di Dziga Cacace

ov71.jpg101-Persona di Ingmar Bergman, Svezia 1966

Non so per quale oscuro disegno dell’inconscio, ma decido di santificare un tranquillo sabato sera casalingo vedendomi un ponderoso film del maestro svedese. Trattasi di Persona, titolo che già incute una certa soggezione. Premetto che ero un po’ suonato e il film non m’è parso propriamente digeribile. Comunque! Si parte con quattro minuti molto inquietanti: l’interno di un proiettore cinematografico, alcuni fotogrammi, una pellicola che si sbobina, un agnello sgozzato, le mani di un crocifisso (non di legno, proprio di uno che viene crocifisso), l’interno di un obitorio, un bambino che si alza dal suo letto (di morte, ritengo) e accarezza l’immagine sfuocata di una donna. Arrivano i titoli di testa e penso: sono spacciato.


S’inizia con il dialogo tra un’infermiera e una dottoressa che vuole affidarle la cura di una paziente particolare: una sua amica, Elisabeth, attrice di teatro che, da un po’ di tempo, s’è chiusa in un assoluto mutismo e vive sprofondata in uno stato d’afasia. Non senza timori, l’infermiera Alma (la Andersson), inizia la sua opera. Tra le due donne nasce un rapporto (l’attrice, Ullman, parla per sguardi e cenni, l’infermiera, invece, sembra posseduta dal demone della logorrea) che ha occasione di svilupparsi ulteriormente quando la dottoressa mette a disposizione la sua casa al mare per far proseguire la convalescenza. Il rapporto si trasforma ulteriormente e Alma arriva a raccontare alla silenziosa interlocutrice alcuni episodi molto personali della sua gioventù. Quando però scopre che Elisabeth scrive di questi fatti all’amica dottoressa, il legame fiduciario tra le due donne viene a spezzarsi, per poi rinsaldarsi in una rinnovata identità. Ma che cacchio sto a dire? Confesso: del finale (gli ultimi venti minuti), ho un ricordo molto confuso; inizia ad apparire il marito dell’attrice (e giace con l’infermiera), i volti delle due donne si confondono, l’infermiera rimprovera l’egoismo dell’attrice, tenta di farla parlare e le strappa soltanto un emblematico “nulla”. Fine. Il tutto intervallato, all’inizio del primo tempo, da un’altra sequenza molto criptica, in cui la pellicola si frammenta e brucia. Dal punto di vista della scrittura è un film difficoltoso ma interessante. E poi, pur essendo un essenzialmente “parlato”, Persona possiede doti tecniche notevoli. La fotografia di Niqvist è splendida e le due intense figure femminili consentono alla regia scelte compositive forse compiaciute (l’incontro e la fusione dei due visi), ma azzeccate. E in più c’è anche uno straordinario carrello laterale di 100 metri. Dunque: m’è piaciuto? Beh, sí. Però che mazzo che m’ha fatto, l’Ingmar. Per fortuna, come ricorda sovente Pier, ha almeno il senso della misura temporale: mai oltre l’ora e mezza. (Vhs; 10/5/97)

102-Ridicule di Patrice Leconte, Francia 1996

Dopo le gradevoli opere degli anni passati, Leconte si cimenta con una costosa ricostruzione della Francia pre-rivoluzionaria. I soldi sono ben spesi e il film brilla per la sontuosa confezione, le scenografie, i costumi e tutto l’apparato tecnico in generale (anche se ci sono 2 o 3 brutti raccordi in fase di montaggio). E, cosa rara nelle grandi produzioni (che solitamente offrono tantissimo gradevole e inebriante fumo, ma pochissimo arrosto), c’è anche una bella vicenda, scritta in modo convincente. Gregoire Ponceludon è un barone di provincia che tenta di ottenere udienza a Versailles: vuole presentare al Re il suo progetto per sanare le paludi ammorbanti che si trovano nei suoi territori. La sua preoccupazione per le sorti dei poveracci decimati dalla malaria sono oggetto di scherno a corte e il barone deve abbassarsi al futile gioco al massacro che vede ascoltati dal Re solo coloro che sanno tenere una brillante conversazione, a base di motteggi, arguzie, giochi di parole. A corte, Gregoire, fa conoscenza del conte di Bellegarde (il delizioso Rochefort), un medico nobile e squattrinato interessato alle scienze, s’innamora della figlia, l’anticonformista Mathilde, e si fa irretire da Madame de Blayac (una Fanny Ardant in forma sorprendente), nobildonna annoiata, regista del successo di molti tentativi di udienza a corte. Tra richieste di titoli di nobiltà, battute che diventano memorabili, balli sontuosi e abati scopatori, assistiamo al declino di un mondo ormai prossimo a essere spazzato dalla Rivoluzione. Gregoire, vicinissimo a Sua Maestà, rinuncia, umiliato dal gretto ambiente della corte. Ritornerà nella sua provincia con Mathilde de Bellegarde, e porterà a coronamento i suoi progetti di bonifica nel periodo rivoluzionario. Ben girato e recitato, Ridicule è un buon esempio di cinema commerciale, qualcosa che noi italiani non riusciamo più a produrre. (Cineclub Lumière; 11/5/97)

103-Industrial Britain di Robert J. Flaherty, Gran Bretagna 1933

La rassegna del Lumière prosegue, conseguendo un buon successo di pubblico. Abbastanza stravolto psichicamente dai continui scherzi che mi fa la macchina infernale su cui sto scrivendo (ogni tanto finge di non conoscere Windows e non lo carica, facendomi perdere qualche anno di vita), sono arrivato al cinema giusto in tempo per godermi questo cortometraggio del maestro inglese. Si tratta di un bel montaggio che rende conto dei successi dell’industria britannica. Ma Flaherty, come al solito, non dimentica di mettere al centro del suo lavoro la figura umana. Pervaso da uno spiccato gusto fotografico, il film indugia anche sui particolari meccanici delle attività industriali prese in esame (come la la siderurgia), affascinato dalle possibilità compositive di soggetti che sono quasi composizioni astratte. Non entusiasmante, ma, pur nella sua brevità, interessante. Poi ha prevalso la fatica e non sono rimasto a rivedere L’uomo di Aran, per un’arguta recensione del quale vi rimando a Lo sguardo mutilo (n°340). (Cineclub Lumière; 13/5/97)

104-The Navigator di Buster Keaton e Donald Crisp, USA 1924

Divertente, come prevedibile. Rollo (Keaton) è un bislacco ereditiere che decide improvvisamente di sposarsi. La fidanzata rifiuta, ma il caso vuole che i due si trovino (troppo lungo spiegare come) sulla stessa nave, abbandonata alla deriva, il Navigator. Prima si fuggono, poi, riconosciutisi, uniscono i loro sforzi per sopravvivere sull’imbarcazione deserta, ormai in mare aperto. Il film, come solitamente accade alle opere di Buster Keaton, cresce di ritmo e le gag diventano più frenetiche e spassose man mano che la pellicola procede. Il rollio della nave anima molti oggetti e, tra spaventi, cascatone e abbracci, i due fidanzatini si riconciliano. Ma la nave incoccia in un’isoletta del pacifico, abitata chiaramente da cannibali. Dopo una lunga lotta per rintuzzarne i famelici attacchi, quando tutto sembra perduto, i due vengono salvati da un provvidenziale sottomarino americano. Il film si conclude sotto il segno del ritrovato amore, un amore che fa letteralmente roteare il sottomarino. Entrare in sintonia con un film così non è immediato. L’umorismo di Keaton è talmente algido che spesso si rimane un po’ interdetti. Scrostata però la patina del tempo, si trovano però gag immortali che fanno ancora ghignare. Tra le tante, il karakiri che Keaton deve fare per liberare la sua tuta da palombaro rigonfia d’acqua. Lo so, detto così è deprimente, ma vista fa tutto un altro effetto. Tutto sommato, film gradevole. (Vhs; 13/5/97)

ov72.jpg105-Non toccare la donna bianca di Marco Ferreri, Italia/Francia 1974

Premetto che utilizzerò brani dall’ingessata presentazione del film che ho scritto per il volantino della rassegna Paris Nous appartient. Com’è andata? Ancora molto bene: cinema pieno (indubbio effetto “salma fresca”) e, per i commenti che ho potuto raccogliere, gradimento medio/alto. Qualcuno era onestamente schifato, altri un po’ disorientati, ma la maggior parte dei presenti è rimasta piacevolmente impressionata dal feroce e amaro sarcasmo del regista appena scomparso. Come di consueto, sono arrivato al Lumière con forte anticipo; tra un cannolo e la ricerca di un pacchetto di sigarette, ho assistito al lento rituale arrivo degli spettatori. Alle 21 e 10 Marco Biraghi ha iniziato la presentazione del film: un colto intervento sul passato, sul presente e sul futuro destino di Parigi, città in continua metamorfosi. Buio in sala e parte il film, in un’edizione perfetta, talmente cristallina da stupire gli habitué del Lumière, adusi a ben altre pellicole da battaglia. L’opera di Marco Ferreri sfrutta un’intuizione geniale: metaforizzando i fatti storici di Little Big Horn e ambientandoli in una Parigi sconvolta dalla costruzione delle nuove Halles, riesce a parlarci del sottoproletariato urbano che la perversità del potere economico e intellettuale preferisce confinare nelle “riserve” della periferia, la banlieue. Gli apache di Parigi che tanto cinema noir ha mitizzato diventano gli apache nativi del nord America: le loro terre hanno grande valore e un gelido gesto burocratico come l’atto d’esproprio può significare una violenta deportazione, un genocidio sociale. Lo strapotere egoistico dell’uomo bianco si accompagna a una politica militare prepotente (siamo nei primi anni Settanta e non deve sfuggire il riferimento alla guerra del Vietnam: gli apache sono i pellerossa, i rossi): chi rifiuta il progresso, freddamente imposto dalla tecnocrazia al potere, è destinato a soccombere, anche se, come in questo caso, può vincere qualche illusoria battaglia. Sarcastico, grottesco e ferocemente amaro, Non toccare la donna bianca ci parla degli intellettuali che si preoccupano che qualche indiano (o palestinese o calabrese, non importa) venga risparmiato e poi magari impagliato a futura memoria di chi oserà ribellarsi. Ci racconta della C.I.A. e del suo destabilizzante lavoro sotterraneo, c’illumina sulle ipocrite missioni umanitarie, ci mette in guardia dal colonialismo nord americano. E ci dà un insegnamento politico: la lotta, come ricorda il “pazzo”, deve essere collettiva. Cos’altro aggiungere? L’umorismo di Ferreri è straripante e, talvolta, passa salutarmente anche i confini del buon gusto. È tale il piacere dello sberleffo che la recitazione dei vari amici (Tognazzi, Mastroianni e Villaggio) e del ricchissimo cast francese (dalle icone Reggiani e Cuny ai divi emergenti dell’epoca: Piccoli, Noiret e Deneuve) è divertita e insolente. Come osserva Claudio, si vede che è un film che è stato fatto con divertimento. Potrei citare una ventina di gag acutamente sferzanti ma, dal momento che sembra che le abbiamo colte soltanto Enrico e io, invito i futuri spettatori di questo capolavoro a fare attenzione alle parole delle canzoni bluegrass che accompagnano le romantiche passeggiate notturne di Mastroianni e della splendida Deneuve. Gran film. (Cineclub Lumière; 14/5/97)

106-In the Soup di Alexandre Rockwell, USA/Giappone/Italia 1992

Aldolfo Rollo sogna di diventare regista e vende la sua prima lunga e pallosissima sceneggiatura a uno strano personaggio, una specie di mafiosetto che, proprio in combutta con l’aspirante cineasta, mette a segno una serie di colpi. Quando Aldolfo si rende conto che, sí, forse il suo mecenate il film lo vuol fare, però per lo più vuole continuare la sua vita di truffe e loschi affari, si arriva a una rottura. Riconciliazione finale e… non ve lo dico. Però vi avverto: complessivamente il film si fa vedere, ma, detto questo, ci sono momenti di stasi che sembrano eterni. Ad alcune sequenze montate con brio seguono altre parti di una lentezza sfibrante e l’umorismo, piacevole finché si vuole, è, come sempre in questi prodotti pseudo autoriali, insipido e inconcludente. Il fatto che Jarmusch sia amico di Rockwell e che appaia nel film avrebbe dovuto far accendere una lampadina d’allarme. Belle la fotografia, la musica e gli attori (Buscemi, Cassel e la rediviva Jennifer “Flashdance” Beals, moglie del regista) e così cosà la riuscita del tutto. Perfetto per chi adora Kaurismäki e Jarmusch; tra l’ammorbante e il piacevolmente inutile per tutto il resto del consesso della società senziente. In sostanza l’ho trovato sufficiente. (Vhs; 15/5/97)

107-Il carniere di Maurizio Zaccaro, Italia 1997

Molto sobrio e asciutto, Il carniere è il racconto di una partita di caccia in Jugoslavia nei giorni che videro l’inizio del conflitto tra serbi e croati. Non c’è alcuna attendibilità storica o coerenza geografica, ma il racconto è vibrante e ben sostenuto e soprattutto la sceneggiatura preferisce al resoconto realistico degli accadimenti, la descrizione del frustrante senso di disorientamento degli europei di fronte al dramma di questa guerra. Cetnici, serbi, croati… ma chi cazzo sono? Per che cosa combattono? Perché questo odio improvviso? I personaggi italiani non capiscono e, dopo qualche inutile tentativo, rinunciano a farlo, pensando bene di portare via l’acciuga. Né più né meno di come s’è comportata la comunità internazionale, che poi, da casa, con corretto spirito imprenditoriale, ha alimentato la guerra vendendo tutte le armi vendibili, salvo poi istituire un ridicolo tribunale internazionale per punire chi quelle armi le usava. Ma Il carniere non vuole arrivare a queste constatazioni; si limita a osservare lo smarrimento del cittadino comune di fronte a una guerra a due passi da casa. E il film funziona molto bene come metafora e gode di una bella suspense anche narrativamente. C’è qualche tentazione retorica e non mancano le semplificazioni, ma la regia sa sempre scansare in tempo la banalità. Buona confezione e recitazione civile (anche se Zibetti conferma l’antipatia suscitata sul set di Io ballo da sola), per un film “assolutamente positivo” per il critico Barbara Vari e buono per me. All’uscita ero un po’ titubante, poi il succitato critico mi ha illuminato. (Cineclub Lumière; 16/5/97)

ov73.jpg108-I corti di Roman Polanski, Polonia 1956-1962

Per presentare una nuova iniziativa editoriale del buon Scapolla (casa editrice Le Mani), il Lumière organizza una notevole serata dedicata a Roman Polanski: c’è abbastanza gente, ma non so se consentirà di coprire le spese per un programma nutrito e decisamente interessante. Infatti vengono presentati i corti che caratterizzarono gli esordi del regista polacco, dal 1956 al 1962. Dopo un’introduzione per niente corta del prof. Salotti (mancava Cappabianca, l’autore del libro), s’è finalmente partiti. Il primo, un cortissimo, è Omicidio (1956): faccio in tempo a vedere che un tizio ne accoltella un altro che sta dormendo, poi entra nel cinema una mandria di cafoni con giacche, cache-col e fighe di plastica al seguito (oche gommose in tutte le parti del corpo, cervello compreso). Questo deprimente consesso di post-yuppies che crede di darsi un tono venendo al Lumière pensa bene di piazzarsi nella corsia centrale della sala; risultato: distratto dalle silhouette di questi stronzi mi perdo il finale (saranno stati dieci secondi decisivi) per cui non so proprio cosa dirvi. Si passa a Rovineremo la festa (1957), animato racconto dell’intrusione a una festa in costume di un gruppo di giovani teppistelli (un po’ come nel recente caso Vecchioni, ah, ah); decisamente non male. Ed ecco Un sorriso dentale (1956), neanche due minuti di spasso, impossibili da raccontare in meno tempo di quello che s’impiega a vederlo (comodo, eh?). Tocca poi a Due uomini e un armadio (1958), simbolico viaggio di andata e ritorno di due tizi che fuoriescono dal mare con un pesante mobile a due ante e specchiera: provano a farsi accettare dalla gente di città. Ma poi, derisi, malmenati, sostanzialmente rifiutati, tornano tra le gelide acque del mar Baltico. Anche questo carino, anche se un po’ ostico. Ed ecco il capolavoro: La lampada (1959). Un paziente artigiano lavora su delle bambole. Vediamo i corpi sezionati, le braccia, i bulbi oculari… tutto come se fossero su un tavolo operatorio. Poi arriva la sera e l’artigiano chiude il negozio. Ma un incendio devasta il negozietto facendo orrenda strage delle bambole, il cui urlo muto è un’intuizione potente e agghiacciante. Fotografato e montato benissimo e girato con gusto espressionista, è sicuramente il miglior brano della serata. Ma non è finita: La caduta degli angeli (1959) ci racconta l’amaro destino di un’anziana donna che pulisce i cessi in un bagno pubblico sotterraneo. Ricorda la sua vita, gli amori, le guerre, le passioni e le delusioni, in una struggente serie di “cortissimi” nel corto. Ma, a fine giornata, a sollevarla da un lavoro monotono e umiliante, arriva un salvifico angelo. Si chiude con Mammiferi (1962), divertente assurdo racconto di due tizi che attraversano una desolata landa innevata inventandosi continui acciacchi, pur di farsi trasportare l’un l’altro su un rudimentale slittino. Molto carino. E decisamente molto buono il livello di tutto il programma. Bravo Lumière. (Cineclub Lumière; 20/5/97)

109-Incontri a Parigi di Eric Rohmer, Francia 1995

Ultima serata al Lumière della rassegna Paris nous appartient. Nonostante cattive previsioni e la finale di Coppa UEFA con l’Inter in campo, il cinema è nuovamente pieno di gente. Anche se non ci sono spettatori in piedi, è un ottimo risultato, soprattutto se si considera che il film è stato in prima visione poco più di un anno fa. In leggero ritardo, ma non per colpa sua, Bruno Gabrielli introduce, come sempre conciso ed essenziale e dà piacevolmente le coordinate geografiche e urbanistiche per consentire agli spettatori di seguire il film con qualche informazione in più. Il film, da par suo, è come l’avevo lasciato tre mesi fa. Non mi entusiasma ma non mi scoccia neanche e, a risentire certi dialoghi, ci si chiede se i doppiatori in questione avessero consumato droghe leggere, dal momento che è un tripudio di espressioni che neanche nel 1920. Il film è preceduto da un corto, Una coppia distratta, interpretato da Anna Galiena e diretto da una giovane ignota regista. Sufficiente e nulla più. La bella serata si conclude con una bevuta in compagnia di Aldo Padovano e dei fratelli Lumière, Enrico e Claudio. Si discute dello stato del cinema, mi sfottono per le opere recenti del Maestro Bertolucci e, tra le altre cose, mi fanno un mazzo tanto per la mia ignoranza nei confronti di Hitchcock. Ho promesso che quest’estate studierò. (Cineclub Lumière; 21/5/97)

110-Buono! di Marco Polese, Italia 1992

Di solito non dedico recensioni ai corti, se non a una serie (vedi Polanski o Melies) o a quelli particolarmente meritevoli, ma l’amico Polese una citazione se la merita proprio. Il filmetto è ben congegnato, scritto e recitato: l’idea è semplice, ma semplice solo a dirsi, ovvero: come si fa un buon caffè. E il tema è svolto con originalità: un bravo attore, tra il sofferto e il goduto, si prepara semplicemente un caffè, ma un vero caffè, illustrandoci tutti i segreti per preparare un autentico capolavoro. L’acqua al posto giusto, il filtro ben asciutto, i chicchi macinati, né troppo fini né troppo grossolani, l’adagiamento sapiente nel filtro, la lenta cottura… Il tutto è spiegato filosoficamente e scientificamente e alla fine risulta che il caffè sia effettivamente buono (come recita l’ultima didascalia del film) e che Buono! sia bello. E la regia trova anche il modo di darci un finale a sorpresa, espediente che connota spesso i corti: il protagonista è colto mentre zucchera la bevanda, autentica bestemmia per i puristi, ma perdonabile debolezza dopo tanta amorevole dedizione. Proprio carino. Bravo Marco! Approfitto per citare un altro short, persosi nei meandri della memoria, che ho visto al Lumière durante. Si tratta, se non erro, di Apnea, di un regista che però non ricordo. Comunque divertente, girato con mano professionale e inventiva e recitato da uno straordinario Scarpa. Speriamo che passi ancora sugli schermi. (Vhs; 22/5/97)

111-Non sparate sul regista di Riccardo Pangallo

L’idea è vecchia come il videoregistratore: “dubbare” la propria voce sui dialoghi originali, dando così vita a situazioni imprevedibili. Riccardo Pangallo lo fa ormai da tanti anni (ricordo il classico appuntamento domenicale de Lo spezzone, all’interno di Va’ pensiero del rimpianto Barbato) e adesso ha deciso di riunire i molteplici sketch in un prodotto unico, presentabile a teatro. Rambo diventa così una mammoletta che frigna perché Swarzenegger gli ha fregato il temperino, l’indemoniata dell’esorcista ha uno sfogo cutaneo per aver abusato di pasta al pesto (vedi il famoso getto di vomito verde), James Bond è un buzzurro spiantato che gioca 800 lire allo chemin-de-fer etc., etc. Ogni episodio va dal decente al decisamente spassoso, ma è l’insieme che non funziona assolutamente. Il contenitore è un’ipotetica riscrittura della storia del cinema, un collante troppo labile e forzato per situazioni comiche che alla fine risultano ripetitive e sostanzialmente noiose. Si parte da Intolerance e dalla Pötemkin (e subito un idiota abbrutito, dietro di me, inizia a sghignazzare balbettando “…la corazzata… hi, hi… Pötemkin… hi, hi…”. Vorrei girarmi e chiedergli: 1) che cazzo hai da ridere? 2) hai mai visto La corazzata Pötemkin? 3) puoi uscire dalla sala, ché mi irriti? Chiaramente subisco in silenzio la prevalenza del cretino) per arrivare fino a Blade Runner. Tra le cose migliori: Redford che non riesce a dire le sue battute perché continuamente interrotto dalla pubblicità, una discussione di filosofia a base di cazzotti tra De Niro e Joe Pesci (uno dei pestaggi di Toro scatenato) e infine un bello scambio di telefonate tra Pangallo, James Stewart, l’ispettore Callaghan e 007. Ma anche se indubbiamente l’effetto comico non manca, un’ora e dieci così, pesa presto. Pangallo: in televisione cinque minuti sono gradevoli, al cinema diventano un macigno, eh. (Teatro Ciak, 24/5/97)

ov74.jpg112-Crash di David Cronenberg, Canada 1996

Uno dei casi cinematografici dell’anno, dalla provocatoria mano di Cronenberg. Premetto che il film non mi ha realmente fatto impazzire, ma non mi ha neanche ammorbato, com’è successo a tanti spettatori sconvolti. Crash è molto particolare e dalla liricità di difficile condivisione immediata, ma comunque coraggioso e intrigante. Siamo introdotti nella plumbea atmosfera della pellicola già dalle prime scene: due espliciti rapporti sessuali, una dei quali consumato in un hangar, con la donna voluttuosamente adagiata sulla carlinga di un aereo. Ecco le prime e fondamentali coordinate di volo: sesso e lamiera. James Spader interpreta un produttore cinematografico (dall’ammiccante nome: Ballard, l’autore del libro da cui Crash è tratto) ossessionato dal sesso e dalle automobili. Fa coppia con la “lei” dell’hangar: i due si concedono ampia libertà in esperienze automobilistico-sessuali che poi si raccontano (sette anni dopo Sesso, bugie e videotapes, Spader è ancora lì a far sempre le stesse domande). Ballard ha però uno spaventoso incidente: perdendo il controllo della sua vettura invade la corsia che marcia in senso contrario al suo e si fa un bel frontale dirompente. Rimane mezzo storpio e scopre che la moglie dell’automobilista che ha ucciso nello scontro condivide le sue stesse passioni. E così entra in un mondo di adepti alla religione della carne e del metallo, una congrega di freaks che si eccita ricostruendo famosi incidenti d’auto o guardando videocassette dove i crash test dummies sono scaraventati a folle velocità contro i muri. In un delirio spiazzante, in cui sperma e olio lubrificante sono liquidi vitali e un seno, la manopola del cambio, una cicatrice purulenta, un sedile in pelle, un corpo devastato da tutori metallici e un cruscotto sfasciato e intriso di sangue sono eccitanti oggetti di un erotismo lugubre e ammantato di sofferenza, si arriva all’emblematico finale, con ulteriore fusione di corpi e lamiere. Innanzitutto, credo alla sincerità del regista. Le molte scene di sesso, in realtà, non fanno vedere nulla. Allo sguardo lubrico spettatore viene regalato molto poco, se non un delirio visuale molto freddo e respingente, piuttosto che ammiccante. E poi la modalità del racconto è molto particolare; il film non si conclude né possiede una storia vera e propria. Crash è una potente metafora dei vizi e delle ossessioni maniacali dell’uomo moderno: il desiderio di possedere corpi e abitacoli, viscere e motori, in una crescente follia autodistruttiva. Non so se ho capito, comunque. (Vhs; 25/5/97)

(Continua – 7)