di F. B. del colectivo el tronco de Senegal atocha.jpg

a due anni dalla bombe di Atocha

Il primo SMS arriva sabato, alle due del pomeriggio: alle 18:00 tutti alla sede del PP. Sono passate poco più di 48 ore dalle bombe esplose sui treni pieni di lavoratori, immigrati e studenti. L’11 marzo vengo a sapere dell’attentato quasi subito, alle 8 del mattino dal fornaio. “’E’ esplosa una bomba nella stazione di Atocha”, “Ci sono tre morti” “È stata l’ETA” mi dice in successione la gente in coda per comprare il pane. Una pensionata si sgola: “I baschi andrebbero tutti ammazzati”. Allo stupore delle prime ore, mano a mano che il numero dei morti aumenta, si aggiunge la rabbia contro chi ha fatto esplodere le bombe su treni che passano per quartieri operai, come sono Santa Eugenia o El Pozo del tio Raimundo, da sempre la prima tappa degli immigrati che arrivano a Madrid, ieri dall’Andalusia e dall’Estremadura, oggi dal Marocco, dall’Ecuador, dalla Romania, dalla Polonia.
E alla rabbia subentra lo sgomento. Il meccanismo psicologico è semplice: basta pensare agli amici e conoscenti che potevano essere su quel treno. Chiamo e mi chiamano per sapere se è tutto a posto. Una lunga serie di telefonate incrociate. Messaggini. E-mails. Penso a tutte le volte che sono passato per la stazione di Atocha. Mi vengono in mente i racconti di mio padre sui bombardamenti a Bologna durante la seconda guerra mondiale. La corsa nei rifugi di via Indipendenza, di notte, in pigiama, in ciabatte. Passato il pericolo, il risalire in strada a cercarsi, per assicurarsi che tutti siano sani e salvi, che la casa sia intatta, che anche per questa volta è andata bene. Penso a Bagdad, a Sarajevo, a tutte le guerre, alla barbarie di doversi adattare alla normalità dei bombardamenti. A Madrid l’11 marzo la città ha provato la paura di un bombardamento, della morte casuale, improvvisa, senza senso se non quello di essere una minuscola pedina sacrificata in un qualche gioco dei potenti del mondo.

Tutti in un primo momento sono convinti che sia stata l’ETA. Il governo lo dà per sicuro. I pochissimi che hanno qualche dubbio incrociano le dita e sperano che non sia vero perchè, se lo fosse, la politica autoritaria del PP ne uscirebbe ulteriormente legittimata. La prima grande crepa nella versione del governo si apre giovedì sera con l’annuncio del ritrovamento di un furgone con tracce di esplosivo e una cassetta con versi del corano. Aznar e i suoi ministri continuano ad insistere con la “pista dell’ETA”. Da quel momento, però, la gente inizia a dubitare delle informazioni che dà il governo. Le persone girano per strada con l’orecchio attaccato alle radioline, come se fosse una lunghissima domenica di campionato. Di colpo tutti sembrano essersi trasformati in attivisti di tante IndyMedia improvvisate. Si cercano e si confrontano altre fonti di informazione: giornali stranieri, internet, radio alternative, discussioni con amici in altre città.
Venerdì sera, quando la versione del governo fa già acqua da più parti, è convocata la grande manifestazione unitaria contro il terrorismo. Nello striscione che apre il corteo il PP ha introdotto l’espressione “contro il terrorismo, in difesa della costituzione” che suona come un insulto per i partiti nazionalisti catalani, gaieghi e baschi che della costituzione stanno chiedendo una riforma. I gruppi della sinistra extra-parlamentare, i centri sociali e i collettivi di quartiere decidono di non aderire alla manifestazione convocata dal governo responsabile della guerra in Irak. Di non scendere per strada insieme ad Aznar, Blair e Berlusconi. Un chiaro segno del clima di incertezza (e della debolezza del movimento nelle sue forme organizzate) è che nessun gruppo convoca una manifestazione alternativa. Qualcuno partecipa a livello individuale.
Diluvia. La manifestazione è enorme. Più di due milioni di persone. Un mare di ombrelli, volti straniti, l’acqua alle caviglie. Mocassini, cappotti, cravatte, anfibi, capelli rasta. C’è di tutto. Teppisti da stadio con la bandiera spagnola e la scritta “pena di morte per l’ETA”. Famiglie che si tengono per mano. Un red skin perso nel mezzo di un gruppo parrocchiale. Non si avanza. Qualche grido forcaiolo contro l’ETA, ma è isolato. Regna l’incertezza.
Si arriva così a sabato mattina e al primo SMS. Nelle ore successive i messaggi continuano a rimbalzare da un cellulare all’altro. Alle sei sono di fronte alla sede del PP, nella calle Genova, una strada che segna una sorta di confine fra il barrio Salamanca, il quartiere dove si trovano le sedi delle ambasciate straniere e dove vivono le famiglie più ricche di Madrid, e Chueca e Malasaña, il centro, la zona dei bar, ristoranti, della vita notturna. La strada è grande, tre corsie nei due sensi di marcia. La sede del PP è un edificio moderno, 8 piani, vetri scuri. In alto, un terrazzo da cui negli ultimi anni si è affacciato Aznar per celebrare i suoi trionfi elettorali. Sono fra i primi ad arrivare con altri due compagni. Ci guardiamo intorno. Non sappiamo cosa aspettarci. Il giorno prima delle elezioni in Spagna è “la giornata di riflessione” e sono proibite tutte le manifestazioni e gli atti pubblici con contenuto politico. Saremo in pochi? Le solite faccie? Succederenno dei casini? La polizia caricherà? Per radio e per un SMS di un cellulare sempre più bollente arrivano notizie preoccupanti. A Pamplona un fornaio, simpatizzante di Herri Batasuna, è stato amazzato con un colpo di pistola da un guardia civil dopo una lite perché si era rifiutato di listare a lutto la vetrina del suo negozio.
La polizia blocca la strada e impedisce di avvicinarsi alla sede del PP. Siamo in prima fila, faccia a faccia con i poliziotti. Di colpo tutti i dubbi sono spazzati via. La gente arriva a frotte. Nel giro di pochi minuti siamo centinaia, poi migliaia. La polizia cerca di formare un cordone, delimita una zona di “non accesso” con un nastro di plastica che subito viene rotto. C’è una gran confusione. Si guadagnano metri in una sorta di versione militante di “per le vie di Roma”: quando il poliziotto si gira, si fa un passo in avanti come se niente fosse. Arrivano un paio di blindati di rinforzo, il cordone della polizia si stringe. Qualche spintone, un po’ di parapiglia, ma tutto si tranquillizza in fretta. Nessuno ha voglia di scontri. Non ci sono servizi d’ordine, nessuno pretende di farsi “portavoce” e di “gestire” la piazza. La moltitudine, di cui si è tanto letto e parlato, improvvisamente si è materializzata.
Gli slogan sono un buon termometro degli umori che attraversano una manifestazione e quelli delle decine di cortei dell’ultimo anno in Spagna non si sono caratterizzati precisamente per essere molto innovativi. Nelle manifestazioni contro la guerra, si è gridato fino allo sfinimento uno slogan dei primi anni ’70: “el yankee necesita jarabe vietnamita” (il yankee ha bisogno di sciroppo vietnamita). E puntuale arrivava sempre il classico: “con este gobierno vamos de culo”. Al che la coreografia militante imponeva di girarsi e camminare all’indietro. aznar.jpg
Nella calle Genova, sotto le finestre del PP gli slogan sono chiari e semplici. La gente grida “vuestra guerra, nuestro muertos (vostra la guerra, nostri i morti) e “queremos la verdad antes de votar (vogliamo sapere la verità prima di votare)”. O, in modo ancora più diretto: “quien ha sido (chi è stato), quien ha sido” e “mentirosos, mentirosos” (bugiardi, bugiardi). Si grida con forza e convinzione. Si grida per far uscire la paura delle bombe, lo sgomento accumulato nei due giorni successivi. Ci si sgola per dar voce alla rabbia che si porta dentro. La rabbia contro un governo che sta mentendo in modo spudorato. La rabbia contro un governo che ha portato un paese in una guerra criminale.
Ci sono le televisioni di tutto il mondo, tranne quella spagnola. La polizia è tranquilla. La tensione si stempera. La rabbia si trasforma anche in voglia di ridere. Parte lo slogan “la monarquia no viaja en cercania” (la monarchia non viaggia sui treni dei pendolari”). Applausi. Ridono anche i poliziotti che abbiamo davanti quando un compagno improvvisa un “Aznar, Bisbal el eje del mal” (Aznar, Bisbal – finalista di un programma televisivo equivalente a “Saranno Famosi” e idolo delle ragazzine – siete l’asse del male). Ma lo slogan più geniale, macabro e assurdo, nel clima di tensione e di minaccie forcaiole contro ETA e contro chi non appoggia il governo nella lotta anti-terrorista, che prima azzitisce tutti e poi provoca una risata collettiva è: “ilegalizar la mochila escolar” (“illegalizzate lo zainetto scolastico!”, visto che le bombe erano dentro degli zainetti…).
Passano le ore. Arrivano altri amici. Si ride, si scherza. Ci si siede per terra, ci si rialza. Si continua a gridare: “quien ha sido”. Chi ha la radiolina improvvisa una “ripetizione” simultanea dei giornali radio. Si viene così a sapere che sono stati arrestati tre marrocchini e due indiani. Ormai è sicuro che ETA non c’entra. La notizia passa di bocca in bocca. Riprende il “quien ha sido, quien ha sido”. Intanto il tam-tam della moltitudine ha convocato un altro concentramento a mezzanotte alla puerta del Sol. Chi l’ha deciso? Tutti, nessuno.
Alle 23:00 dopo cinque ore che sono volate via, mi avvio, insieme ad alcuni compagni, verso Sol. Di fronte alla sede del PP rimangono migliaia di persone e altre continuano ad arrivare. Le strade del centro sono invase da un corteo spontaneo, disordinato, diffuso. Ci fermiamo in un bar. Il tempo per un panino con i calamari fritti (un classico dell’alimentazione economica madrilegna), un paio di birre e a mezzanotte siamo a Sol. La piazza è piena, 20, forse 30 mila persone. Neanche l’ombra di un poliziotto. Fa un gran freddo. Non si può stare troppo tempo fermi. Di nuovo il tam tam: tutti ad Atocha. Si riformano vari cortei spontanei. Scendiamo per il paseo del Prado che è una sorta di autostrada in pieno centro. Non passa neanche un automobile. Qualcuno giù deve aver bloccato il traffico. Quasi di fronte alla stazione, il paseo del Prado si unisce alla calle Atocha formando l’apice di una V. Ci rendiamo conto che un altro corteo enorme sta scendendo per la calle Atocha. Quando i due cortei si incontrano, la gente si saluta, si alzano pugni chiusi, ci si abbraccia, ci si riconosce. Siamo tantissimi. È un gran festa. Questa notte siamo i padroni della città. Di fronte ad Atocha, all’1.30 di notte si alza un’altra volta, ostinato, il grido “quien ha sido” e poi un lungo, lunghissimo minuto di silenzio con la pelle d’oca e le lacrime a fior di pelle, seguito da un lungo, lunghissimo, interminabile applauso.
E poi di nuovo un passaparola frenetico: tutti alla sede del PP un’altra volta. Alcuni ritornano in calle Genova, molti si fermano nei bar, altri vanno a casa. Il giorno dopo si vota. Andiamo a dormire stravolti. Non lo sappiamo e non osiamo neppure immaginarcelo, ma Aznar e la sua banda di lacchè stanno per entrare a far parte del passato.