di Dziga Cacace

Mi sembra che abbiamo chiarito tutto e io, allora, me ne andrei… (Fantozzi)

ddv5601547 – Il capolavoro Divorzio all’italiana di Pietro Germi, Italia 1962
Quanta magnificenza. È una mattinata luminosa a Champoluc. Barbara allatta Sofia e commette l’errore di chiedermi di accendere la tivù, per passare il tempo. RaiTre. Fuochi d’artificio su sfondo nero, la scritta Lux e la prima scena del film di Germi. Siamo catturati, prigionieri, mani in alto, e non proviamo a fuggire, macché: Divorzio all’italiana è un masterpiece ineludibile: ritmatissimo, trascinante, zeppo di battute e situazioni, con interpretazioni memorabili e una regia sempre in movimento, avvolgente come il caldo del sud che rende abulico il magnifico don Fefè Cefalù di Marcello Mastroianni. Girato a Ragusa, fotografato e musicato magistralmente, è uno di quei film in stato di grazia, dove nulla sembra fuori posto. Don Fefé vive nella solatìa Agramonte, da nobile spiantato in lento ma inesorabile declino. È sposato all’ignorante e soffocante Rosalia, ma ama la nipote Angela, una Stefania Sandrelli appena sbocciata. Per liberarsi della moglie c’è un solo modo: approfittare della vergognosa legge italiana che trova per il delitto d’onore bastevole giustificazione nelle corna dell’assassino. Il piano di Fefé è perfetto, tanto che il suo architettare e complottare è già commentato dalla stentorea voce dell’avvocato che – quando a processo – saprà toccare le giuste corde della corte: Rosalia finisce nella braccia dell’ingenuo Carmelo Patané. Il tradimento si consuma e la gente di Agramonte pretende che Fefé difenda il suo onore. Si beccherà tre anni e, uscito, sposerà finalmente Angela. Che però… Grandissimo film dal primo all’ultimo minuto, dove si misura tutta la distanza tra il cinema nostrano di ieri e quello sfiatato di oggi: la scrittura è raffinata e colta ma non rinuncia mai al divertimento, ricordandosi che un film è un’opera d’arte che può intrattenere. Capolavoro unico. (Diretta su RaiTre; 2/8/05)

???????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????548 – Un altro capolavoro: Hannah and Her Sisters di Woody Allen, USA 1986
Forse sbaglio, ma questo mi pare l’ultimo grandissimo film di Woody Allen. Dopo non sono mancati i film molto riusciti (Crimini e misfatti o Mariti e mogli), quelli non all’altezza dell’intuizione (Harry a pezzi) e quelli decisamente brutti (non li elenco, sono tanti, troppi). Qui, invece, Allen raggiunge l’equilibrio estremo tra commedia e dramma, sapendo essere leggerissimo e intensamente esistenziale. I personaggi di Hannah e le sue sorelle sono tra quelli tratteggiati meglio nella sua carriera, psicologicamente definiti con pochi essenziali colpi di pennino. L’uso magistrale delle diverse voci off ci porta in un’austera New York autunnale (i punti cardine sono tre Thanksgiving) in cui Hannah e le sue due sorelle vivono le loro storie d’amore, intrecciandosi e senza saperlo, ma aiutandosi e ferendosi. Perché si campa così, la vita è questa, e Woody lo racconta senza grandi proclami ma con sublime sommessità e la risposta al mistero del nostro passaggio sulla terra è in un film dei fratelli Marx. Film amaro più di quanto sembri, ma con una luce immensa in fondo. Cinematografia composta, pulita, tanto montaggio interno, una certa classe nella fotografia di Carlo Di Palma, musiche struggenti e grandissime interpretazioni che valsero l’Oscar a Dianne Wiest e Michael Caine. Nessuno premiò Barbara Hershey, ma idealmente lo abbiamo fatto Pier Paolo e io. Hannah e le sue sorelle lo vidi tre volte al cinema, all’uscita. Me ne innamorai e non m’è ancora passata. Ottimo. (Dvd; 2/8/05)

ddv5603549 – Il terzo capolavoro di fila: Salvatore Giuliano di Francesco Rosi, Italia 1961
A giudicare dalla programmazione mattutina di RaiTre sarà un agosto interessante. Barbara non è tanto d’accordo, ma io conosco i miei polli e, anche se è una delle più belle giornate di tutti i tempi, con un cielo azzurrissimo sul Monte Rosa, basta farle vedere l’incipit del film e anche lei rimane stregata e condannata a seguirlo sino alla fine, con la piccola Sofia ignara e poppante. L’opera di Rosi è un capolavoro di equilibrio: perfetto come documento di controinformazione e come oggetto cinematografico, dove l’intersecarsi dei piani temporali è una scelta artistica impegnativa e felice. Il bandito Salvatore Giuliano, prima combattente per l’indipendenza siciliana, poi capobanda probabilmente al soldo della mafia, non viene mai fatto vedere in faccia, se non da morto. C’è una distanza, un’oggettività, per un personaggio sul quale anche la regia (e la sceneggiatura) pone più dubbi che certezze. Il vero protagonista emerge nella seconda parte ed è Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, con antagonista Salvo Randone nella parte del giudice che tenta di dipanare una matassa ingarbugliata ancora oggi. Da buon film-inchiesta, Salvatore Giuliano talvolta soffre di didascalismo e la voce narrante risulta un po’ didattica, ma la visione non ne risente. Messa in onda perfetta, come ieri per Divorzio all’italiana, con pieno rispetto del formato originale. Si apprezza il clamoroso lavoro di De Venanzo sulla fotografia di volti e paesaggi (il film è stato girato on location), una ricerca cromatica e compositiva che credo – ed è brutto dirlo – oggi non sfiori neanche la minima parte dei direttori della fotografia italiani. (Diretta su RaiTre; 3/8/05)

ddv5604550 – Il tersicoreo Saturday Night Fever di John Badham, USA 1977
Il passare del tempo aveva idealizzato nella mia memoria il valore di questo astuto filmetto che seppe agganciare la declinante moda delle discoteche di New York e dintorni e rilanciarla, rendendola un fenomeno globale. La storia è nota: Tony Manero, bravo ragazzo (ma anche omofobico, razzista e maschilista) che di giorno fa il commesso e il sabato sera domina la pista della discoteca Oddissey 2001 (sic, c’è il giochino di parole), sogna di attraversare il ponte di Brooklyn e guadagnarsi una nuova vita “dove accadono le cose”, a Manhattan. Il desiderio si avvererà nell’immondo Stayin’ Alive, commesso da Stallone anni dopo: per ora Tony trova solo un instabile equilibrio tra amici rissosi, sesso facile, un posto di lavoro che sembra una condanna e una famiglia normalmente anormale. La regia è professionale ed anonima (Badham fu convocato al posto di John G. Avildsen – già Oscar con Rocky – a due settimane dall’inizio delle riprese) e se si fa notare è per qualche bestiale primo piano flou o per dei rallenti incongrui. La vera cifra stilistica la danno le tante scene di ballo, tecnicamente teatrali e semplicissime, ma coinvolgenti grazie a un montaggio dinamico. La sceneggiatura ha invece il pregio di restituire una dimensione urbana – quella al di là del ponte – per niente glamour. Il linguaggio e le situazioni sono crude, improntate a un realismo che non sembra di maniera. Dove lo script vacilla è nella definizione del rapporto tra Tony e la stronzetta snob Stephanie, ma tutto non si può avere, dài. Il film fece faville in tutto il mondo, lanciò il travoltismo e condannò una generazione al ballo, facendo dimenticare la dimensione live della musica. A posteriori un disastro, ma non voglio fare il moralista, anche perché la colonna sonora del film è oggettivamente clamorosa: impossibile resistere all’impulso irrefrenabile di agitare il bacino. E vi lascio immaginare le mie doti danzerecce, tipo ippopotamo in acido. Travolta è bravo: regge il film sulle sue spalle e ha la faccia giusta, tra innocenza, speranza e cattiveria. Il resto del cast è funzionale, a parte l’inespressiva Karen Lynn Gorney, la Stephanie compagna di ballo di Manero. A corredo del film un ottimo documentario di VH1: Travolta ricorda come salvò alcune scene di ballo (dando precise indicazioni al montatore) e come difese il suo personaggio, facendo allontanare Avildsen che tendeva a edulcorarlo. I comprimari sono invecchiati bene mentre la Gorney, che non ha mai più fatto un belino, ha anche la spocchia di comportarsi da diva. Poverina. (Dvd; 6/8/05)

ddv5605551 – L’andinistico (si dirà così?) La morte sospesa di Kevin McDonald, Gran Bretagna 2004
Complice nonna Mariella, ci concediamo una serata di cinema analogico, nella storica sala di Champoluc ospitata dalla vecchia chiesa. Qui ho esordito con Anche gli angeli mangiano fagioli nel 1979, e da lì in poi ho visto tanti altri filmoni e filmini, anche il mio primo Fantozzi con mia sorella che piangeva inconsolabile nella scena della Bianchina schiantata da una lavatrice la notte di Capodanno… Vabbeh. La morte sospesa è un bel documentario britannico che racconta, attraverso le testimonianze dei protagonisti e la ricostruzione della loro impresa, una delle più famose storie di alpinismo: quando Simon Yates dovette tagliare esattamente la corda, abbandonando l’amico Joe Simpson sulla cordillera andina. Com’è evidente, Joe è riuscito a tornare indietro per raccontarci la sua lotta per la sopravvivenza, ma sapere già com’è andata non toglie alcuna tensione a un racconto tesissimo, ben scandito, forse sfilacciato un po’ nel finale quando il calvario del protagonista angoscia lo spettatore. Ma non dubito che non sia una precisa scelta registica. Premiatissimo in giro per il mondo, non è un film solo per appassionati di montagna, anzi. Peraltro, l’alpinismo è pieno di queste storie: in questi giorni sono state riconosciute le spoglie di Günther Messner, fratello di Reinhold, scomparso sotto una valanga nel 1970, mentre i due tornavano dalla conquista del Nanga Parbat. Dopo 35 anni, il ritrovamento scagiona Reinhold dalle accuse di abbandono del fratellino. (Cinema Sant’Anna; 10/8/05)

ddv5606553 – La gradevole melassa di Orizzonte perduto di Frank Capra, USA 1937
“Non è possibile che voi rinneghiate la verità del vostro sogno migliore”. In questa frase è racchiuso il segreto del successo di un film che, giudicato con gli standard odierni, non può che risultare un pappone fiabesco molto infantile. E che di fiaba si tratti è subito evidente quando entra in scena un personaggio che si chiama Perrault, un vecchio decrepito che regna bonariamente su Shangri-La da qualcosa come trecento anni. Ma andiamo con calma: la Cina è sconvolta dalla guerra civile e dall’invasione giapponese. Robert Conway mette in salvo alcuni occidentali fuggendo da Shangai in aereo, ma viene dirottato in una edenica vallata tra le cime dell’Himalaya. A dispetto di ogni razionalità geografica, il clima è temperato e la gente vive benissimo. E soprattutto a lungo. Vien fuori che Robert – scrittore e avventuriero – è stato prescelto per succedere al morente Lama, il Perrault che si diceva. All’inizio i compagni di viaggio sono negativi, poi vengono conquistati dall’idilliaca condizione. Il pedante paleontologo Lovett, il furfante in fuga Barney e la zoccola malata e redenta (e guarita dalle acque miracolose di Shangri-La) Gloria sono ben felici di lasciarsi alle spalle guerre, disperazione e i problemi della vita quotidiana. Un po’ meno il fratello minore del protagonista, George Conway. Depressissimo, vuole tornare in USA e alla fine convince Robert che, a malincuore, abbandona l’indigena Sondra di cui s’è innamorato. Ma fuori dalla vallata George impazzisce e Robert torna alla civiltà solo dopo immani difficoltà. Resisterà poco e, nonostante lo diano tutti per morto, noi sappiamo che coronerà il suo sogno: tornerà infine alla Terra Promessa. Una favolona dove si mescolano esotismo, melò, avventura, paesaggi straordinari, un pizzico di erotismo e un tranquillizzante messaggio di pace. Non fosse per l’ambientazione, non siamo poi così lontani dal Capra degli eroi borghesi e democratici: in un’America sconvolta dalla Depressione e dalle poco rassicuranti notizie provenienti dall’Europa in fiamme, Orizzonte perduto invita a cercarci la nostra Shangri-La (termine che poi diverrà di uso comune), terra di moderazione, pace e armonia. È un sogno e tutto il film è pervaso da una statica atmosfera onirica. Fu un successo mostruoso, adatto a un pubblico sempliciotto, dove ogni svolta narrativa è abbondantemente anticipata e poi spiegata più volte. Però piacevole, anche se le due ore e mezza del rimontaggio filologico ci sono parse esagerate. Pier e io abbiamo fatto una velocissima introduzione al numeroso pubblico accorso al precario palatenda di Antagnod. Temperatura presunta, circa 6 gradi sopra lo zero: le condizioni meteorologiche ideali per presentare un film ambientato in Tibet. Durante la proiezione c’è stata un’emorragia di pubblico e alla fine ho accomiatato gli spettatori in fuga (era mezzanotte passata) con un patetico: “il dibattito lo faremo la prossima volta”, accolto da educati applausi, but thanks, no, thanks. Poi siamo andati al pub Valhalla a bere della birra. Musica a volume insopportabile, giovinastri esagitati, noi muti testimoni del passare del tempo. L’ultima volta qui sarà stata dieci anni fa e il gggiovane ero io, mannaggia. Orizzonte perduto, tratto da un romanzone di successo, si ispirava alle vicende di George Mallory, l’avventuriero e alpinista che scomparve nel 1924 tentando di conquistare la vetta del mondo. Nel 1999 il ghiacciaio dell’Everest, ritirandosi, ha rilasciato il suo corpo. Nessuno saprà mai se fosse arrivato in cima prima di Hillary e Tensing. (Palatenda, Antagnod; 15/8/05)

ddv5607554 – Il drammatico Citizen Berlusconi di Susan Gray, USA 2003
Trattasi di lacerante documentario trasmesso dalla tivù pubblica americana PBS nell’agosto 2003 e mai ripreso da alcun network italiano, chissà poi perché! L’unico modo per vederselo è comprarsi il Dvd: detto fatto. Non c’è niente che un italiano di media cultura e che legga ogni giorno i quotidiani già non conosca. Solo che i suddetti sono un campione esiguo della popolazione votante e le note vicende qui sono compresse in 55 minuti di narrazione stringata ed essenziale. E fa paura, perché è solo leggendo la sequenzialità delle azioni di Berlusconi nei confronti dei giornalisti non condiscendenti che ci si rende conto del continuo attacco alla libertà di stampa (e di opinione) in atto in questo paese delle banane. Il documentario – secondo anche l’ottica un po’ ipocrita statunitense, per cui quello è il problema più grave – si concentra sull’idiosincrasia di SB verso la stampa non asservita e fa una certa impressione vedere il film adesso, mentre un banchiere vicino al Cavaliere guida l’attacco di una gang di riccastri al Corriere della Sera. Riccastri della cui fortuna si sa poco (esattamente come di quella del Presidente del consiglio) e che, come nel caso di Ricucci, hanno entusiasticamente aderito ai provvidenziali condoni tombali proposti da questo governo. Un documentario come questo, ben montato e frizzante, ci mostra il perpetuo sfondamento di culo che come cittadini subiamo da una decina di anni, ormai dolorosamente abituati tanto da non accorgercene più. Certo, manca una visione più ampia, come una seppur minima riflessione sul ruolo della cosiddetta opposizione che è più spesso entusiastica acquiescenza, tanto la faccia è salva con qualche strilletto e amen. Ma gli yankee volevano il reale Citizen Kane, se no sarebbe diventato un film diverso, girato in tempo reale. E che non mi sarebbe interessato per niente: sono troppo stanco della politica o del suo simulacro dialettico. Io ho perso sempre, anche l’unica volta che credevo di aver vinto. (Dvd; 16/8/05)

ddv5608Titoli di coda
L’estate sta finendo ed è stata una stagione peculiare, punteggiata dagli aerei caduti. Non sarà di sollievo per le vittime, ma gli eventi – statisticamente – si concentrano. Il Genoa è finito in C1 ed è morto un mio idolo di gioventù, Ambrogio Fogar: adesso sui giornali è un tripudio di attestati di stima e amicizia, ma qualche anno fa mancava che si dicesse che gli stava bene, essere rimasto paralizzato. E in questa malinconia di fine agosto, decido di mollare il mio cinediario. Era cominciato tutto per caso, quando Hilda catalogava i film in vista della tesi e io, un po’ per imitazione e un po’ per necessità, avevo cominciato a segnarmi tutto ciò che vedevamo. Lei ha mollato dopo pochi titoli, io ho continuato e a modo mio. Erano noterelle, pareri, curiosità, svolazzi, citazioni e cose che dovevo tenere a mente, e poco a poco s’è trasformato in un diario pubblico e privato, sui film che vedevo e su come li vedevo, in quale situazione storica e personale. Non so se sono guarito dalla cinefilia, ma la passione è stata divorante e la curiosità inesauribile. Nottate in bianco aspettando Fuori Orario, cassette scambiate con gente sconosciuta, riviste illeggibili e raid verso cineforum improbabili. E con la scoperta della Rete altri titoli, altri nomi, altre cinematografie. Un delirio ubriacante.
In questo zibaldone ritrovo le illusioni e le delusioni di dieci anni, gli entusiasmi infantili, le storture collezionistiche, l’ansia cinefila di assaggiare tutto e di giudicare ogni cosa, confrontandomi, imparando, dimenticando, digerendo male quello che bulimicamente ingurgitavo.
Riguardo indietro e mi rivedo con indulgente tenerezza: è la stessa generosa mancanza di severità che mi ha fatto partorire ‘sta roba, che concludo però con qualche rimpianto. Non sono riuscito a vedere tutti i film che mi interessavano e di cui avrei voluto blaterare lasciandone testimonianza scritta: gli archeologi che troveranno queste recensioni non sapranno cosa ho magicamente elaborato sui Kurosawa, Leone, Fellini, Truffaut, Buñuel e Welles che ho visto prima del 1995. Poi, tra queste sciagurate pagine, mancano tanti cult personali, magari banali, ma che per un ragazzo degli anni Ottanta, nella suprema e beata ignoranza dell’innocenza, hanno rappresentato il Cinema. Penso ad Alien, Platoon, Il grande freddo, Fandango, Fuga per la vittoria, Fuga di mezzanotte: titoli cui sono legati un sacco di ricordi. E dove mettiamo tutte quelle pellicole bislacche, cui si vuole bene perché il ricordo rende tutto più dolce? Chi vi metterà in guardia da una sublime stronzata come Ufficiale e gentiluomo? E tutti i fantastici film di Pozzetto, come Ecco, noi per esempio, La patata bollente e Agenzia Riccardo Finzi praticamente detective? E l’intramontabile Top Secret?
Ho cominciato a scrivere non appena ho messo le mani su un PC. Pesavo 15 chili di meno, avevo i capelli molto lunghi e fumavo un pacchetto di sigarette al giorno. Studiavo, vedevo film, leggevo a più non posso e soffrivo per tutte le cose che ancora non conoscevo. Ed ero felice.
In dieci anni ho smesso di fumare, ho continuato a dedicarmi il più possibile a film, libri e musica e anche un po’ a lavorare. Ho continuato a conoscere gente, a parlare, a incazzarmi, a capire come riparare il mondo e a non riuscirci.
Oggi lavoro tanto, fumo di nuovo e ogni giorno cerco nuovi inutili progetti creativi che non porterò mai a termine. Convivo con Barbara, che ancora mi sopporta, e la piccola Sofia, che già mi ama. Sono felice, molto.
Ma anche un po’ inquieto.

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(Fine – 56)