagli storici, in particolare da Angelo Del Boca e Giorgio Rochat, che poi produssero effetti anche nell’editoria scolastica. Da ricordare a tal proposito il primo volume della collana di Loescher Editore, diretta da Massimo L.Salvadori, Documenti della storia: G.Rochat, Il colonialismo italiano, 1972.

Con gli anni Novanta e l’inizio dei fenomeni migratori di massa, che hanno condotto in Italia uomini e donne provenienti per lo più da ex colonie (italiane o di altri paesi europei poco importa), si apre un nuovo capitolo della storia dei rapporti tra gli italiani, il passato coloniale e il razzismo; un capitolo che potrebbe portare «a rivedere il punto di vista eurocentrico con cui guardare alla storia e a valorizzare lo sguardo dei conquistati» e che potrebbe inaugurare una nuova prospettiva veramente post-coloniale. Ma le cose per ora paiono andare esattamente in direzione opposta, cioè quella di un riemergente razzismo italiano e della costruzione di una «immagine del migrante, in parte tributaria delle diverse immagini dell’indigeno prodotte e modificate a partire dall’Ottocento e in parte catalizzatrice delle nuove paure che fermentano nella società» (p. 73).

difendilaDella elaborazione di un’immagine negativa del migrante che eredita e ripropone stereotipi razzisti del passato coloniale parla anche Francesca Locatelli – studiosa di storia dell’Africa e del colonialismo italiano e collaboratrice del AMM-Archivio Memorie Migranti – nel suo intervento (Da “sudditi coloniali” a “extracomunitari”: il razzismo italiano ieri e oggi), con l’esame del quale concludiamo le riflessioni su questo interessante libro.
Secondo Locatelli l’atteggiamento europeo nei confronti dei migranti risente in maniera determinate del passato coloniale del vecchio continente e gli esempi sono facilmente reperibili, come «l’ossessione della Francia per l’abolizione del velo come segno di integrazione nella società nazionale non fa altro che rievocare l’ideologia coloniale dell’assimilation, che misurava il grado di civiltà dei popoli colonizzati in base all’accettazione, all’adeguamento e alla conformità con la cultura francese, intesa come cultura superiore» (p. 127).

Anche l’Italia non è di certo esente da questo fenomeno di ritorno del passato coloniale, della sua ideologia e delle sue pratiche che confluiscono sia nelle politiche istituzionali sia negli atteggiamenti diffusi nei confronti di migranti. Al fine di meglio comprendere queste dinamiche, la studiosa suggerisce di indagare, con maggiore attenzione di quella riservatagli fino ad oggi, il fenomeno del colonialismo demografico fascista, cioè del trasferimento in colonia di centinaia di migliaia di italiani, soprattutto negli anni Trenta, a seguito della riproposizione da parte del regime del progetto (anacronistico in quel momento storico) della colonizzazione di popolamento. «Gli italiani presenti in colonia, come quelli che rimangono in Italia, sono cresciuti con la cultura della superiorità della razza che emerge nei loro comportamenti quotidiani […]. Lo dimostrano le numerosissime storie raccontate dalle sentenze penali riguardanti i coloni presenti in Eritrea, conservate nell’archivio della Corte Suprema di Asmara. […] Storie di stupri di donne e bambine, di arroganza e violenza razzista e di maltrattamenti quotidiani» (p. 128).

Quali esperienze fecero e quali convinzioni e pratiche o atteggiamenti razzisti riportarono indietro, mettendoli in circolo nel paese, quei circa 500.000 italiani che a metà degli anni Trenta si trasferirono nei territori d’oltremare? E di tutto questo quanto è rintracciabile nelle decisioni politiche e nei comportamenti quotidiani odierni verso stranieri e migranti presenti in Italia?
«Come studiosi» – conclude Locatelli – «dovremmo quindi interrogarci di più sulle dinamiche che il colonialismo demografico aveva innescato nelle colonie. E in particolare, sui rapporti inter-personali e sociali nei territori d’oltremare e sul ruolo che gli ex coloni hanno avuto nella circolazione di idee, miti, esperienze in Italia nel periodo postcoloniale attraverso le loro associazioni» (p. 131).

Infine, alcuni riferimenti a fatti e vicende recenti – anche molto noti – non possono che confermare le analisi e le preoccupazioni riguardo alla crescita incontrollata di un immaginario razzista che, strisciante fino a qualche anno fa, cammina ormai attraverso il paese ben ritto sulle proprie gambe, non preoccupandosi neppure più di fingersi altro da ciò che è. C’è solo l’imbarazzo della scelta di episodi – all’interno di una cornice sociale fatta di considerazioni e pensieri diffusi, di parole violente e volgari, di atteggiamenti discriminanti – che esplicitano in maniera smaccatamente disarmante quanto l’immaginario collettivo italiano sia pieno zeppo di stereotipi e pregiudizi razzisti di cui non sono esenti neppure le istituzioni pubbliche.

fertility-day-598Si commentano da soli sia il becero vaniloquio di Carlo Tavecchio, presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, che è riuscito più volte nella non facile impresa di offendere tutti (donne, omosessuali, stranieri, neri…), inanellando volgarità figlie dei tempi di “Faccetta nera”, sia il manifesto propagandistico per il Fertility Day del ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, in cui visi fin troppo bianchi, biondi e sorridenti (insomma, molto ariano-caucasici, ma – paradossalmente – quasi più da attori di Baywatch che da italiani) sono associati alla “fertilità” e alla “salute” della “stirpe”, mentre visi di neri e di rasta accanto a bianchi, ma amalgamati in una immagine “seppiata” quanto mai demodé, sono associati al concetto del comportamento insano, asociale, sterile, cioè eugeneticamente pericoloso, non diversamente dai manifesti della propaganda della RSI che mettevano in guardia le “indifese vergini italiane” dal contatto con i “bruti e naturalmente libidinosi” soldati neri statunitensi sbarcati in Italia.

carlo-tavecchio-887E non servono come alibi o attenuanti né l’inconsapevolezza culturale di un Tavecchio, da un lato, né l’involontaria e frettolosa imperizia di un’inesperta responsabile della comunicazione del Ministero della Salute (anche a voler credere alla abborracciata versione ufficiale del Ministero stesso), perché altro non fanno che confermare quanto siano incontrollatamente diffusi stereotipi e pregiudizi razzisti che molto facilmente riaffiorano dal carsico terreno dell’immaginario collettivo italiano.