di Sandro Moiso

ricciardi Salvatore Ricciardi, Cos’è il carcere. Vademecum di resistenza, DeriveApprodi 2015, pp.128, euro 12,00

E’ qui in galera che l’ordine ti si rivela «per quello che è: violenza quotidiana che ti si abitua ad accettare come ordine»” (Lettera dal carcere di Torino, autunno 1969)

Nel 1999 comparve in Cina un testo destinato a fare epoca nella letteratura militare.1 Era stato concepito, fin dal 1996, da due colonnelli superiori delle forze armate della Repubblica Popolare Cinese in occasione della revisione strategica messa in atto in Cina a partire dalle osservazioni svolte sulle più moderne modalità operative delle forze armate statunitensi durante la prima guerra del Golfo.

Si fingeva così di scoprire a livello internazionale, grazie alle traduzioni del testo operate prima dall’ambasciata statunitense a Pechino e successivamente direttamente dalla CIA, ciò che spesso i teorici della guerra di guerriglia, da Giap a Guevara passando per Carlos Marighella, avevano esposto ormai da decenni. Ovvero come fosse possibile mantenere aperti dei conflitti, e magari vincerli, in condizioni militari estremamente sfavorevoli, almeno sulla carta, per una delle due parti in causa. Utilizzando in maniera diversa ed innovativa le risorse disponibili, spesso scarse, in un conflitto di carattere non convenzionale.

Se novità vi era in quel testo, in cui l’utilizzo militare di strumenti che apparentemente di militare non avrebbero nulla costituisce una delle chiavi più importanti per la conduzione di un conflitto, certamente era rappresentata dall’importanza attribuita, come poi si è effettivamente potuto accertare nei due decenni successivi al suo concepimento, alla disinformazione, all’hackeraggio e agli attacchi in rete alle istituzioni politiche e finanziarie e all’utilizzo della stessa a livello di propaganda e diffusione di notizie reali o costruite ad arte. Naturalmente il dibattito, che tendeva ad essere racchiuso e mantenuto interamente all’interno della sfera del pensiero militare, non teneva conto del fatto che tale guerra asimmetrica è in corso ormai da quasi tre secoli tra lavoro e capitale. Tra sfruttati e sfruttatori.

Una guerra, quest’ultima, fatta da una parte di licenziamenti, precarietà, negazione dei più elementari diritti sindacali, aumenti degli orari di lavoro, riduzioni salariali, repressione, carcerazione, minacce e omicidi travestiti da incidenti sul lavoro e dall’altra di rifiuto della disciplina del lavoro, auto-organizzazione, sabotaggi, assenteismo, scioperi, picchetti, espropri, evasioni, rivolte e suicidi. Forme quasi tutte legali nel primo caso e quasi tutte rientranti nell’illegalità punibile con il carcere nel secondo.

Il magnifico, commovente ed utilissimo testo di Salvatore Ricciardi (classe 1940 ed ex-detenuto per fatti legati alla storia della lotta armata in Italia e delle BR in particolare) ha il grandissimo merito di dimostrare che se in carcere tale verità diventa evidente in maniera quotidiana, è anche vero che il carcere, per sua intima e insopprimibile natura, diventa metafora delle condizioni di vita e di resistenza di milioni di individui che soltanto il formalismo della cosiddetta democrazia borghese può ritenere “liberi”.

Tutti pensano, infatti, di sapere cos’è il carcere, tanto da far sembrare, di primo acchito, un po’ scontato il titolo del libro. Si parla, si discute, si blatera del carcere e del suo ordinamento, così come si fa gran rumore, specie oggi, sui media di ogni risma e colore sulle leggi migliori da applicare per questo o quel reato. Ma una società che sa soltanto legiferare, senza risolvere i problemi e le contraddizioni alla base dei reati, di qualsiasi tipo, ha già fatto le sue scelte, tutt’altro che inconsapevoli, di classe.

Di carcere si parla e si scrive: articoli su giornali e riviste, libri, programmi televisivi, canzoni. Giuristi, criminologi,magistrati, avvocati, attori e scrittori, parlano di carcere. Ognuno mette in luce qualcosa che non va. Lo fanno anche le guardie carcerarie e i loro sindacati. Sono tante le cose che non vanno in carcere, dicono, e scrivono e fanno convegni e dibattiti. Fanno ricorso alla Corte europea e questa ‹‹richiama›› lo Stato italiano perché non rispetta i diritti umani, e allora tutti a strillare allo scandalo e a strapparsi i capelli: che vergogna! Ma poi alla fine i capelli restano al loro posto e il carcere resta quello che è, quello che è sempre stato: sofferenza, distruzione, annichilimento della personalità, prostrazione, infantilizzazione” (pag.30)

In carcere l’individuo lotta quotidianamente per non soccombere, per non abbandonarsi all’idea della morte e del suicidio, per non cedere davanti a tutti i soprusi che ne scandiscono il tempo quotidiano. Già, il tempo… “In carcere non c’è tempo perché non c’è attività, se per attività intendiamola trasformazione intenzionale e finalizzata della forma e dello stato di un oggetto, di un ambiente, di se stessi […] Se non c’è cambiamento il tempo non c’è. In carcere il tempo è assente, è immobile non scorre […] Dal momento dell’‹‹arresto››… Arrestare, fermare, frenare, interrompere, sospendere, far cessare, terminare, bloccare, troncare, catturare,immobilizzare, incatenare, ammanettare, mettere in manette, carcerare, imprigionare, incarcerare. Sradicare […] Il senso della carcerazione sta tutto nella parola ‹‹arresto››, e nei suoi significati estesi. Assomiglia a uno sradicamento, a un azzeramento dell’identità” (pp.15–18)

Tempo: elemento prezioso per il calcolo delle ore di lavoro prestato o per quello degli anni di pena.Tempo dello sfruttamento e della prigionia.
Tempo, comunque, dell’alienazione umana. Il tempo della specie è un altro. E sul tempo lo scontro asimmetrico è sempre in atto: in carcere, in fabbrica e nella vita di ogni giorno. “L’attività si conquista quando si opera contro il carcere, e i preparativi per un’evasione o per una rivolta. Nel segare le sbarre, scavare un buco, imboscare un arnese costruire un coltellaccio, intrecciare una corda eccetera ci si rimpossessa del tempo e dello spazio, e il carcerato in quelle ore torna ad essere un soggetto sociale” (pag.15)

Così come “fuori” si conquista il tempo di vita, che non corrisponde al banale tempo libero, solo attraverso le lotte, oppure attraverso la ridefinizione di un’identità sociale, di classe o etnica, che non è mai concessa soltanto attraverso il diritto così come il diritto da solo non garantisce la libertà degli individui. Classi, individui non schiavizzati e nazioni (là dove ancora mancano) si formano soltanto attraverso le battaglie e le lotte che, definendo un territorio che non sia soltanto il banale non-luogo della sopravvivenza fisica, unificano il tempo con lo spazio.
Nel fare ciò la lotta di classe e le lotte degli oppressi si liberano dalla dipendenza dalla geometria euclidea, che fondava il meccanicismo della fisica tradizionale proprio sulla separazione tra tempo e spazio, e sembrano confermare, in maniera indiretta, la più moderna concezione einsteniana, nella quale tempo e spazio diventano una cosa sola. In cui il tempo ha smesso d’essere soltanto una questione oggettiva, misurata dagli orologi e indipendente dalle sensazioni e opinioni dell’uomo.

E’ dunque possibile per Ricciardi stabilire che il tempo carcerario, ma sarebbe possibile farlo anche per quello di vita, si scompone in vari “tempi”: il tempo della passeggiata all’aria, il tempo della negoziazione, il tempo dell’impotenza, il tempo della pena e del degrado sociale, il tempo della sofferenza , il tempo del corpo, il tempo dell’intossicazione, il tempo della solidarietà, il tempo della rivolta. Ai quali, nel libro, l’autore ne aggiunge ancora molti altri.

Ed ogni tempo ha il suo spazio: la cella, il cortile, i corridoi, la cella di isolamento, addirittura quello dello spioncino. Così come la vita e il lavoro conoscono lo spazio lavorativo, la fabbrica, l’ufficio, la scuola; quello della sopravvivenza, l’alloggio mono-famigliare, il supermercato, gli spazi dediti ai servizi o al “divertimento e, infine, lo spazio della rivolta, le piazze, le strade, le periferie, le città, le montagne, le valli, i deserti e le foreste. Ogni tempo ed ogni spazio richiedono rituali particolari, attenzioni specifiche e risposte adeguate.

La guerra asimmetrica tra capitale e lavoro e tra detenuto e carcere, tra individuo e stato inizia spesso dalla cura del proprio corpo e dall’attenzione al sé. “La galera impone il dolore, il carcerato cerca di farselo alleato, perché non può evitarlo. Non può scacciarlo perché è prodotto da fatti esterni a lui, allora sperimenta pratiche per farselo amico, anche propinandoselo volontariamente in dosi controllate: l’autolesionismo, il tatuaggio, l’attività fisica spinta fino all’esaurimento” (pag. 58).Così: “Per il prigioniero il corpo reale è un territorio di resistenza” (pag.70)

Ma la sofferenza non è una via verso la liberazione: “La sofferenza divide, non è vero che la sofferenza accomuna […] Il prigioniero è egoista. Non può fare diversamente” (pag.60) Il cristianesimo è sconfitto in carcere e la liberazione può arrivare soltanto negando qualsiasi pentimento o accettazione passiva del dolore inflitto dalla punizione o dalla tortura, così come il presunto libero arbitrio in una società divisa in classi può appartenere, individualmente, soltanto a chi ha il potere di fare le leggi e di stabilire i limiti della morale e dell’etica.

I prigionieri di lungo corso sanno che “a prova di evasione e di rivolta è solo quel carcere dal quale i detenuti non pensano più di evadere né di ribellarsi” (pag. 71) E che: “quando un detenuto si occupa e preoccupa del buon funzionamento del carcere allora è diventato proprio un «detenuto»” (pag.52). Il tempo di riappropriazione della vita inizia soltanto con la rivolta e, magari, con l’occupazione di uno spazio: carcere, piazza o fabbrica che sia.

Non a caso carcere e fabbrica sono nati insieme, nello stesso periodo e con le stesse modalità coatte.2 Non a caso entrambi i luoghi sono diventati scuola di violenza, ma anche di organizzazione, di rivolta e di rivoluzione. Tanto per i comunisti e per gli anarchici dell’ottocento e del novecento quanto per tanti giovani antagonisti e/o delle banlieue di oggi.3 Oppure per i giovani neri dei Black Panther delle passate stagioni di lotta e per lo stesso Malcom X: tutti incarcerati senza, spesso, aver neppure potuto scegliere tra legalità e illegalità. Illegali dalla nascita alla morte, come ben dimostra la storia di George Jackson.

Là dove la sofferenza è massima, là dove il corpo e la psiche sono quotidianamente umiliati e calpestati, là si capisce che l’unica strada del riscatto passa per la rivolta. “Rinchiusa nelle mura di un carcere la persona scopre capacità di resistenza impensabili. Anche individualmente. La cura eccessiva di se stessi, del proprio aspetto, il corpo come baluardo della resistenza stanno a significare: tu carcere non mi devasti […] Ma è la lotta collettiva del carcerato che rompe la solitudine“ (pp. 69–70) Deve essere chiaro, però, che in qualsiasi ambiente o in qualsiasi situazione caratterizzati da forti tensioni e pesanti contraddizioni di classe, può succedere, come per la fisica dei fluidi, che se uno spazio di organizzazione politica e di identità sociale sarà lasciato vuoto, da una corrente o da una ideologia politica, sarà sicuramente un’altra forma di organizzazione ad occuparlo prendendone il posto. Pena l’irrimediabile sconfitta e la morte degli oppressi.

La morte è entrata prepotentemente in carcere: circa 200 deceduti l’anno, di cui 60 per suicidio. Il cosiddetto «carcere violento», quello delle rivolte, non registrava una strage delle dimensioni del «carcere pacificato» che ha triplicato i suicidi […] Quarant’anni fa i detenuti si uccidevano con una frequenza sei volte superiore rispetto alla popolazione libera, oggi la frequenza è venti volte superiore” (pp. 30–31) Senza contare le violenze delle forze del dis/ordine e delle guardie carcerarie, da Bolzaneto a Stefano Cucchi (solo per citare gli esempi più noti).

Come afferma e dimostra benissimo l’autore, i diritti sono soltanto una questione di rapporti di forza. “Facciano pure la loro battaglia i giuristi, gli avvocati, gli uomini e le donne che si occupano di tradurre sul terreno giuridico le conquiste delle lotte sociali. Ma una legge potrà servire solo se si collocherà all’interno di una ripresa di iniziative dei movimenti contro la repressione. Non illudiamoci, cioè, che una legge di per sé, anche se ben congegnata, possa fermare l’offensiva del sistema che ha per obiettivo impedire la diffusione dei conflitti tramite una repressione sempre più preventiva” (pp. 83-84) Mentre, attraverso mille misure di sicurezza, il carcere si è espanso sempre più verso l’esterno. Con le telecamere, i controlli e le misure alternative alla detenzione. Nei soli Stati Uniti “a fronte di 2 milioni di persone detenute in carcere, ve ne sono più di 3,5 milioni in controllo penale esterno” (pag. 85)

Questo autentico vademecum per tutti i possibili carcerati di oggi e di domani diventa così una lettura e uno strumento di riflessione importante, forse obbligato, grazie anche alla bella prefazione di Erri De Luca e al ricco glossario di termini tratti dal gergo carcerario che lo accompagnano. Perché “Non bisogna subire l’inganno dell’eternità. Ogni cosa avviene in un certo tempo. Poi passa. Passano le idee, le passioni, gli imperi e le nazioni. Tutto è in movimento e legato al suo tempo. Anche il carcere passerà e balleremo sulle sue macerie” (pag. 14)


  1. Qiao Liang – Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione, edizione italiana a cura del generale Fabio Mini, Libreria Editrice Goriziana 2001  

  2. Per approfondire il tema si consigliano gli importantissimi: Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario. Sistema carcerario e rivoluzione industriale inglese (1750 – 1850), Mondadori 1982 e Dario Melossi – Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario, Quaderni della rivista «La questione criminale» N°1, Società editrice il Mulino, Bologna 1977  

  3. Si vedano in proposito il bel romanzo di Aziz Chouaki, La stella di Algeri, edizioni e/o 2003 che sembra drammaticamente anticipare il percorso di uno dei due fratelli Kouachi, e il film Il profeta di Jacques Audiard, Francia 2009