di Armando Lancellotti

Allen - Il fantastico laboratorio cop_Noorda cop.Arthur Allen, Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, Bollati Boringhieri, Torino, 2015, 373 pagine, € 25,00

Il fantastico laboratorio del dottor Weigl, il primo libro tradotto e pubblicato in italiano di Arthur Allen, giornalista statunitense che si occupa principalmente di scienza e medicina, è tante cose insieme: è un saggio di storia della medicina e dell’immunologia in particolare, nel quale ampio spazio viene riservato anche alla riflessione epistemologica, ma è pure un volume di storia, che ricostruisce, con la precisione e la dovizia di particolari, fatti e dati richiesta dalla scrittura storiografica, vicende accadute nei trent’anni che comprendono le due guerre mondiali ed infine è un libro che con uno stile avvincente e coinvolgente parla di persone, luoghi ed intrecci che, se non fossero realtà storica, sembrerebbero inventati dalla fertile immaginazione di un romanziere. Ed infatti il titolo del volume risulta quasi più adatto ad un romanzo che ad un saggio di Storia, filosofia e scienze sociali, che è il titolo della collana di saggistica della Bollati Boringhieri in cui l’opera compare.

Questi i protagonisti principali delle vicende: due scienziati, il dottor Rudolf Weigl e il dottor Ludwig Fleck; i pidocchi, che trasmettono il batterio Rickettsia prowazekii; il tifo petecchiale, di cui il batterio è causa e che falcidiò gli eserciti della prima guerra mondiale e che per questo motivo divenne l’oggetto principale degli studi e degli sforzi di ricerca degli scienziati e dei microbiologi tra le due guerre e soprattutto dei due sopra citati, che riuscirono a realizzare un vaccino efficace contro la malattia. A Weigl e Fleck si aggiungono poi i tanti altri ricercatori, scienziati, intellettuali ed accademici della Polonia tra le due guerre che collaborarono o comunque assistettero alle ricerche dei primi due ed anche i numerosi medici nazisti (per lo più criminali delle SS) che tentarono di sfruttare i risultati dei loro studi.
I luoghi più importanti in cui si svolsero i fatti dall’autore ricostruiti sono essenzialmente Leopoli e Buchenwald. Leopoli, o meglio Lemberg, nome tedesco della principale città della Galizia austro-ungarica, che poi divenne Lwów, dopo la prima guerra mondiale e la nascita della Repubblica polacca e in seguito ancora Lemberg, ma questa volta all’interno del Governatorato generale nazista e dopo ventidue mesi di occupazione staliniana dal 1939 al ‘41 e che, a guerra terminata, venne definitivamente inclusa nella Repubblica sovietica di Ucraina, prendendo il nome di Lviv.
Una città crogiuolo di lingue, nazionalità, fedi religiose e la cui popolazione era costituita da polacchi, ebrei ed ucraini. Particolarmente numerosa era la comunità degli ebrei di Leopoli, come accadeva in tutta la Polonia, dove gli ebrei costituivano il 10% della popolazione e soprattutto nella parte orientale del paese, dove la percentuale cresceva considerevolmente ed ebreo leopolitano era Ludwig Fleck, mentre Rudolf Weigl, nato in una città ceca della Moravia asburgica, trasferitosi a Leopoli, era un polacco di origine tedesca, che continuò a rivendicare la propria identità polacca anche quando, dopo l’arrivo della Wehrmacht, egli fu considerato dagli occupanti un Wolksdeutsche, cioè un uomo di etnia tedesca, ma di altra cittadinanza. Ed è la stessa città, Leopoli, martoriata dall’occupazione nazista, in cui alcune famiglie di ebrei riuscirono a nascondersi e a sopravvivere sotto terra, nelle fogne, per quattordici mesi, sfuggendo in tal modo allo sterminio, come racconta il bel film del 2011 di Agnieszka Holland,  W ciemności (In Darkness), tratto dal libro di Robert Marshall, In the Sewers of Lvov (1990).
Una città di quell’Europa centro-orientale che fu letteralmente fatta a pezzi sia dal primo sia dal secondo conflitto mondiale e che fu anche il teatro principale dello sterminio degli ebrei europei e così Leopoli e due importanti esponenti della sua vivace comunità scientifica assurgono a simbolo della tragica storia europea della prima metà del secolo scorso, che raggiunse l’apice della brutalità genocida proprio nei campi di sterminio e di concentramento nazisti, come a Buchenwald, dove, dopo la reclusione nel ghetto di Leopoli e una prima deportazione ad Auschwitz, arrivò Ludwig Fleck.
Due luoghi, la città allora polacca e il campo di concentramento presso Weimar, in cui, rispettivamente, Weigl, che per primo tra i due aveva realizzato un vaccino contro il tifo e una particolare procedura per produrlo e il suo collaboratore di qualche anno prima, Fleck, si sforzarono innanzi tutto ed in tutti i modi di conservare la dignità di uomini e di scienziati, in un momento storico e in circostanze belliche ed ideologico-politiche che non solo distruggevano milioni di vite umane, ma ne cancellavano pure la dignità. I due portarono avanti le ricerche dei loro laboratori e la loro professione di uomini di scienza, Weigl in libertà a Leopoli, ma sotto stretto controllo del medico ed igienista della Wehrmacht Hermann Eyer, Fleck ridotto in schiavitù a Buchenwald dal medico delle SS Erwin Ding-Schuler. Aiutarono quante più persone riuscirono a coinvolgere e ad arruolare nelle attività di studio sul tifo e di produzione del vaccino, che le autorità politiche e militari tedesche – e perfino le SS nei lager – giudicavano di primaria importanza e conseguentemente non ostacolavano. Infine ingannarono e sabotarono la Wehrmacht, le SS e le forze di occupazione naziste, ora facendo arrivare clandestinamente grossi quantitativi di vaccino al ghetto di Leopoli o di Varsavia e alla popolazione civile, ora producendo una versione depotenziata, e quindi inefficace, del vaccino stesso da inviare alle truppe tedesche impegnate sul fronte orientale. In situazioni estreme e, in particolare per l’ebreo Fleck, disperate, lottarono innanzi tutto per sopravvivere, ma al tempo stesso anche per difendere la propria identità di uomini, oltraggiata o negata e lo fecero rifugiandosi nella libertà dell’attività teoretica della ricerca scientifica, quando intorno a loro la prassi della barbarie totalitaria e dello sterminio politico e razziale travolgeva l’idea stessa di civiltà insieme a milioni di vittime e lo fecero affinché non si consumasse quel “divorzio tra la scienza e l’umanesimo”, che – come ci spiega Allen – era ciò che più preoccupava Fleck filosofo ed epistemologo, oltre che scienziato, “poiché considerava la scienza come l’attività democratica per eccellenza” (p.76).

L’autore lavora con un materiale estremamente ricco, attingendo a numerose fonti di archivio (tra gli altri Bundesarchiv, Institut d’Histoire du temps présent – Paris, National Archives – Washington, Archives de l’Institute Pasteur – Paris, Yad Vashem Archive, ecc) a cui si aggiunge la letteratura storico-medica e storico-scientifica, in particolare riguardante le malattie epidemiche e la ricerca immunologica, e ancora la letteratura storiografica sulla medicina e i medici nazisti e sulla Shoah, ma anche un’ingente quantità di testimonianze orali, alcune delle quali direttamente raccolte da Arthur Allen stesso, altre indirette, cioè rilasciate in interviste e conversazioni precedenti da parte di collaboratori, conoscenti e famigliari dei due scienziati. Ne consegue che il libro tocca molti e diversi argomenti e non solo le vicende di Weigl e Fleck, anzi si potrebbe più correttamente dire che i veri protagonisti del libro sono i pidocchi, insetti che per secoli hanno accompagnato i soldati nei loro spostamenti, accampamenti, battaglie e spesso hanno provocato più morti le “truppe” di questi artropodi dei veri e propri soldati. E Rudolf Weigl, per realizzare il suo vaccino, trasformò, per la prima volta nella storia della scienza, questo insetto in un animale da esperimento, allevando, nutrendo, facendo riprodurre, infettando con il batterio del tifo una incalcolabile quantità di pidocchi, gelosamente custoditi nel suo laboratorio.

Lo scoppio della prima guerra mondiale, racconta Allen, fece esplodere immediatamente una grande epidemia di tifo in Serbia e, in generale, fu sui fronti orientali (quello balcanico e quello russo) che la malattia falcidiò vittime come le mitragliatrici dei fanti stipati nelle trincee. Sul fronte occidentale non ci furono casi di tifo, ma di altre malattie come la cosiddetta “febbre delle trincee” o febbre dei cinque giorni o quintana, trasmessa, come il tifo, dal pidocchio, ma da un altro batterio, denominato Rickettsia quintana. I tedeschi fecero la conoscenza del tifo dopo la battaglia di Tannenberg, che vinsero contro i soldati dello zar, ma a seguito della quale si ritrovarono con un pericolosissimo “cavallo di Troia” di più di 90000 prigionieri russi e milioni di pidocchi che fecero dilagare un’epidemia di tifo nei campi di prigionia. Tra i paesi belligeranti, il più colpito dal tifo fu senza dubbio la Russia e con il ritorno dei soldati dal fronte, dopo la rivoluzione d’Ottobre e dopo la firma della pace con gli Imperi centrali, la malattia dilagò nelle città e nei villaggi delle campagne. Il caos, in cui il paese precipitò con la guerra civile tra bolscevichi e controrivoluzionari “bianchi” e con la successiva guerra contro la Polonia, non migliorò certo la situazione, come le parole pronunciate da Lenin al Consiglio dei Commissari del Popolo del 5 dicembre 1919 lasciano intendere: “Compagni, dobbiamo concentrarci per intero su questo problema. O i pidocchi sconfiggono il socialismo, oppure il socialismo sconfiggerà i pidocchi!” (p.47).
E nel 1914, Fleck e Weigl, entrambi sudditi dell’Impero austro-ungarico, furono arruolati e abbandonarono Leopoli per entrare nel corpo medico dell’esercito, per il quale Rudolf Weigl diresse il laboratorio militare di Przemyśl, dove continuò a lavorare anche a guerra conclusa e dove, nel 1919, assunse come suo collaboratore Ludwig Fleck. Arthur Allen, in modo tanto puntuale quanto coinvolgente, ricostruisce e narra le vicende biografiche e professionali dei due scienziati, che, ritornati a Leopoli, separarono le loro strade, ma l’antisemitismo via via crescente nella nuova Polonia di Piłsudski non facilitò certo la carriera professionale dell’ebreo Fleck, che si ritrovò ai margini del mondo accademico, mentre non incontrarono questo tipo di ostacolo le ricerche di Weigl, la notorietà del quale crebbe sia in patria sia a livello internazionale.

Di grande interesse storico-scientifico risultano le parti del libro che ricostruiscono il “metodo Weigl” di produzione del vaccino contro il tifo e le attività del suo laboratorio di Leopoli, dove, sia negli anni precedenti lo scoppio del secondo conflitto mondiale sia in quelli successivi al 1’ settembre 1939, il centro di gravitazione dell’intero lavoro erano proprio i pidocchi, in un bizzarro rovesciamento di ruoli tra gli addetti del laboratorio e gli insetti stessi, che di fatto fece dei primi (gli addetti) delle cavie dei secondi (i pidocchi).
A causa della difficoltà dei microbiologi del tempo di crescere in brodi di coltura artificiali o in topi ed altre cavie il batterio Rickettsia prowazekii, Weigl pensò di produrne in quantità sufficiente, prima per lo studio e poi per la produzione del vaccino, usando i pidocchi ed alimentandoli con sangue umano, sia prima sia dopo averli infettati con il batterio del tifo, inoculandolo direttamente nel corpo degli insetti stessi. In tal modo a Leopoli nacque la professione di “alimentatore di pidocchi”. “Eravamo conigli da esperimento” – disse anni dopo un “alimentatore” di Weigl – “ma non ce ne curavamo” (p.191). Ma innanzi tutto “c’erano i coltivatori, i quali allevavano i pidocchi a partire dalle uova […]. Il livello successivo della piramide era costituito dagli alimentatori, suddivisi in due categorie: gli aristocratici, che nutrivano i pidocchi infetti, e i plebei […], che nutrivano quelli sani. […] Poi venivano gli inoculatori e quindi i dissettori. In cima alla piramide stava il Professore, il gran sacerdote dell’arte magica del tifo” (p.173). Queste parole del poeta e romanziere Mirosław Żuławski, a sua volta impiegato come “alimentatore”, e riportate da Allen, rendono efficacemente l’idea di come apparisse agli occhi di un abitante di Leopoli il “fantastico laboratorio del dottor Weigl”: un luogo misterioso, ma nelle attività del quale si riponevano grandi speranze di debellare una malattia terribile; un luogo pericoloso, ma al tempo stesso un porto sicuro, perché chi vi accedeva riceveva una retribuzione (più alta nel caso di un alimentatore “aristocratico”), del cibo e soprattutto l’Ausweis, la tessera da esibire ai posti di blocco della Gestapo e che rendeva il suo possessore una persona utile allo sforzo militare tedesco e quindi lo proteggeva dall’arresto e dalla deportazione. I pidocchi, chiusi in piccole gabbiette di legno con un lato consistente in un retino/setaccio, venivano applicati alle gambe degli alimentatori e “a ciascun alimentatore era possibile attaccare fino a 44 gabbiette […]. I pidocchi succhiavano il sangue per 45 minuti al giorno per un periodo di 12 giorni. […] In media una persona nutriva 25000 mila pidocchi al mese, dalla schiusa delle uova alla maturità” (p.174). Poi intervenivano gli inoculatori che, con uno strumento pensato e realizzato dallo stesso Weigl, immobilizzavano i pidocchi e inoculavano nell’ano dell’insetto una goccia microscopica di soluzione di Rickettsia prowazekii. I pidocchi infettati dovevano, con lo stesso metodo, essere alimentati, ma da persone sopravvissute al tifo e quindi immuni ed infine venivano i dissettori, che estraevano l’intestino del pidocchio, quando la popolazione di batteri era cresciuta a sufficienza e da questo era possibile produrre il vaccino.
Il laboratorio del dottor Weigl divenne un luogo di importanza strategica nella città di Leopoli, lo era per i nazisti che fecero di esso e dell’analogo laboratorio di Cracovia, posti entrambi sotto la supervisione di Hermann Eyer, i centri di produzione del vaccino, ma lo era anche per l’intellighenzia leopolitana, in quanto Weigl fece di tutto per arruolare come collaboratori e “alimentatori”, in tal modo proteggendoli, intellettuali, scienziati, matematici, artisti, accademici. Ma anche gente comune si salvò, entrando a far parte dello staff del dottore e soprattutto uomini e donne delle resistenza polacca trovarono rifugio nel laboratorio, che dava loro protezione e una insperata possibilità di movimento relativamente sicuro. A tutto questo si aggiungano le forniture clandestine di 30000 dosi di vaccino per il ghetto di Varsavia e per altri ghetti, talvolta giunte a destinazione grazie ad atti di coraggioso eroismo e talvolta a seguito di commerci molto lucrosi di trafficanti senza scrupoli. Certamente tutto ciò fu possibile ad un prezzo: la fornitura del vaccino alle autorità della Wehrmacht che gestivano il laboratorio e che pressantemente lo pretendevano. Nonostante, nella Polonia successiva alla guerra, Weigl sia stato messo ai margini del mondo accademico e scientifico e addirittura sospettato di collaborazionismo per aver prodotto vaccino per molte miglia di soldati tedeschi, Allen ci spiega come fosse infondata ed offensiva, e forse dovuta soprattutto a rivalità e invidie accademiche, tale interpretazione dei fatti: “Il laboratorio di Weigl fu una forza benefica. Non poteva raggiungere la perfezione morale” (p.322). Una conclusione, questa dell’autore, che sembra riprendere e correttamente applicare al caso di Rudolf Weigl il profondo ed inquietante concetto della “zona grigia” elaborato da Primo Levi, che meglio di ogni altro sopravvissuto all’orrore del sistema concentrazionario nazista ha spiegato come in quei luoghi e in quelle circostanze la “perfezione morale” fosse un valore e inconcepibile e irrealizzabile, se non addirittura controproducente.
Meno convincente, nonché ormai ampiamente superata in campo storiografico, ci sembra, invece, la lettura in chiave piattamente intenzionalista che, seppur solo in un punto del libro, Allen avanza riguardo ai ghetti dai tedeschi eretti nella Polonia occupata, presentati come uno strumento predisposto per avvicinare la popolazione tedesca alla logica e alla pratica di un genocidio da sempre concepito e progettato dal regime, ma non attuabile da un giorno all’altro. Certamente condivisibile, invece, l’argomentazione che l’autore propone sulla scorta di Christopher Browning – a cui potremmo aggiungere G. L. Mosse e tanti altri – secondo la quale la tesi della (pseudo)medicina razziale nazista per cui il tifo sarebbe una malattia essenzialmente ebraica, di cui gli ebrei sarebbero, esattamente come i pidocchi con cui la propaganda antisemita li identificava sistematicamente, il vettore razziale e geografico, contribuì in modo decisivo a legittimare l’iniziativa, per dir così, di igiene e profilassi, consistente nella costruzione dei ghetti chiusi, che a loro volta produssero proprio le condizioni migliori affinché si scatenassero terribili epidemie di tifo, che sembravano confermare il pregiudizio antisemita nazista. E così “le profezie autoavverantesi dei dottori nazisti cominciarono dunque ad avverarsi” (p.146). Il ghetto quindi rendeva gli ebrei identici al volgare paradigma di loro tratteggiato dall’odio antisemita.

E a lavorare in un ospedale del ghetto di Leopoli si ritrovò Fleck, quando la città, prima occupata dai sovietici, venne conquistata dai nazisti e si scatenò la furia antisemita e non solo delle truppe tedesche e delle SS, ma anche delle squadracce dei nazionalisti ucraini, come quelle di Stepan Bandera, ultranazionalista, fascista, collaborazionista e antisemita, che proprio in questi ultimi anni e mesi è ritornato alla ribalta nell’Ucraina occidentale e la cui effige compare ripetutamente in piazza Maidan a Kiev nelle manifestazioni degli ultranazionalisti di destra antirussi (i ricorsi della storia, conseguenti alla sua ignoranza o sottovalutazione, lasciano spesso disarmati e senza parole!). Ma Fleck, per quanto ebreo polacco, era uomo prezioso per i tedeschi, soprattutto dal momento in cui Himmler dispose che tutti, anche gli ebrei e gli scienziati prigionieri in particolare, dovevano contribuire allo sforzo bellico per la vittoria del Reich millenario. Sulla base di queste disposizioni Joachim Mrugowsky, igienista capo del Reicharzt delle SS Ernst Robert Grawitz, incaricò il capitano Robert Weber di allestire e dirigere un laboratorio batteriologico ad Auschwitz. Nel febbraio del 1943 Ludwig Fleck e la sua équipe furono trasferiti nel Blocco 10 di Auschwitz. Contrariamente a quanto accadde a centinaia di migliaia di altri deportati da ogni parte d’Europa, Fleck ad Auschwitz riuscì a sfruttare a proprio vantaggio il bisogno che i tedeschi avevano delle sue competenze scientifiche. Dopo qualche mese fu trasferito nel sottocampo di Rajsko, dal nome del paesino a pochi chilometri da Oświęcim, che “paradisiaco” – questo è il significato della parola polacca rajsko – lo era veramente a confronto delle inumane condizioni di Birkenau o Buna Monowitz: nel laboratorio di Rajsko, Fleck e i suoi uomini vivevano in condizioni accettabili. Ma nel dicembre del 1943, le competenze di Fleck furono richieste dal dottor Erwin Ding-Schuler, medico sadico e criminale di Buchenwald, che intendeva produrre un vaccino contro il tifo, col quale sperava di ottenere riconoscimenti accademici ed avanzamenti di carriera.
Quando Fleck arrivò nel terribile lager nei pressi di Weimar, il laboratorio di Ding-Schuler applicava, in modo inconcludente e con esiti negativi, la procedura di produzione del vaccino Giroud, quindi non quella di Weigl, utilizzando una concatenazione di cavie da infettare e per ultimi i conigli. Solo l’arrivo di Fleck e la fornitura di materiale adeguato dal laboratorio di Cracovia di Eyer consentì infine di arrivare all’agognato risultato, che illuse Ding-Schuler di poter ottenere le promozioni sperate e che permise agli uomini del laboratorio di sopravvivere, sì da schiavi, ma in condizioni incomparabilmente migliori degli altri internati ed infine diede loro l’occasione anche di mettere in atto una clamorosa operazione di sabotaggio, ancor più temeraria di quella di Weigl e del suo laboratorio di Leopoli. Non avendo il centro di Fleck a Buchenwald la possibilità di produrre grandi quantità di vaccino, fu presa la decisione di realizzarne di due tipi ben diversi: uno efficace, prodotto in piccole quantità da utilizzare per gettare fumo negli occhi ai nazisti in occasione dei controlli di routine e per vaccinare alcuni gruppi di prigionieri del campo, l’altro del tutto inefficace e quindi inutile, prodotto nelle quantità richieste da Ding e inviato alla Wehrmacht per la vaccinazione dei soldati.

Per concludere questo excursus attraverso l’interessante e bel libro di Allen, occorre spendere qualche parola per segnalare come l’autore in più punti si soffermi a considerare le riflessioni filosofiche ed epistemologiche di Ludwig Fleck, quanto mai all’avanguardia nel contesto culturale e scientifico degli anni Venti-Quaranta e che sembrano molto vicine alle riflessioni della epistemologia popperiana e post-popperiana, in particolare a quelle di Thomas Khun.
Il nucleo centrale della sua epistemologia consiste nella convinzione circa la relatività delle conclusioni scientifiche e, più in generale, circa il carattere socio- culturale della scienza, che, lungi dall’essere il prodotto di una isolata azione geniale ed individuale di una sorta di “scienziato eroe”, si produce e progredisce grazie all’opera di collettivi di pensiero. Si tratta, pertanto, di un’indagine collettiva, inserita in un contesto sociale e culturale che la indirizza e la condiziona. Lo stesso Fleck così si esprimeva: “Ciò che pensa realmente all’interno di un individuo non è l’individuo stesso ma la sua comunità sociale. La sua mente si struttura sotto l’influenza di questo ambiente sociale sempre presente” (p.75). Potremmo dire che Fleck interpreta in senso marcatamente sociologico le acquisizioni della riflessione epistemologica contemporanea, che, abbandonando l’idea moderna della possibilità, attraverso opportune procedure e regole, di predisporre un intelletto, per dir così, assoluto e neutro in grado di porsi dinanzi alla natura per rispecchiarla, sviluppa la teoria, già kantiana, della ragione che forza la natura, imponendosi ad essa e cogliendo in essa solo ciò che intende ed è in grado di trovarvi. Ne consegue che, come i collettivi di pensiero all’interno dei quali la scienza si sviluppa e come i relativi contesti socio-culturali, anche le verità scientifiche mutano e si avvicendano nel corso della storia, proprio sotto la pressione delle richieste e delle esigenze sociali. Non esistono verità pure e le scienze naturali elaborano enunciati che sono prodotti culturali e pertanto – scrive con acutezza Fleck – quando gli scienziati “penetrano sempre più a fondo negli oggetti si trovano più distanti dalle “cose” e più vicini ai “metodi” (p. 105). I collettivi di pensiero, poi, si distinguono in gruppi esoterici, formati dagli scienziati in senso stretto, che condividono un sapere altamente specializzato, procedure, metodi, “segreti dell’arte”, ecc e gruppi essoterici, costituiti da chi specialista non è, ma nutre forti interessi verso la scienza. Ed entrambi i collettivi sono inseriti nel quadro complessivo della società di appartenenza con cui intrattengono costanti e vitali rapporti di interscambio. Il lavoro che prevalentemente la scienza opera consiste nel riportare i fatti, sempre per loro natura particolari, all’interno del generale quadro euristico di riferimento condiviso dal collettivo di pensiero della scienza stessa, almeno fino a quando questa attività risulta possibile, anche attraverso forzature e distorsioni dei dati stessi, accomodati di volta in volta al paradigma interpretativo; almeno fino a quando essa non venga messa in crisi da fenomeni ripetutamente eccentrici rispetto al quadro di riferimento.
Queste illuminanti riflessioni di Fleck furono, come è facilmente immaginabile, riprese e sviluppate da Thomas Khun, quando, negli anni ’60, elaborò la sua teoria delle rivoluzioni scientifiche.

__________________

[Si segnala la presenza di un errore a pag. 50, dove si dice: “Nel 1917 il giovane campione della lotta contro il tifo fu presentato all’imperatore Francesco Giuseppe, giunto in visita alle fortificazioni di Przemyśl”, ma l’imperatore Francesco Giuseppe era morto il 21 novembre 1916. La svista non inficia, evidentemente, la validità del lavoro complessivo di Arthur Allen e il considerevole interesse del suo libro]. (A.L.)