di Riccardo Valla

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Pubblichiamo l’introduzione di Riccardo Valla alla nuova edizione di Arthur C. Clarke, 2001 Odissea nello spazio, Editrice Nord, 2003. Ricordiamo che il romanzo è una novelization del famosissimo film di Stanley Kubrick, peraltro ispirato proprio a un racconto di Clarke, La sentinella; e che scrittore e regista collaborarono strettamente alla sceneggiatura del film, come Valla ci racconta.

Che cos’è la scimmia per l’uomo? Un oggetto di riso e di dolorosa vergogna. E così è l’uomo per il superuomo: un oggetto di riso e di dolorosa vergogna.
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra

Fin dai titoli di testa, la colonna sonora del film di Kubrick 2001, Odissea nello spazio trasmette un senso di attesa. Dapprima una lunga nota dell’organo, come a voler descrivere la serenità imperturbata del cosmo, poi un semplice motivo in do maggiore delle trombe, che annuncia l’arrivo di qualcosa che ancora non conosciamo, quindi il martellare dei timpani, sostenuto dagli archi. Tre volte le trombe ripetono il loro motivo, ma infine sono cancellate da un perentorio colpo di piatti che, solo, colma di echi tutto lo spazio. É l’alba: il sole è sorto.


Il brano musicale utilizzato da Kubrick è il primo movimento di Così parlò Zarathustra, poema sinfonico (o meglio Ottimismo sinfonico in forma fin de siècle dedicato al XX secolo) di Richard Strauss, scritto nel 1896. Lo stesso Strauss intitolò questo primo movimento Dell’enigma dell’universo; di solito si ritiene che descriva il sorgere del sole, allorché l’astro, al pari di quell’immenso colpo di piatti, spazza via bruscamente tutti i turbamenti della notte.
Il brano ritorna alla fine del film: due ripetizioni dello straussiano colpo di piatti aprono dunque e chiudono l’intera storia dell’umanità, elevatasi dalla condizione scimmiesca a quella dell’uomo delle stelle che intravediamo nell’ultima inquadratura. La ripetizione vuole suggerire un perpetuo enigma e una sostanziale identità, poiché in entrambi i casi ci troviamo alle soglie di una trasformazione radicale e inspiegabile: all’inizio del film ci è mostrata l’alba dell’uomo, alla fine del film la nascita della forma di vita che prenderà il suo posto. Ma l’identità dell’autore della trasformazione resterà per sempre nel mistero: deciderà lo spettatore se chiamarlo Dio, o spinta vitale, evoluzione meccanica, inarrestabile pulsione della coscienza a farsi tutt’uno con l’universo, o magari UFO.
Pare comunque che Kubrick abbia voluto soprattutto esprimere cinematograficamente il concetto dell’esistenza di un’umanità del futuro (o di una corrispondente razza aliena), altrettanto diversa da quella attuale quanto l’uomo di oggi lo è dai suoi predecessori antropoidi: forse pensava a come la biologia e la medicina si ripromettono di trasformare la natura fisica dell’uomo, ad esempio prolungandone la vita, permettendogli di potenziare le sue facoltà mentali ecc. L’invenzione dei primi utensili ha permesso all’uomo di dominare ogni animale; l’invenzione della scienza lo porterà a vincere ogni rimanente limite naturale.
Tuttavia, al di là dell’ipotesi che ci potrà essere un cambiamento, nessuno può onestamente prevedere le caratteristiche fisiche e mentali dell’uomo del futuro. A voler descrivere il superuomo si rischia di arenarsi nella banalità o nel ritratto di qualche fumettistico Superman: Kubrick conosce questo rischio e di conseguenza si limita a mostrarci un embrione che galleggia nello spazio. É stata una decisione molto sofferta, poiché per tutta la lavorazione del film ha cercato altre soluzioni, ma a ben vedere era la sola immagine plausibile.
La scena finale del film si ricongiunge dunque a quella iniziale e sembra avere un’unica possibilità di interpretazione: l’evoluzione non è finita. Altrettanto chiari, almeno in maggior parte, sono i precedenti episodi del film.
Il primo episodio, tra gli uomini scimmia, si riallaccia ai trattamenti cinematografici del tema della violenza cari a Kubrick, come Il dottor Stranamore e i successivi Arancia meccanica e Barry Lyndon, sempre un po’ ambigui, giacché talvolta la violenza vi è ritratta come un male, talvolta come un male necessario: in 2001, Kubrick mostra come l’invenzione degli utensili (leggi: armi) abbia plasmato l’uomo. Oggi l’ipotesi che il primo uomo sia stato un Caino è giudicata alquanto semplicistica, ma ha goduto di una certa diffusione negli anni sessanta, dopo la scoperta che l’australopiteco africanus, più piccolo, ma capace di usare come mazza un osso di antilope, aveva soppiantato il cugino robustus, vegetariano e non aggressivo. Curiosamente, il massimo divulgatore di questa ricostruzione era stato non uno scienziato, ma un giornalista e commediografo, Robert Ardrey, in un libro chiamato L’istinto di uccidere; comunque, l’idea della natura fondamentalmente omicida dell’uomo aveva trovato consenziente anche Konrad Lorenz.
Gli episodi successivi, che nel film descrivono i viaggi sulla Luna e a Giove, hanno un duplice aspetto. Da un lato, con una sorta di frecciata contro il film di fantascienza degli anni cinquanta, vogliono mostrare come la conquista dello spazio non riservi ai suoi protagonisti l’avventura, bensì sia solo noia, straniamento e tecnologia. Rientra in questo filone la nota ironica con cui Kubrick accompagna con la musica del Danubio blu la lenta rivoluzione della stazione spaziale, come se fosse la grande ruota del viennese Prater. Dall’altro lato, Kubrick intende esplorare gli aspetti formali della futura tecnologia, e perciò si fa costruire le scenografie nel modo più esatto possibile, ricorrendo anche alla consulenza della NASA; poi, da dietro la macchina da presa, studia ogni inquadratura come se si trattasse di una foto da pubblicare su una rivista di arte fotografica (del resto, Kubrick si era fatto conoscere inizialmente come fotografo).
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Nasce così una serie di sequenze a cui hanno attinto tutti i film di fantascienza girati in seguito: per fare un solo esempio, al passaggio della Discovery davanti all’obiettivo, allorché la vediamo per la prima volta, si è ispirato Lucas per le inquadrature iniziali di Guerre stellari. Con le sue luci, con i suoi modellini e con i suoi movimenti di macchina, Kubrick ha virtualmente monopolizzato il film di fantascienza degli anni seguenti; per trovare idee altrettanto valide visivamente, che non risentano dell’invadente influenza di 2001, occorre aspettare le scenografie costruite dal pittore Giger per l’astronave extraterrestre del film Alien.
Solo l’episodio finale del film, oltre Giove, dopo la fine del viaggio della Discovery, resta ancora ambiguo agli occhi dello spettatore odierno, a vent’anni di distanza dalla première e nonostante sia sempre stato il tradizionale punto di forza di infinite discussioni da foyer. Su quest’ultima parte ha anche speculato la pubblicità americana del film, ribattezzandolo The Ultimate Trip, ossia il non plus ultra dei viaggi, con grande interesse dei cercatori di esperienze psichedeliche, che hanno immediatamente creduto di riconoscere in Kubrick e Clarke due compagni consumatori di quelle che Alex, il protagonista di Arancia meccanica, chiamava drogucce mescaline.
Rispondendo a chi gli chiedeva il significato della penultima scena del film, ossia quella che si svolge nel bianchissimo appartamento settecentesco, lo stesso Kubrick assicurava il suo beneplacito alla giustificazione data da Clarke nel romanzo tratto dalla sceneggiatura originale scritta a quattro mani con lui, ossia che l’episodio si svolge in un super laboratorio scientifico di una razza extraterrestre. Ma è chiaro che non è l’unica spiegazione e neppure tutta la spiegazione: sembra soprattutto una di quelle risposte che talvolta i registi di genio possono dare agli intervistatori noiosi. A proposito di quella scena, Clarke riferisce infatti di avere proposto, in sede di stesura del soggetto, tutta una serie di sequenze dedicate alla descrizione degli alieni; ogni volta, Kubrick dapprima le ha approvate, ma in seguito ha deciso di non realizzarle.
La lavorazione del film è riferita da Clarke in un libro, The Lost Worlds of 2001, in cui parla della collaborazione tra lui e Kubrick: una collaborazione che si protrasse per più di tre anni. Il film fu proiettato nell’aprile 1968, ma Kubrick iniziò a parlarne con Clarke fin dall’aprile del 1964: intendeva girare un film sul rapporto tra l’uomo e l’universo, cercava una storia mitica e simbolica che gli permettesse di giocare con le simmetrie della trama.
É probabile che Kubrick avesse in mente alcuni film del decennio precedente: Uomini sulla Luna, La conquista dello spazio e Il pianeta proibito. I primi due erano stati realizzati dal produttore George Pal in modo alquanto impegnativo, ricorrendo alla consulenza di esperti come lo scrittore Heinlein, il pittore Boneystell e perfino il mitico Wernher von Braun; le loro riprese spaziali erano le migliori che fossero mai state realizzate… finché non giunsero quelle di Kubrick. Il terzo riusciva a trasmettere un senso di sgomento di fronte alle realizzazioni di un’antica razza extraterrestre (che ovviamente, per non rovinare l’effetto, non era mai mostrata).
Seguendo l’esempio di Pal, anche Kubrick si rivolse a un affermato scrittore di fantascienza per studiare con lui il soggetto. Clarke era il più importante scrittore inglese specializzato, era uno scienziato e un giornalista scientifico; inoltre era tendenzialmente portato alle riflessioni sul destino che, a lunga scadenza, poteva toccare all’uomo e alla sua scienza, e questo si armonizzava bene con l’intenzione di Kubrick di presentare una storia mitica e simbolica.
Dopo essere stato chiamato da Kubrick, Clarke prese spunto da vari suoi racconti degli anni precedenti e propose al regista una prima versione del soggetto. Al centro del film doveva esserci la storia narrata nel racconto La sentinella, in cui si parla del ritrovamento, sulla Luna, di una costruzione lasciata laggiù da esseri di un altro sistema solare. Passato il primo periodo di meraviglia, l’uomo che l’ha scoperta comincia però ad avere un sospetto: forse è una sorta di segnale d’allarme, con lo scopo di avvertire qualche ignota razza aliena del fatto che i terrestri ormai sono in grado di lasciare il loro pianeta. E il sospetto è inquietante perché quegli alieni «forse vogliono aiutare la nostra civiltà ancora bambina, ma devono essere molto vecchi e spesso i vecchi sono assurdamente gelosi dei giovani».
Un altro dei racconti accettati in origine da Kubrick era intitolato Spedizione alla Terra; Clarke ne scrisse l’adattamento e Kubrick, in un primo tempo, lo incluse tutto nella sceneggiatura, ma in seguito ne eliminò varie parti. Parlava di un extraterrestre chiamato Clindar, esteriormente molto simile a un uomo, che nel lontano passato era sceso sul nostro pianeta con la sua astronave, aveva fatto amicizia con una tribù di antropoidi e aveva insegnato loro a utilizzare i primi utensili. Nel film non compaiono né l’astronave, né l’extraterrestre, né l’amicizia tra l’uomo scimmia e il superuomo: Kubrick accetta le idee di Clarke, ma elimina sistematicamente le sue spiegazioni.
Clarke riporta in Lost Worlds of 2001 i vari pezzi scartati e molti commenti del suo diario. Ad esempio:

28 maggio 1964. Suggerisco a Stanley (Kubrick) che quelli potrebbero essere macchine intelligenti che considerano la vita organica come un’orribile malattia. Stanley dice che l’idea è buona e che bisogna tenerla presente.
12 luglio 1964. Adesso abbiamo tutto… eccetto la storia.
28 luglio 1964. Stanley: «Ciò che vogliamo è un tema sconvolgente, di mitica grandezza.»
1 agosto 1964. Il Ranger VII si è schiantato sulla superficie lunare. Stanley si preoccupa per le annunciate sonde marziane: e se scoprissero qualcosa che dà il colpo di grazia alla nostra storia? (Più tardi Stanley s’informò presso i Lloyd se fossero disposti ad assicurarlo.)
6 agosto 1964. Stanley suggerisce che il computer sia di sesso femminile e che si chiami Athena.
17 agosto 1964. Finalmente abbiamo anche il nome del protagonista: Alex Bowman. Urrah!
6 ottobre 1964. Un’idea che mi pare cruciale. L’altro sistema stellare è abitato da uomini prelevati sulla Terra centomila anni fa, e perciò virtualmente identici a noi.
17 ottobre 1964. A Stanley è venuta in mente un’idea pazza: dei robot un po’ checche, che hanno costruito un ambiente in stile vittoriano a beneficio dei nostri eroi per evitare che si spaventino.
10 dicembre 1964. Stanley mi chiama dopo avere visto Nel 2000 guerra o pace; dice che non si farà mai più proiettare un film raccomandato da me.

Alla fine del 1964 la sceneggiatura era completa; Kubrick la presentò alla MGM e alla Cinerama per avere i finanziamenti. In un primo tempo, il film doveva chiamarsi Viaggio oltre le stelle; altri titoli proposti: Universo, Tunnel verso le stelle e Discesa planetaria. «Dovevano passare undici mesi scrive Clarke e si doveva giungere all’aprile 1965, prima che Stanley scegliesse quello definitivo. A quanto ricordo, l’idea fu soltanto sua.» La produzione iniziò, ma mancava ancora il finale. Clarke annota nel diario:

25 agosto 1965. Ho capito come deve assolutamente finire la storia: con Bowman fermo accanto alla nave aliena.
1 ottobre 1965. Stanley mi ha telefonato per comunicarmi un altro finale.
3 ottobre 1965. Stanley mi ha telefonato: è ancora preoccupato per il finale. Gli ho riferito le ultime idee che mi sono venute in mente, e, senza che me l’aspettassi, una gli è piaciuta moltissimo. Bowman regredisce fino all’infanzia e noi lo vediamo sotto forma di un neonato che orbita nello spazio. Stanley mi ha richiamato più tardi: era ancora entusiasta. Spero che non sia un falso ottimismo.
5 ottobre 1965. Ho trovato un motivo logico perché Bowman appaia come un neonato in orbita. É l’immagine che, giunto a quello stadio di sviluppo, Bowman ha di se stesso. E, chissà, forse la Coscienza Cosmica ha il senso dello humor! L’ho telefonato a Stanley. Non mi è parso particolarmente colpito da queste osservazioni, ma adesso mi sento tranquillo.
15 ottobre 1965. Stan ha deciso di far morire tutto l’equipaggio della Discovery, in modo che Bowman resti solo. Un po’ drastico, ma mi pare giusto. Dopotutto, Ulisse fu il solo superstite.

Le riprese cominciarono alla fine dell’anno, e in un primo tempo Kubrick pensò di iniziare 2001 intervistando alcuni scienziati, che avrebbero parlato delle possibilità di vita nell’universo. Si era nell’aprile del 1966. Uno degli scienziati interpellati da Kubrick, il fisico Freeman Dyson, racconta nel suo libro Turbare l’universo l’incontro con il regista negli studi di Shepperton:

La scena era una struttura di metallo e legno compensato che rappresentava la galleria circolare contenente il quadro di comando dell’astronave Discovery. Quel giorno era presente uno solo degli attori. Si chiamava Keir Dullea e aveva la parte dell’astronauta Bowman. Dopo tre mesi passati sul set di 2001 era esasperato e frustrato. Stetti a guardarlo mentre lavorava. Camminò lentamente nella galleria, poi si voltò verso il quadro di comando e pigiò alcuni pulsanti. Tutto qui. L’intera azione era durata circa un minuto. Poi Kubrick perse venti minuti a spostare le luci e le cineprese. Poi Keir risalì nella galleria e rifece i movimenti di prima. Poi altri venti minuti fermo a guardare, mentre Kubrick spostava le luci. Poi un’altra ripresa di un minuto. E così via. «Per l’amor di Dio, perché non mi fa recitare?» si lamentava Keir.
Io cercai di far uscire Kubrick dal suo guscio e gli chiesi della trama e dei personaggi del film. Non gli interessavano minimamente. L’unica cosa di cui voleva parlare erano i trucchi cinematografici. Mi descrisse con vivo entusiasmo tutti i trucchi per far apparire grande un modellino di astronave. Mi insegnò le sfumature dell’arte della ripresa e dell’uso delle luci. Dopo un po’ cominciai anch’io a sentirmi frustrato come Keir Dullea.Mi ero recato nel teatro di posa di Kubrick aspettandomi di trovarlo al lavoro su un altro Stranamore. E invece avevo visto unicamente qualche aggeggio meccanico. Mi lamentai con Kubrick. Lui mi rispose: «Ne capirà il motivo quando vedrà il film.» Nient’altro.

Per tutta la lavorazione, racconta Clarke, Kubrick continuò a chiedergli nuove proposte per la scena finale del film. L’idea della Sentinella, consistente nel suggerimento che gli alieni fossero ostili, era stata scartata fin dall’inizio e si voleva soprattutto dare il senso di un’intelligenza enormemente più progredita dell’uomo. Come riferisce Clarke, erano state prese in esame molte classiche ipotesi della fantascienza (la civiltà dei robot, la tribù umana perduta), ma Kubrick le aveva scartate.
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Prima che Kubrick arrivasse alla versione definitiva, Clarke suggerì altri possibili finali: nel primo di essi, quel medesimo Clindar che era stato sulla Terra tre milioni di anni prima (e che era immortale grazie alla sua scienza) accoglieva sul suo pianeta l’intero equipaggio della Discovery. In un’altra versione scartata, il monolito in orbita attorno a Giove non era una porta su altre dimensioni fisiche e mentali, ma un contenitore: in esso c’era Clindar, che dormiva da milioni di anni e che si risvegliava all’arrivo dei terrestri. In altre proposte successive, sviluppate da Clarke dopo che Kubrick aveva deciso di eliminare il resto dell’equipaggio, Bowman, alla fine del viaggio, trovava creature estremamente diverse dall’uomo, oppure atterrava su un pianeta disabitato, poiché i costruttori del monolito si erano estinti e sopravvivevano solo le loro macchine programmate.
Di tutti questi suggerimenti, quali sono stati accolti dal regista? Attenendoci con cautela alla lettera del film, vediamo Kubrick dire sostanzialmente questo: come nel libro, Bowman esce con la capsula a osservare il monolito orbitante attorno a Giove e si trova (presumibilmente) catapultato attraverso lo spazio tra le stelle. Entra in orbita attorno a un pianeta (presumibilmente) diverso dalla Terra e, quando la navicella si arresta, scopre di trovarsi in una camera di tipo terrestre. Rimane in quell’ambiente fino alla morte (oppure si vede invecchiare e morire): importante è il fatto che al momento della sua morte ricompaia il monolito. La sua presenza trasforma Bowman in qualcosa di diverso dall’uomo, così come aveva trasformato in qualcosa di diverso dall’animale gli uomini scimmia.
Sono possibili altre interpretazioni: il monolito potrebbe non essere un oggetto concreto (ma occorrerebbe giustificare quello trovato sulla Luna), oppure il viaggio di Bowman nello spazio potrebbe essere soltanto una sua esperienza allucinatoria. Paiono però da escludere spiegazioni come quelle che si potevano leggere nelle prime recensioni del film, forse dovute a qualche benintenzionata velina della casa distributrice, secondo le quali Bowman, «giunto al termine della sua missione, ritorna sulla Terra, dove il governo, per premiarlo della sua carriera di astronauta, gli regala un appartamento ammobiliato in stile».
L’aspetto più singolare delle parti di 2001 che si svolgono nella camera in stile settecentesco è però un altro, ossia il fatto che anch’esse sono un luogo comune della fantascienza, non diversamente dai robot, dagli alieni immortali e dalle tribù prelevate in blocco dai dischi volanti. Infatti l’intera sequenza ha una forte affinità con quanto accade in un famoso romanzo di fantascienza, The Weapon Makers (Le armi di Isher) di A.E. van Vogt, pubblicato nel 1943 e certo noto ad A.C. Clarke, essendo apparso in un periodico a cui collaborava egli stesso. Verso la metà del romanzo di van Vogt, il protagonista Hedrock fugge dalla Terra a bordo di una piccola astronave sperimentale, capace di viaggiare più veloce della luce, e perde i sensi a causa dell’accelerazione al decollo. Mentre si allontana, privo di conoscenza, nello spazio interstellare, la sua nave è catturata da alcune entità extraterrestri che eseguono uno studio della razza umana e della sua emotività.
Quando si risveglia, Hedrock scopre che la sua navicella è atterrata in un ambiente fantoccio costruito dagli extraterrestri per saggiare le sue reazioni: una scenografia che è la ricostruzione esatta della sua città, così com’era prima che lui la lasciasse. Esce dall’abitacolo e dapprima trova una copia di se stesso, in una navicella uguale alla sua. Poi entra in un edificio e vi scorge un uomo intento a leggere una lettera. (L’uomo è un suo conoscente, un tale Neelan, e la lettera contiene certe informazioni cercate da Hedrock.) A questo punto, gli extraterrestri trasferiscono la mente di Hedrock nel corpo di Neelan per dargli modo di leggere la lettera; in seguito, finché proseguirà l’esperimento, Hedrock resterà nel corpo dell’altro.
Come si vede, le analogie tra l’episodio narrato da van Vogt e la sequenza diretta da Kubrick sono troppo numerose perché si tratti solo di una congruenza accidentale: in entrambi compaiono il viaggio a una velocità superiore a quella della luce, l’atterraggio in ambiente fantoccio uguale a quello terrestre ma sottilmente diverso, le varie copie della stessa persona e il passaggio della coscienza da un corpo all’altro.
Curiosamente, Clarke non accenna mai a van Vogt, come se avesse rimosso dalla sua mente il ricordo dell’episodio. Si ha il sospetto che dopo avere proposto a Kubrick spunti tratti dai suoi racconti, dopo essere passato a quelli degli autori da lui apprezzati, alla fine sia giunto a proporgli anche quelli di autori che non gli piacevano minimamente: per esempio van Vogt, che per la scienza non ha mai avuto alcun rispetto.
La mentalità di Clarke, che scrive nel suo diario di non essere stato tranquillo finché non avesse trovato una giustificazione razionale dell’immagine conclusiva del film, è agli antipodi di quella di van Vogt, autore che non si è mai curato della verosimiglianza scientifica e che si vanta di scrivere i romanzi a braccio. Ma Kubrick cercava evidentemente i suggerimenti intuitivi e non le razionalizzazioni: per tutta la lavorazione cercò di far oltrepassare a Clarke i limiti del rigore scientifico e dell’osservanza della logica.
Nel tracciare il bilancio della sua esperienza con Kubrick, Clarke dà l’impressione di essersi alquanto seccato a causa dell’indecisione del regista, che gli chiedeva infiniti rifacimenti e che, se da un lato era facile a entusiasmarsi, dall’altro cambiava facilmente idea. Leggiamo in Lost Worlds of 2001 che il romanzo tratto dalla sceneggiatura del film doveva essere pubblicato nel 1966, ma che Kubrick, all’ultimo momento, aveva fermato la pubblicazione: «Nessuno poteva prevedere che dovevano ancora passare due anni prima che uscisse nell’estate del 1968, mesi dopo il film. Alla fine, tutto si sistemò, come Stanley aveva predetto.» E conclude: «Ma ci sono modi più tranquilli di guadagnarsi la vita.»
Tuttavia, nonostante queste recriminazioni, colui che ha tratto maggiori vantaggi dalla collaborazione è stato senza dubbio Clarke. Kubrick gli ha imposto i suoi standard di qualità e, anche se Clarke non lo dice, gli ha insegnato a non rifugiarsi dietro le spiegazioni razionali, a non aver paura dell’ambiguità e delle narrazioni aperte. Dopo essere stato con Kubrick, Clarke è finalmente diventato un romanziere, mentre in precedenza era soprattutto un brillante autore di racconti. I romanzi scritti da Clarke prima dell’incontro con Kubrick mostrano infatti dei grandi scompensi: alcuni sono pedestri documentari sulle meraviglie del futuro, altri tendono a iniziare da presupposti rigorosamente scientifici per poi salvarsi con la fuga in qualche dimensione misticheggiante allorché l’autore scopre di essersi infilato in un vicolo cieco. Il tipico rappresentante di questi vecchi romanzi di Clarke è Le guide del tramonto: un’opera ricca di spunti, basata sull’arrivo di una razza di extraterrestri benevoli che assumono il potere mondiale perché vogliono salvare la Terra dalla distruzione atomica. Presto però il romanzo si sfilaccia in una serie di trovate un po’ cheap: prima si scopre che gli extraterrestri hanno ali da pipistrello e poi che l’intera razza umana si sta trasformando in un unico super essere senza corpo, una mente cosmica.
Con Kubrick, Clarke ha imparato a eliminare le pagine di cui non era soddisfatto, invece di cercare di salvarle a tutti i costi. A iniziare dal romanzo di 2001, le opere di Clarke sono assai più compatte di prima. Ma, ancor più di 2001, lo scritto che mostra come abbia tratto profitto dagli insegnamenti di Kubrick è la sua più importante opera degli ultimi anni: Incontro con Rama. In questo romanzo si descrive l’incontro tra l’umanità e una misteriosa cometa artificiale (Rama), che, nella sua traiettoria, si avvicina per qualche tempo al Sole per poi scomparire di nuovo nello spazio. Assistiamo all’arrivo di questo corpo astronomico, al suo progressivo disgelo, al risveglio dei meccanismi in esso contenuti. Riprende a funzionare e rivela chiaramente la sua natura di habitat artificiale, ma le sue attività sono sovranamente indifferenti alla presenza dell’uomo e non offrono alcun indizio sui suoi costruttori.
La sensazione complessiva che resta nel lettore alla fine di Incontro con Rama è di stupore per il mistero dell’universo, che è infatti il vero protagonista del romanzo. Lo stesso tipo di eterno enigma cosmico che in 2001 era rappresentato dal monolito e a cui rimandava la musica di Strauss.

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