di Valerio Evangelisti

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[Minimum Fax ha appena ristampato un classico della fantascienza, L’uomo che cadde sulla terra di Walter Tevis (pp. 242, € 9,50), in una nuova traduzione di Ginetta Pignolo. Questa è la prefazione di Valerio Evangelisti.]

Alcuni dei migliori romanzi di fantascienza sono stati scritti da non specialisti. E’ il caso di questo L’uomo che cadde sulla terra (The Man Who Fell to Earth, 1963) di Walter Tevis, autore nato nel 1928, morto di cancro nel 1984, vissuto tra il nativo Kentucky e la meta finale delle sue peregrinazioni, New York, con problemi di alcolismo sempre più gravi. Ma non si pensi a un personaggio alla Charles Bukowski. Tevis non fu un reietto, né trasse dalla sua condizione di alcolizzato materia narrativa esplicita (metaforica sì). La visse piuttosto con sofferenza profonda.

Per il resto fu insegnante rispettato e, una volta a New York, scrittore di buon successo. Il suo vizio non lo esibiva; al contrario, cercava di nasconderlo. Lo aiutò, per un certo tempo, il suo carattere schivo, finché la verità diventò palese. Il mondo letterario lo evitò e, quattro anni prima della morte, l’unico riconoscimento che ebbe fu un Premio Nebula, attribuito dai fan di fantascienza al romanzo Solo il mimo canta al limitar del bosco (Mockingbird, 1980).
Dei sette romanzi scritti da Tevis, ben tre ebbero trasposizioni cinematografiche di grande successo. Appunto L’uomo che cadde sulla terra, portato sullo schermo da Nicolas Roeg nel 1976, protagonista un David Bowie in stato di grazia; e gli ancor più famosi Lo spaccone (The Hustler, 1959), tradotto nel 1961 in un film di Robert Rossen, e Il colore dei soldi (The Color of Money, 1984), nella trasposizione, datata 1986, di Martin Scorsese. Un ottimo risultato, per uno scrittore che conduceva una vita quasi solitaria ed era intento a una tragica autodistruzione.
Se si pensa alla biografia di Walter Tevis, il senso de L’uomo che cadde sulla terra appare molto chiaro. Il sedicente Thomas Jerome Newton, approdato sul nostro mondo per cercare di salvare gli abitanti del suo, il pianeta Anthea, dalla siccità che li sta uccidendo dopo una guerra atomica, e al tempo stesso per risparmiare ai nostri simili prossimi venturi (per l’occasione gli anni Ottanta del XX secolo) l’olocausto nucleare, finirà per trovare nell’alcool l’unica via per manifestare i sentimenti inibiti alla sua razza. Per schiudere, cioè, la corazza di solitudine emotiva in cui è racchiuso, e che nemmeno l’amore unilaterale di Betty Joe, l’infantile ragazza del Kentucky in cui si imbatte, riesce a violare.
Questa semplice chiave di lettura fa giustizia, almeno credo, delle interpretazioni prevalenti formulate sul romanzo, basate in larga misura sul film di Roeg. Quella “cristologica”, che vede in Newton la figura del Salvatore, giunto tra noi per operare una doppia redenzione (la nostra e quella del suo popolo) e condannato per questo a una necessaria Passione. Una lettura già presente nel commento editoriale alla prima traduzione del romanzo. Datata 1964 e apparsa su Urania, la splendida Urania che per prima fece conoscere in Italia, sia pure a una minoranza di lettori, Mikhail Bulgakov e James Ballard.
Stessa considerazione per l’interpretazione, meno brillante e molto anglosassone, che vede in Newton la purezza, via via corrotta dal contatto col male, necessario all’affermazione dei suoi ideali.
La lettura cristologica è possibile, ma ignora il fatto che, per tutto il romanzo, Newton evita di cercare adepti. Inadatto al contatto diretto, tenta piuttosto di allestire strutture economiche capaci di convincere, usando l’arma più efficace, il denaro. Qui, è chiaro, non c’entra più il riflesso autobiografico. Si entra infatti sul terreno direttamente politico. In tutto il testo, il Partito Repubblicano è la negatività assoluta. E il Partito Democratico, nella sua vigliaccheria, non ne esce tanto meglio; anzi, finisce col fare gli interessi del suo supposto nemico.
Siamo dalle parti di Philip K. Dick. Metafora politica unita a metafora di una condizione esistenziale. Il tutto all’insegna di una riflessione su una condizione individuale schizoide, sempre più socialmente diffusa, che solo nel delirio trova la maniera per comunicare emozioni. Anche se, essendo schizoide l’intera società circostante, la sconfitta è sicura.
Solo la fantascienza poteva permettere a Tevis, scrittore non appartenente ad alcun genere facilmente individuabile, di esporre dubbi condivisi su così larga scala. E non dubbi generici: i propri, esistenziali e al tempo stesso politici.