di Sandro Moiso

tyrionshieldPassano le carrette della morte lungo le strade di Parigi, se ne sente il frastuono sordo, il frastuono cupo. Sono sei le carrette che portano il vino quotidiano alla Ghigliottina [… ] Schiacciate l’uomo, sfiguratelo sotto lo stesso maglio, e si contorcerà in quelle stesse forme di tormento. Gettate ancora il seme dell’arbitrio, della rapacità, dell’oppressione, e darà certo frutto, secondo la propria natura. Sono sei le carrette che vanno lungo le strade, e se, per un incanto di quel potente mago che è il Tempo, si ritramutassero in quello che erano, vi vedresti le carrozze dei monarchi assoluti, i servi in livrea, le sontuose vesti delle splendide Jezebel e le chiese non più casa del Padre ma tane di ladri, e le miserabili capanne, vedresti, di milioni di contadini affamati!” (Charles Dickens, Una storia tra due città, 1859)

Mentre personaggi che dovrebbero occupare le celle delle patrie galere o, almeno, esser esposti alla gogna e al pubblico ludibrio occupano i banchi del Parlamento e le poltrone degli incarichi ministeriali e di sottosegretariato, e mentre le leggi vengono stravolte ed utilizzate a favore dell’interesse privato e dei grandi impresari in odor di mafia, decine o, forse, centinaia di cittadini di ogni età, la cui sola colpa è quella di aver lottato per i diritti di tutti, sono costretti a scegliere tra l’essere rinchiusi in prigione o darsi alla latitanza.

Questo narrano le cronache di questa Terra dei Sette Regni chiamata ancora Italia. Un regno morente che si attrezza a difendere le proprie spoglie ad ogni costo, asserragliato dietro ad una barriera fatta non di roccia e di ghiaccio, ma più prosaicamente di inciuci (che orrenda parola!), scudi, manganelli, soprusi, violenze e minacce. In cui non esistono, come nella saga di George R. R. Martin, governanti buoni e dove manzonianamente “Il nuovo si mesce col vinto nemico,/ col novo signore rimane l’antico/ e il nuovo corrotto con l’altro sul collo vi sta”.

Così può accadere che il disperso popolo del PD, sommerso dallo schifo, dal disgusto per l’ennesimo tradimento dei patti e delle promesse elettorali da parte di un gruppo dirigente oramai imbalsamato nella conservazione staliniana del potere ad ogni costo, riversi le sue speranza in un volto nuovo come Sergio Cofferati, rappresentante delle peggiori bufale sindacali e politiche (la finta battaglia per il referendum sull’articolo 18) e di una delle più retrive amministrazioni della cosa pubblica bolognese (tutta condotta sulla base della repressione di ogni richiesta giovanile e studentesca e delle politiche di sicurezza nei confronti degli immigrati).

E mentre i militanti di vecchia data (che pur negli anni settanta avevano agito al comando di un personaggio come Giuliano Ferrara) si rifiutano di scortare ancora alle manifestazioni il sindaco di Torino Fassino e i giovani occupano le sedi del partito in tutta Italia, si ripete l’antico pericolo che la salvaguardia del Partito diventi più importante del programma e del metodo che tale partito dovrebbe rappresentare. La malattia originaria del bolscevismo stalinizzato che fece sì che quei militanti di antica data finissero coll’ammettere colpe mai commesse, durante i processi di Mosca degli anni trenta, pur di salvare l’immagine del Partito.

Di fatto un’idea di Partito inteso esclusivamente come forma e contenitore non di istanze di classe, ma di interessi da conciliare e cariche da spartire (a tutti i livelli). Un’idea di partito che non solo avrebbe fatto inorridire Lenin, ma che, sicuramente, avrebbe attirato i peggiori strali di Karl Marx; il quale mai ebbe a disposizione una siffatta forma degenerata di organizzazione del proletariato e che addirittura, nel 1873, abbandonò definitivamente al suo destino la I Internazionale dei lavoratori quando si rese conto che l’assenza di lotte significative condannava la stessa organizzazione a ridursi ad un coacervo di correnti contrapposte e di conflitti intestini.

Un’idea di Partito tutta concentrata sul potere e sulla sua conservazione, slegata dalla lotta di classe di cui avrebbe dovuto essere strumento e che ha portato, di tradimento in tradimento, all’inciucio odierno. Eppure, eppure… le manovre di Stalin degli anni venti (che già Lenin condannò, pur sul letto di morte), i processi ai comunisti russi ed europei degli anni trenta (condannati a morte o al Gulag per credere ancora nell’internazionalismo proletario e non nel socialismo in un paese unico), il tradimento della rivoluzione spagnola, il massacro degli anarchici e degli oppositori di sinistra, il susseguente patto Ribbentropp-Molotov, già da soli basterebbero a porre una serie di questioni ancora irrisolte e abbandonate spesso alla gestione revisionistica della storia del movimento operaio internazionale.

Ma se non bastasse tutto ciò, si potrebbero facilmente citare ancora i voltafaccia di Togliatti durante il suo soggiorno nell’URSS, la sua supina e timorosa accettazione della politica staliniana (anche quando gli imponeva di tacere sulle centinaia di militanti comunisti italiani che, invece di trovare rifugio nel “paese fratello”, vi trovarono solo la detenzione e la morte), le manovre per l’espulsione o l’eliminazione di chi stava  a “sinistra” nel partito italiano (Bordiga e  Gramsci per tutti), la “svolta di Salerno” (ampiamente concordata con Stalin e destinata a spegnere qualsiasi iniziativa anticapitalistica nelle formazioni partigiane); e poi ancora l’eliminazione dei comunisti di sinistra subito dopo la caduta del fascismo (Mario Acquaviva), l’amnistia Togliatti destinata a far uscire di galera i fascisti (proprio mentre i militanti comunisti e gli ex-partigiani cominciavano ad essere perseguitati politicamente) e poi, ancora, quel capolavoro che fu la denuncia degli insorti ungheresi del ’56 come provocatori fascisti. Denuncia che accomunò tre generazioni di comunisti stalinizzati: Togliatti, Berlinguer e Napolitano. Sì, cari compagni del PD – DS – PDS – PCI, questo inciucio viene da lontano ed è passato anche attraverso il compromesso storico  e i governi di unità nazionale degli anni settanta e dei decenni successivi.

Di che vi stupite? Avete puntato su un cavallo azzoppato da tempo e che, invece di essere definitivamente espunto dalla tradizione proletaria attraverso la lotta di classe, è ormai solo più destinato ad essere abbattuto dal macellaio di Arcore alla prima occasione elettorale propizia. Un cadavere che cammina restituito alla vita proprio dalle strategie di potere dalemiane e ben pronto a rifarsi economicamente, politicamente e giuridicamente sulla pelle dei giudici avversi, degli avversari politici che si credono troppo furbi e, naturalmente, di milioni di lavoratori sfruttati, frustrati ed ingannati.

E non saranno nemmeno i “nuovissimi” Puppato, Civati & Co. a rinnovare tale tradizione. Tutti attenti alle dinamiche interne di potere, non si preoccupano d’altro che di salvaguardare le apparenze, ancora una volta il partito di lotta e di governo uscito dritto dritto dalla doppiezza togliattiana. Stimolare gli elettori con la carota delle lotte (a venire) e pungolarli con il bastone della necessità di essere responsabili (subito e adesso). Letta e/o Grillo pur di rimanere a galla… bella prospettiva!

Senza contare, poi, che la gestione presidenziale della Repubblica voluta da Napolitano ha abituato molti cittadini e militanti di sinistra a ridurre il dibattito politico ad una scelta di nomi (Prodi, Rodotà) che nulla ha a che vedere con la definizione di un programma politico ed economico antagonistico, ma molto deve ad un presidenzialismo nemmeno più troppo strisciante che, di fatto, ha dominato la piazza antistante il Parlamento nei giorni della protesta precedenti la rielezione dello stesso Napolitano.

Nonostante queste vicende, ormai sotto gli occhi di tutti, gli uomini al potere, da Napolitano a Letta, da Draghi a Squinzi, da Alfano a Pietro Grasso si lamentano della pericolosità e delle violenze che si annidano nei movimenti sociali, pronti a criminalizzare non solo i fatti, ma anche le parole. Mentre il gesto dubbio e ambiguo del calabrese Preito dovrebbe servire da monito. Golia spera così di allontanare, ancora una volta, lo sguardo dalle facce dei corrotti, dei banditi e degli sfruttatori che vorrebbero proporsi come salvatori della Patria, e che invece non riescono nemmeno a deliberare qualcosa sul pagamento dell’IMU, e sul rifinanziamento della CIG, a causa delle troppe contraddizioni interne.

Minchioni!

Anche se il loro letto è foderato di chiodi e il fantasma della lotta di classe li tormenta durante la notte, come quello di Banquo tormentava Macbeth, è certo che i lavoratori e i giovani, i disoccupati e le classi medie impoverite, i diseredati di ogni tipo e i delusi del PD e di Grillo non si leveranno con gesti isolati ed inutilmente sanguinari. E non basterà il secondo colpo di stato* operato nell’arco di meno di venti mesi, e il riutilizzo delle squadracce fasciste (da Napoli ad ogni altra città) per impedire la ripresa generalizzata delle lotte sociali.

Il processo sarà ancora lungo ed è solo agli inizi ma il Davide della lotta  di classe, ormai libero dagli inganni della pantomima parlamentare, ritroverà il proprio autentico modo di essere attraverso l’unione dal basso delle esperienze di lotta. Gli Estranei stanno arrivando… preparatevi!

* Il generale Fabio Mini, in un articolo pubblicato sul N°4/2013 della rivista Limes, dal significativo titolo Perché i militari non fanno un colpo di Stato, dopo una disquisizione sui tre possibili modi di intervento dell’Esercito nella vita politica italiana (risposta ad un tentativo di golpe, contro-golpe e auto-golpe) conclude: ”Ad ogni modo, per un colpo di Stato militare di qualsiasi tipo nell’attuale situazione italiana è forse troppo tardi. Forse altri ci hanno già pensato senza scomodare i fucili ”.

(Dedicato a Davide Grasso, costretto alla latitanza per la sua appartenenza  alla resistenza NoTAV)

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