di Valerio Evangelisti

MorireDentro.jpg[L’editore Fazi ha fatto la scelta intelligente di proporre, inediti o ritradotti, i romanzi migliori di uno scrittore potente e visionario: Robert Silverberg. E’ ora in libreria Morire dentro (pp. 287, € 16,50), un vero classico della fantascienza contemporanea. Questa è la mia introduzione.]

Robert Silverberg è ben noto ai lettori italiani, ma, fino a tempi recenti, solo a quel segmento limitato di pubblico interessato al genere fantascienza. E’ molto positivo, ai miei occhi, che un editore non specializzato nel settore lo porti all’attenzione di una platea più vasta. La science fiction letteraria (non parlo qui di film o telefilm) non è più passione di una minoranza. Dopo Dick, Ballard, Vonnegut e altri, ha finito con l’interessare la generalità del pubblico colto. Inevitabile, quindi, la riscoperta di uno dei suoi esponenti più raffinati e colti in assoluto.

L’elogio può stupire, rivolto com’è a qualcuno che ha partorito decine di romanzi e di racconti da bravo artigiano, che si è cimentato su piccole riviste dimenticate, che ha trattato di alieni invasori, di pianeti abitati da una fauna ostile, di dominatori vermiformi — fino a inventare collaborazioni postume con autori più celebri di lui, o stendere testi attribuiti ad altri.
Il fatto è che l’iter di uno scrittore, persino negli Stati Uniti, può essere complicato, e la volontà di campare di sola letteratura forza ai compromessi. Sta di fatto che un creatore dotato trova, prima o poi, le ali per spiccare il volo. Vale anche per Robert Silverberg, nato a Brooklyn da famiglia ebraica nel 1934, con studi in America e in Italia. Per anni pubblica un po’ di tutto, su Astounding e altre testate popolari. Collabora con l’amico Randall Garrett e assieme a lui produce romanzi firmati “Robert Randall” — tradotti in Italia negli anni Sessanta, alla meno peggio, dalla collana Cosmo dell’editore Ponzoni. Usa anche gli pseudonimi Calvin M. Cox, David Osborne e Ivan Jorgensen.
Il Silverberg di allora non pare promettere molto. Però il suo primo romanzo apparso nella collezione Urania, intitolato Il sogno del tecnarca (“Collision Course”, 1961), è lungi dall’essere banale. Nel suo intreccio, coinvolgente e pieno di sorprese, colpisce anche un giovane lettore come me. Siamo però ancora nella routine. La svolta è imminente e, a suo modo, clamorosa.
Avviene, almeno ai miei occhi, con il racconto Il marchio dell’invisibile (“To see the Invisible Man”, 1963), pubblicato su Urania nel 1964 e poi ripetutamente antologizzato. Un attributo tradizionalmente superomistico, l’invisibilità — qui non effettiva, bensì inflitta quale punizione a una socialità esagerata da un freddissimo regime — si trasforma da vantaggio in condanna. Colui che reca il marchio, e che tutti fingono di non vedere, dapprima si bea della sua prerogativa. Può spiare donne mentre si spogliano, rubare ciò che desidera, cenare gratis al ristorante. Pian piano, tuttavia, si rende conto del suo spaventoso isolamento. Solo il calore di un altro “invisibile” lo sottrarrà alla tragedia, avviandolo verso un destino incerto ma più confortevole.
Ecco delineati i primi temi destinati a fare di Robert Silverberg uno scrittore assolutamente originale. La fantascienza, è noto, privilegia le idee (diciamo meglio, la “trovata”) a scapito dei personaggi. Oggi non è più così, ma negli anni Cinquanta-Sessanta lo era ancora. In quel contesto orientato altrove, Silverberg fissa l’attenzione sui comportamenti umani. Fa emergere un sentimento poco familiare al genere, la malinconia. Doti suppletive — siano l’invisibilità, la comunicazione telepatica, la preveggenza o altre ancora — sono matrici di solitudine, e dunque di dolore.
Se Il marchio dell’invisibile era triste, La città-labirinto (“The Man in the Maze”, 1969), che pur conserva le forme del romanzo d’avventura è, a una lettura attenta, molto più angoscioso. Riscrittura abbastanza fedele del Filottete di Socrate, vede una squadra di avventurieri alla ricerca di un individuo singolare. Costui si è confinato al centro di un antico labirinto di origine aliena, irto di trabocchetti mortali, perché nessuno possa strapparlo alla sua condanna, esito di un’infelice spedizione astronautica. Al ritorno da Giove, si è trovato trasparente alla trasmissione dei sentimenti e degli stati d’animo. Ha deciso di isolarsi per non soffrire dei dolori altrui. Lo si cerca perché possa comunicare con quegli stessi alieni che lo hanno trasformato, dal linguaggio formale astruso, per via empatica.
In certa misura, Morire dentro è una variazione sul tema. Un giovane ebreo di New York (è chiara l’intenzione autobiografica di Silverberg) non riesce ad avere rapporti sinceri e duraturi, ma evita la solitudine grazie a un’ambigua dote ricevuta alla nascita: la telepatia. Solo che quel dono, col tempo, inizia a svanire. Ed ecco che, gradualmente, le pareti dell’isolamento cominciano a rinchiudersi.
Il come e il perché è del tutto secondario: Silverberg, a differenza degli scrittori di sf della generazione precedente, appare poco interessato alla tecnologia. Nemmeno sembra coinvolto più di tanto nella cosiddetta “fantascienza sociologica” che sta prendendo piede verso la fine degli anni Cinquanta (in Italia arriverà, per via delle traduzioni, un decennio più tardi). Se i Frederick Pohl, i Damon Knight, i William Tenn, i Robert Sheckley ecc. — incluso il Philip K. Dick degli esordi — sono attenti alle degenerazioni del capitalismo avanzato, che mettono in satira, la loro attenzione verso i riflessi individuali del riassetto esterno è scarsa o nulla. I loro protagonisti sono poco più che marionette, travolte da trasformazioni globali.
In Silverberg, invece, è il tema esistenziale a prevalere. Tante delle sue storie della maturità descrivono crisi e sofferenze personali, come accade in maniera diversa in un altro maestro della fantascienza moderna, Theodore Sturgeon. In Morire dentro è facile scorgerlo. Ma vale anche per il suo romanzo più prossimo a una visione sociologica, Monade 116 (“The World Inside”, 1971), che ha spinto molti a ritenere Silverberg un radicale, malgrado ripetute professioni di fede conservatrice — il che lo apparenta a un Clint Eastwood o a un Gordon Scott, vittime della visione molto ideologica che si ha (o che si aveva) in Europa, rispetto agli Stati Uniti.
I grattacieli di un migliaio di piani in cui è confinata, a causa della sovrappopolazione, l’umanità urbana degli inizi del secolo XXIV sono rigorosamente livellati per censo: i poveri in basso, i ricchi in alto. Né poveri né ricchi, comunque, possono uscire da quegli smisurati termitai, salvo rischiare di sovvertire il sistema e riportare il problema demografico alle dimensioni originarie.
Nei cubicoli o nelle eleganti suites delle “monadi” si consumano vicende familiari o personali, senza che la distrazione offerta ai condomini — il sesso, praticato in tutte le forme possibili — riesca a distrarre da un disagio di fondo, e da un’oscura volontà di evadere. Il romanzo narra di alcune evasioni effettive tentate nella “monade 116”, e del loro effimero successo; ma soprattutto presenta una serie di quadri esistenziali, tutti più o meno turbati dalla situazione anomala che si sta vivendo. In Silverberg, infatti, una condizione eccezionale non scorre sulla pelle di chi la sperimenta, come in tanti autori di fantascienza meno dotati: incide sulla psiche. La divisione in classi, nel grattacielo, è meno importante del condizionamento psicologico che ne discende.
Verrebbe da pensare al romanzo Pot-Bouille, di Émile Zola, oppure al Boris Vian di Les Bâtisseurs d’empires. Simili riferimenti lascerebbero probabilmente attoniti altri scrittori di sf di minor smalto. Con Silverberg, è più probabile che vengano accolti, condivisi o meno che siano. Un elenco dei riferimenti cólti presenti in Morire dentro riempirebbe diversi fogli. Il Nostro è un umanista, quando scrive, perché è imbevuto di cultura umanistica, e in particolare di cultura europea.
Siamo dunque di fronte a uno scrittore che, dopo un esordio nella narrativa di puro consumo, si sposta in direzione della complessità. I suoi anni tra i Settanta e i Novanta sono pieni di conferme. L’uomo stocastico (“The Stochastic Man”, 1975), sull’uso rigoroso della preveggenza e sui rischi per chi la pratichi, potrebbe figurare in una qualsiasi collana di letteratura generale contemporanea. Shadrach nella fornace (“Shadrach in the Furnace”, 1976) affronta, come L’autunno del patriarca di García Marquez, il tema di un potere tanto assoluto quanto logorato dalla decrepitezza. Chi abbia letto, in questa stessa collana, i testi racchiusi in L’amore al tempo dei morti, sa quanto Silverberg riesca a rendere appassionante ogni argomento, inclusi i meno attraenti, e farne stimolo per riflessioni non superficiali.
E’ chiaro che, nell’ampia bibliografia di Silverberg, non tutto può essere salvato. Vale per ogni autore molto prolifico, Balzac, Dickens e Zola inclusi. Senza volere azzardare paragoni incongrui e fuori luogo, invito tuttavia a valutare questo Morire dentro senza pregiudizi. So già che scontenterà chi, dalla fantascienza, si attende futuri ottimistici. Non piacerà nemmeno a chi considera la sf in toto impraticabile per un lettore dai gusti raffinati.
Soddisferà invece la minoranza (da quantificare) che ritiene la malinconia oggetto fruibile, così come lo sono le melodie di Schubert. Silverberg ha immesso in un genere letterario, da lui mille volte rinnegato (senza successo), un fattore depressivo ben poco commerciale. Capace di parlare a noi che, tesi al superomismo — o superfemminismo – imposto dalla società contemporanea (corpo perfetto, mente allineata, svaghi leciti), ne avvertiamo tutte le contraddizioni.
Chi sa fare intuire questo è, senza tema di smentite, uno scrittore con la S maiuscola. Non dico un profeta, ma qualcuno che pratica la virtù suprema di un artista: l’intuizione. Accompagnata dalla capacità di comunicarla.

[Su Silverberg vedi anche, nell’archivio di Carmilla, il profilo scritto da Alessandra Daniele, e la recensione a L’amore al tempo dei morti di Daniela Bandini, leggibile qui.]