di Dziga Cacace

It’s late September and I really should be back at school (Rod Stewart)

ddv5301522 – Sempre attuale, Sistemo l’America e torno di Nanni Loy, Italia 1974
Altro straculto della mia adolescenza, visto più volte in pace con mia sorella Francesca quando il possesso del telecomando era ancora questione di rapporti di forza. L’impacciato Giovanni Bonfiglio da Busto Arsizio è in affari in USA per conto di un volgare industrialotto brianzolo. Viene incaricato di portar con sé in Italia anche un giovane campione di pallacanestro, per la Frigor, la squadra di famiglia del paròn. Bonfiglio (un Villaggio misuratissimo, prima dei Fantozzi di pregio e poi di quelli ripetitivi e scadenti) ha però un problema: Ben Ferguson (l’incredibile Sterling St. Jacques, ancora senza le lenti decolorate che – vuole la leggenda metropolitana – lo avrebbero fatto diventare cieco) è un attivista delle Pantere Nere che, prima di partire per l’Europa, vuole sistemare due o tre cose. E si tratta di politica, famiglia e amore. La strana coppia attraversa l’America, con l’impiegato – che sa a malapena l’inglese – che deve inseguire un rivoluzionario nero. Assieme, i due si conoscono e gradualmente (Ferguson a Bonfiglio: “Ora mi piaci 10%” e via di seguito, in crescendo percentuale) diventano amici, aggregandosi anche a un gruppo di sballoni hippie. Il travet impara a rispettare le donne e ad apprezzare l’arte primitiva black (con l’immortale battuta al poliziotto che lo mena e che gli chiede se gli piacciano i quadri esposti in una sede delle Black Panther: “Mi laikano moltissimo… vaffanculo!”). E se prima i suoi problemi erano i cessi a pagamento e la mania negli alberghi yankee di inamidare tutto, adesso diventano il sistema sanitario, la violenza della società, la solitudine e il problema dell’integrazione razziale. Finisce grandiosamente male, ma è un pregio straordinario: un tempo ci si permetteva di non addolcire la pillola e non si trattava di furori politici compiacenti col pubblico giovane. Detto schiettamente, l’ho ritrovato bello, ma sul serio, senza macchiette e caricature, con un’asprezza politica controllata ma non riconciliata.  Ed è un film che oggi non sarebbe possibile realizzare perché verrebbe subito bollato come antiamericano, sovversivo e, come dice quello là, “cumunista”. Mi piace 90%: credo che lo rivedrò ancora. Più volte, lo merita. (Vhs da RaiUno; 17/02/05)

ddv5302523 – Prima e dopo di un rimbambito, USA 1996
Venerdì sera placido. Stanchi morti, evitiamo di rimaniere invischiati nel pessimo Vertical Limit su Italia1. Accade di peggio. Seguiamo Otto e mezzo dedicato al rogo di Primavalle e alla violenza degli anni Settanta (per conto mio in studio troppi fascisti, ex e post). Durante il dibattito, Barbara crolla in letargo come un plantigrado. Io – per non tornare alla violenza succitata, perché ce ne sarebbero i motivi a sentire cosa dicono in trasmissione – comincio a giocare al solitario sul PC (Spider, magnifico per assentarsi mentalmente) e non mi accorgo che l’emissione di La7 ci traghetta a Prima e dopo, drammone drammatico di Barbet Schroeder di cui non ricordo neanche l’uscita cinematografica. Toccare il telecomando stretto tra le sue braccia conserte significa svegliare la gravida e subirne l’indignazione, per cui subisco il filmaccio. Trattasi di genitori alle prese con figlio assassino per breve attimo di follia. C’è l’avvocato spregiudicato che vuole salvarlo, c’è il babbo generoso e testone che distrugge le prove e c’è la madre che – d’accordo che i figli so’ piezz’e core, ma qui non siamo in Italia – vuole però la verità. Intanto i concittadini fanno telefonate minatorie e spaccano i vetri alla famigliuola. Una solenne pellicola di merda, registicamente fiacca, con attori imbalsamati e nessun guizzo. Il babbo è Liam Neeson, attore cane quant’altri mai e inspiegabilmente considerato bel fustacchione pur presentando un profilo con la fronte schiacciata come un australopiteco. Mammà è la democraticissima, ingenua e onesta Meryl Streep, dalla recitazione ormai anestetizzata. Il piccolo assassino involontario è quell’Edward Furlong, già monello bestiale in Terminator 2. La prima parte del film l’ho per lo più ascoltata, la seconda – con Barbara rediviva e schifata – l’ho vista proprio. Uno strazio incomprensibile per un regista un tempo dignitoso. A fine pellicola la Streep vuota il sacco e la vicenda shifta verso la fantascienza: il giudice è comprensivo, capisce l’incidente e condanna il ragazzino a soli 5 anni (2 con buona condotta etc.: i leghisti farebbero un casino della miseria). Tutto ciò mentre io pensavo: burn, baby burn! Ho assistito al film in pura ottica genitoriale: PAURA! E per il carattere fecale del prodotto e per le visioni da incubo che evocava, tipo mia figlia a 13 anni vestita come una velina, con la vita dei calzoni sotto le ginocchia, mentre ciancica rumorosamente una cevingomma e con aria strafottente mi dice le fatidiche parole: “Tu non hai mai capito un cazzo!”. Aaaargh! (Diretta tv su La7; 18/02/05)

ddv5303524 – Di corsa!, Chariots of Fire di Hugh Hudson, Gran Bretagna 1981
Sabato sera, dopo cena Barbara si stende sul divano tenendosi la ventrazza. Io produco il confettino per la serata, un Dvd prezioso. Lei sbuffa ma tanto so che ronferà dopo pochi minuti. 1919: a Grande Guerra finita, il Regno Unito è pomposo, legnoso e classista e il giovane Harold Abrahams vuole emergere, sconfiggere i pregiudizi e diventare parte della nazione che ha accolto suo padre, immigrato ebreo lituano. Nel college di Caius a Cambridge trova cavallereschi compagni d’avventura e – correndo correndo – arriverà con loro fino a Parigi, per i Giochi Olimpici del 1924. Parallelamente alla crescita agonistica e umana di Abrahams, seguiamo l’edificante storia del pastore protestante Eric Liddell, diviso tra fede e voglia di correre. E vincere, come farà nel modo più inaspettato, in una specialità non sua (i 400 metri), rifiutando di correre i 100, le cui batterie di qualificazione si tennero la domenica, il giorno del Signore. Oleografica e compiaciuta ricostruzione del bel mondo che fu, senza alcuna vena critica del Sistema (anche se Lindsay Anderson come rettore del college è un bello sberleffo, per chi lo coglie), Momenti di gloria è stato, per me dodicenne, il film perfetto. A un’età in cui tutto il cinema è bello, senza se e senza ma, che cosa mi poteva fregare dell’accondiscendenza di Hudson? Cosa potevo desiderare, più di una storia di onore, riscatto e sport? E ora, anziano e bolso, non mi sposto di un millimetro: sono altri i film che devono fare la Rivoluzione, questo deve solo regalarmi il dolce sapore del ricordo. Mi aspettavo un film lento, impacciato registicamente, un po’ piatto. A rileggere le critiche di allora, sembra che fosse un film vecchio, una sòla. E invece, con grande sorpresa, ho trovato un’opera moderna, che gestisce con estrema intelligenza il montaggio (specie nelle gare) e mette a frutto in maniera superba uno score musicale in alcuni momenti straniante, in altri trascinante (trattasi di Vangelis elettronico). Fotografia stilosa, movimenti di camera accurati, recitazione superiore (con Ian Holm su tutti). Degli attori protagonisti, purtroppo, poi s’è visto poco, ma questo film li consegna, se non alla storia del cinema, perlomeno alla mia personale storia del cinema, che francamente mi è più cara. Un po’ di ricordi: una serata dell’estate del 1986, a Champoluc, Pier Paolo e io che entriamo in casa di Luca Ruffinato alle 20 e 30 e lo costringiamo a farci vedere Momenti di gloria, gli piaccia o no. E poi, la prima volta, nella primavera del 1982, nell’allora cinema parrocchiale della chiesa di San Francesco d’Albaro di Genova, l’odierno pessimo Ritz: una domenica pomeriggio, mio padre ed io, lui con un cuscino per ovviare alle tremende sedute in legno. Film commovente e pieno di memorie. Per me, il massimo. (Dvd; 19/02/05)

ddv5304525 – All That Jazz, e non basta mai, di Bob Fosse, USA 1979
Altro che Chicago, salutato due anni fa come il nipotino erede della bellezza di questo All That Jazz. Quello era una liberatoria cagatina come da titolo, questo è quasi un capolavoro. Dico “quasi” perché son venuto su così, rompiballe, e devo notare che nel prefinale (il delirio malato del regista Joe Gideon che mette in scena le sue ardite fantasie coreografiche) avverto un po’ di stanchezza e ripetitività. Ma avercene di film così. Joe (Roy Scheider) sta allestendo il suo musical più audace, è al termine del montaggio di un film su uno stand-up comedian e tenta di salvare qualcosa della sua vita privata. Una sigaretta dopo l’altra, pasticche a gò-gò, alcol, l’immancabile scopata, poco sonno, molte incazzature, lezioni di vita dalla figlia e troppi pescicani da evitare: la facciata pubblica di Gideon è tutta di successo, quella nascosta, un disastro. E poi il braccio sinistro è un po’ troppo dolorante. Montaggio stupefacente (da Oscar) che dà i punti a tanti esagitati odierni che credono che la velocità sia data dal numero di stacchi e non dalla sapienza degli stessi. Gran colonna sonora, coreografie geniali, fotografia coloratissima di Giuseppe Rotunno e ruolo della vita per Scheider (che non delude). Grandissimo film, una gioia per occhi e orecchie. (Dvd; 22/02/05)

ddv5305526 – L’occhiuto My Little Eye di Marc Evans, USA 2002
Un horror, tanto per gradire, e attenti che racconto il finale, caso mai vi pungesse vaghezza di vederlo. Dunque: siamo molto casalinghi e, convinti da buone recensioni, ci buttiamo su questo Grande Fratello estremo: cinque ragazzi chiusi in una casetta, nella neve, senza sapere dove ci si trova, con l’obbiettivo di resistere fino all’ultimo giorno per dividersi il premio finale. Ma qualcosa non convince i partecipanti e il paranoico Rex sostiene che li vogliano ammazzare tutti, nello snuff movie definitivo, in diretta Internet. Arriva un ospite inaspettato che si tromba la più arrapata del gruppo e poi se ne va. Crescono i sospetti. Chi paga per tutto questo spettacolo? E qual è il prezzo? La prima vittima s’impicca. La seconda rimane sacchettata, la terza accettata, la penultima (che ha già provato a far secchi tutti) sparata. L’ultima rimane ferita in un mattatoio e il film finisce nella tragica attesa. Agghiacciante. Atmosfera alla Blair Witch Project in un bel prodottino, cattivo, amaro, abbastanza lento a ingranare, un po’ troppo veloce nel risolvere, ma c’è più di un momento di bella tensione. Discreto. Cassetta affittata da Blockbuster che soffre di un riversamento a tutto schermo, immagine spanata, neri che sono grigi spappolati: un’autentica merda, insomma. (Vhs originale; 24/02/05)

ddv5306527 – Lo strazzacore Million Dollar Baby di Clint Eastwood, USA 2004
Cautela con lo spoilerone, eh? Il vecchio allenatore di boxe Frankie Dunn (Eastwood) va tutte le mattine in chiesa a cercare una risposta, attraverso quesiti che hanno una solo risposta: la fede. Nella sua palestra arriva ogni giorno Maggie (Hilary Swank), trent’anni, cameriera che risparmia al centesimo e che, con gli avanzi di carne dei clienti, fa finta di farsi il doggy bag pur di mangiare lei un po’ di proteine. Il sogno? La boxe professionistica. Frankie non la vuole tra i piedi ma dagli e ridagli, si forma l’accoppiata. Allenamenti, combattimenti e i saggi consigli dell’ex pugile Eddie Scrap con l’occhio guasto ma che vede lontano (Morgan Freeman). Clint è scolpito nel legno, Hilary ha una gran bella faccia: la coppia funziona, fino al match che risulterà fatale. Maggie rimane paralizzata e realizzo: qui finisce che non si scopa, sai? Infatti il paterno Frankie la eutanasizza in un finale straziante. Film solido e commovente, non perfetto, ma dignitoso. C’è una prima parte gagliarda, molto Rocky ma con classe (“coglionazzo!”), con intreccio edipico accluso. La parte centrale, con l’ascesa di Maggie, è un po’ tirata via, ma la conclusione nobilita il tutto. Siccome si fa fatica a trovare film decenti, s’è parlato di capolavoro. Non è vero, ma Eastwood è l’ultimo della vecchia scuola che sa raccontarti una storia senza ricorrere ai maghi degli effetti e del marketing. Scrive e gira film classici come non se ne vedono più e in questo caso non rinuncia a qualche bell’interrogativo (la fede, il rapporto padre-figlia, l’eutanasia, il diritto a sognare). Visto all’Orfeo con luci accese al primo titolo, incomprensibili gelidi spifferi condizionati e invadente sonoro delle altre sale. Il cinema è nuovo e si merita un vaffanculo a braccio levato. Film visto la sera prima della vittoria agli Oscar. (Cinema Orfeo, Milano; 25/02/05)

ddv5307528 – L’ortodontico Marathon Man di John Schlesinger, USA 1976
Is it safe? Is it safe? Negli occhi, fin da adolescente, le immagini di un dentista dai capelli d’argento. Finalmente sento la voce originale di Sir Laurence Olivier che chiede insistentemente se sia “sicuro”. E intanto pinze, tenaglie e bisturi penetrano nella polpa. Aaaargh. Gran thrillerone ricco di suggestioni, questo Maratoneta: c’è una New York autunnale dove, nascosti nella folla, si nascondono nazisti e spie del governo molto poco affidabili. C’è un Dustin Hoffman assolutamente poco credibile nei panni dello studentello Babe Levy (ha quarant’anni e qui li dimostra più che nei film che sarebbero seguiti), ma perfetto come uomo investito dalla Tragedia, dal Dubbio e dalla Vendetta. E poi c’è Roy Scheider, tonico e con la faccia dura come il cuoio lavorato di una sella. A poco a poco si viene presi dentro la rete vischiosa (e non chiarissima) dell’intrigo e non si fa più caso a facce troppo vissute: il nazi Szell, conosciuto come Weisse Engel quando operava ad Auschwitz, ha una fifa boia che, fuori da una banca di New York, ci sia qualcuno ad aspettarlo per fottergli la valigetta con dentro la cascata di diamanti che gli ha lasciato il fratello. Manhattan è piena di ebrei e di reduci dai campi e lui, trent’anni dopo, è ancora troppo riconoscibile. Per cui, ripetiamo la domanda: “è sicuro?”. L’ho visto la prima volta al liceo, con mia sorella terrorizzata. L’ho rivisto poi, ma mai negli ultimi quindici anni, anche se posso vantare la lettura del libro di William Goldmann da cui è tratto. L’allucinante parte dentistica e di fuga (preponderante nel ricordo) è in realtà abbastanza breve, ma incisiva e ha sicuramente influito sull’igiene orale di tantissima gente del mondo che ha preferito tenersi le carie piuttosto che farsi mettere gli strumenti odontotecnici in bocca. A corredo del film, due documentari: il primo, del 1976, è una divertente – perché tronfia – autocelebrazione in cui il produttore Evans magnifica le qualità della pellicola. Il secondo, del 2001, è più dettagliato e ricco d’interviste, ma anche un po’ ingessato e anonimo, con tutti i protagonisti 25 anni dopo, chi invecchiato bene (Marthe Keller, per esempio) chi male (Scheider, che sembra Emilio Fede sciolto). Gran film. (Dvd; 27/02/05)

ddv5308529 – From Hell di Allen e Albert Hughes, USA 2001
Jack lo Squartatore, il primo serial killer della Storia; una vicenda classica, bella pronta da aggiornare secondo il truculento gusto moderno: i direttori del marketing della casa produttrice si saranno date grandi pacche sulle spalle per l’ideona. Londra, 1883; nel malfamato quartiere di Whitechapel, sventrando prostitute, si esercita quel mattacchione di Jack the Ripper. Sulle sue tracce si mette un visionario investigatore, oppiomane e incline all’assenzio: scopre la verità, s’innamora di un puttanone dal cuore d’oro, deve rimangiarsi tutto perché è coinvolta la famiglia reale, infine muore solo. Johnny Depp ha lo sguardo allucinato giusto e sembra sempre in debito di qualche doccia, Ian Holm dà la consueta lezione di classe estrema e Heather Graham sgrana occhioni e tettone (la poveretta è prigioniera di un’industria che la tratta come Serena Grandi). C’è pure la povera Katryn Cartlidge, morta prematuramente ma viva nel ricordo cinefilo di chi l’ha conosciuta durante gli anni Novanta. Confezione curata, bella fotografia. Non credo abbia avuto alcun riscontro particolare al botteghino: pescava nel torbido ma con sfortunata anticipazione della moda del complottismo di templari e massoni, che hanno sbancato due anni dopo con Il codice Da Vinci (romanzo pedestre e inconsequenziale, ma furbo come pochi). Difetti di From Hell? Qualche prolissità, rapporto Depp/Graham prevedibile, personaggio di Holm molto rozzo (prima buonissimo, poi efferato, senza mediazioni e ambiguità). Ad ogni modo film passabile, mentre Milano si ammanta di candida neve e sulla nazione imperversa il festival di Sanremo, il reality canoro definitivo dove i management inventano coppie come Toto Cutugno e Annalisa Minetti. (Pochi lo sanno ma lei ha protestato invano: “Avevo semplicemente chiesto un cane guida”). (Che cattiveria gratuita). (Dvd; 2/03/05)

ddv5309530 – The Thir13en Ghost di un onesto cialtrone, USA 2001
Un ricco pazzo che gode nell’imprigionare spiriti irrequieti e un poveretto – vedovo e con famiglia carico – che eredita la straordinaria casa di vetro dove gli spiritelli sono rinchiusi. Si parte malissimo, con una prima scena che fa temere il peggio per montaggio esagitato, musiche sparate a tutto volume e recitazione allo stato brado. Poi, cambiata location, il film si fa vedere anche perché la cornice scenografica è strepitosa e la trama viene dipanata con diligenza, senza far danno. Extra con borioso racconto della produzione da parte di Joel Silver. Di ogni cosa (trucco, effetti speciali etc.) viene ingigantita la lavorazione, magnificando ore di lavoro, energie profuse e professionalità spese. A dire il vero, mi sembra tutta una ganassata poco credibile, ma agli yankee piace così. Film appena discreto del carneade Steve Beck: per nulla imprescindibile, tutto sommato non sgradevole. Fuori dallo schermo, invece, si ha conferma che agli americani il Sismi piace solo quando piazza bombe fasciste, depista e assassina. Su Giuliana Sgrena appena liberata vengono scaricati mitra e fucili. Muore Nicola Calipari, credo l’unico uomo nella storia dei servizi segreti italiani a finire sui giornali senza infamia. Bocche cucite, imbarazzi, scuse ingessate: come si può fare la pelle a una giornalista che ha raccontato cosa siano le cluster bomb? Basta non avvertire chi pattuglia la strada verso l’aeroporto e confidare nell’arruolato americano che teme l’agguato iracheno. O far finta che. (Dvd; 4/03/05)

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(Continua – 53)