di Girolamo De Michele*

Ascolta su Arcoiris Marcello Flores sul genocidio degli armeni.

Sul genocidio degli armeni in Turchia, se tralasciamo i negazionisti ad oltranza (secondo i quali le vittime del genocidio sarebbero poche migliaia), abbiamo due diverse tesi storiografiche, esemplificate da due libri usciti contemporaneamente nel 2006: la tesi del genocidio politicamente diretto, affermata con forza da Marcello Flores in Il genocidio degli armeni, e quella del massacro inintenzionale, sostenuta nel 2005 dallo storico americano Guenter Lewy in Il massacro degli armeni. Un genocidio controverso e ultimamente ribadita in un intervento sul Jerusalem Post (Was it genocide?, 14 maggio 2006) e in Commentary (The First Genocide of 20th Century?, febbraio 2006).

180px-Armin_wegner-pile_of_bodies-DSC_0124.jpgAmbedue gli storici concordano sulla sequenza degli eventi che nel 1915-1916 portò alla deportazione di centinaia di migliaia di armeni dai loro luoghi di residenza all’interno del deserto siriano, e al rilevante numero di vittime — non meno del 40% della popolazione armena — causato dall’uso diretto della violenza, dalla brutalità della deportazione, dalle condizioni di vita cui gli armeni furono sottoposti, dalle epidemie che flagellarono la Turchia negli anni della guerra. Ciò che divide i due studiosi è l’interpretazione delle cause del genocidio (secondo Flores) o dei calamitous events (secondo Lewy): per Flores è un fatto storico non solo lo sterminio, ma la costruzione politica dell’evento. La soluzione genocida è una risposta politica quasi empirica a uno stato di crisi che precipita l’Impero Ottomano nella xenofobia, nella ricerca del nemico interno che viene identificato con la comunità armena (che sino a pochi decenni prima godeva invece della reputazione della comunità più fedele all’Impero). Lewy, al contrario, afferma che la documentazione in nostro possesso deve farci dubitare, sino a prova contraria, dell’esistenza di un progetto politico e di un disegno preciso: dello sterminio degli armeni è lecito affermare solo che l’intento di deportare gli armeni è sfuggito di mano agli esecutori locali delle direttive. In secondo luogo, mentre Flores usa senza alcun problema il termine “genocidio”, Lewy afferma una sua propria, ristretta accezione del termine, in base alla quale, come già nei suoi precedenti lavori sul massacro degli zingari (La persecuzione nazista degli zingari (leggi qui la recensione di Giovanna Boursier), sulla guerra del Vietnam (America in Vietnam, Oxford University Press, 1978, contro il quale ha polemizzato duramente Noam Chomsky) e sui nativi americani (Were American Indians the Victims of a genocide?, Commentary, dicembre 2004), afferma che non è lecito usare termini come “olocausto” o “genocidio”. Infine, Lewy afferma l’utilità politica di far cessare «lo sterile dibattito sul genocidio o meno» per favorire il processo di ricomposizione delle relazioni turco-armene, mentre Flores è convinto che la comprensione senza veli e senza remore del genocidio armeno contribuirà alla comprensione di «questioni che sono al cuore della storia del Novecento e della modernità nel suo insieme».
Flores e Lewy analizzano, in buona parte, lo stesso materiale documentario e fanno riferimento alla stessa bibliografia storica. Da cosa dipende dunque il loro contrasto? Prescindendo da una certa capziosità di Lewy, da una diversa concezione di “fatto storico”. Lewy sembra animato dal convincimento dei grandi storici dell’Ottocento, dei Ranke e dei Fustel de Coulanges: compito dello storico è ricostruire i fatti «come essi sono realmente accaduti». Per fare ciò lo storico deve utilizzare solo documenti la cui obiettività è al di sopra di ogni, seppur minimo, sospetto. Di conseguenza Lewy nega valore di documento la maggior parte del materiale preso in esame: i resoconti diplomatici (1), inficiati dall’essere scritti in tempo di guerra da nemici della Turchia — poco importa se uno di questi è stato scritto dallo storico Arnold J. Toynbee (qui il testo in francese); le testimonianze di personaggi politici talvolta rilevanti (2), che potrebbero per Lewy avere avuto interessi politici dietro le proprie affermazioni; le testimonianze dei sopravvissuti, ovviamente da prendere con estrema cautela perché comunque soggettive; da escludere sono anche i resoconti della stampa sul processo intentato in Turchia ai responsabili del genocidio al termine della guerra, perché i giornali erano sottoposti a censura politica; assenti sono anche i documenti letterari e romanzeschi; arslan.jpgquanto alla straordinaria documentazione fotografica di Armin Wegner (accuratamente esaminata e riprodotta nel volume di Flores assieme ad altri repertori fotografici), essa è esclusa in ragione di alcune inesattezze rilevate nel testo di presentazione. Dopo aver «spazzato la stalla», ciò che rimane è un repertorio documentario che non consente l’affermazione di una verità storica. L’impressione, rafforzata dalle pagine che Lewy dedica ai processi del dopoguerra (verso i quali Lewy ha per altro atteggiamenti contraddittori) è che per Lewy la verità storica non possa avere altra forma che quella della verità giudiziaria (3). Si tratta di un approccio “defeliciano”, che reintroduce il mito del documento ufficiale come parametro per il “documento oggettivo”, e che fa compiere alla storiografia un lungo balzo all’indietro, se è vero che almeno dalle prime ricerche della Scuola degli Annales, (4) dunque sin dagli anni Trenta, è prevalsa la consapevolezza che «il documento non è innocuo. È il risultato prima di tutto di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca, della società che lo hanno prodotto […]. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro — volenti o nolenti — quella data immagine di se stessa. Al limite, non esiste un documento-verità. Ogni documento è menzogna. Sta allo storico non fare l’ingenuo» (5). La consapevolezza del carattere parziale di ogni fonte storica costringe gli storici a moltiplicare le fonti, non a restringerle; a considerare documenti anche quei testi narrativi, artistici, iconografici, memorialistici che non furono scritti con l’intento di lasciare una testimonianza, e che a volte (basta pensare al Diario di Anne Frank) testimoniano ben più dei monumenti e dei documenti “ufficiali”. Infine, ad accettare anche quelle informazioni che vengono da documenti falsi, o censurati, o di parte (andando a cercare il rimosso, o la verità inconscia, al di sotto della facciata). Il vecchio Chabod ha fatto una magistrale analisi della Donazione di Costantino, documento che ha molto da dirci, a dispetto della falsità del suo contenuto manifesto; e la storiografia italiana, da Cantimori e Ginzburg, ha lavorato con profitto sui non detti, sulle tracce, sui segni minoritari che si annidano nei documenti. Cosa dovrebbero scrivere del fascismo gli storici, se rifiutassero a priori la lettura critica della stampa sulla base dell’esistenza della censura politica?
Edward Carr, nelle Sei lezioni sulla storia, paragona il fatto storico a un sacco che «non sta in piedi se non gli si mette qualcosa dentro» (6). Il sacco di Flores sta in piedi perché è riempito da un materiale molteplice, che produce una verità storica come effetto d’insieme. Un esempio, per essere chiari: è un fatto storico che al genocidio degli armeni abbia partecipato l’Organizzazione speciale Teskilati Mahsusa, tanto quanto lo è l’organizzazione della Strage di Piazza Fontana da parte dei fascisti di Ordine Nuovo (qui e qui le sentenze che lo attestano); l’assenza di documenti ufficiali non consente di accertare una verità giudiziaria, cioè di attribuire un nome e una data di nascita a singoli individui membri dell’Organizzazione, non certo di affermare che le testimonianze in merito sono «semplici affermazioni non sostenute da alcuna vera prova (p. 110)». Il sacco di Lewy è semi-vuoto e pende da un lato: ma, gli si potrebbe far osservare (come in ambito negazionista è stato maliziosamente fatto): cosa ne sarebbe del genocidio degli ebrei, con gli strumenti di Lewy? Lo storico americano fa più volte appello al Processo di Norimberga: ma cosa ne sarebbe della nostra conoscenza della Shoah, se dovessimo fare ricorso al solo materiale giudiziario del processo?
Quanto al concetto di “genocidio”, Flores fa implicitamente riferimento a quello definito dalla Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (7), dove si afferma preliminarmente che «in ogni periodo della storia il genocidio ha inflitto gravi perdite all’umanità» e si definisce come genocidio «ogni atto commesso con l’intento di distruggere, del tutto o in parte, i membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Sono comportamenti simili non solo l’uccisione, ma altresì l’infliggere deliberatamente condizioni di vita che provochino una totale o parziale eliminazione fisica del gruppo. Lewy, per contro, considera come giustificazioni le percezioni soggettive del governo turco: come per gli zingari (Lewy sembra far propri gli stereotipi dello zingaro ladro, imbroglione, fraudolento e fannullone), il fatto che gli autori dell’eccidio avessero delle ragioni ritenute soggettivamente valide attenuerebbe la portata del crimine; Lewy considera rilevante l’oggettiva ostilità degli armeni verso i turchi (appiattendo l’intera comunità armena su piccole frange estremistiche), come aveva già negato il concetto di “vittime innocenti” nella guerra del Vietnam perché non c’erano vietnamiti politicamente neutrali, dunque innocenti; Lewy non considera (come già per gli zingari) le morti per tifo attribuibili alla responsabilità del governo turco, perché l’epidemia di tifo (che colpì un elevato numero di turchi, oltre che di armeni) non era prevedibile (ma allora non dovremmo asserire che anche Anne Frank non è vittima del genocidio ebraico, dal momento che anch’essa morì di tifo?) (8); infine, come per i nativi americani e gli zingari, Lewy discetta del numero delle vittime in relazione alla popolazione complessiva, con esercizi di aritmetica mortuaria degna delle pagine peggiori del Libro nero del comunismo, paragonando i morti armeni alle vittime del genocidio ebraico e giungndo ad affermare che «un elevato numero di morti può essere oggetto di ferma riprovazione, ma onn può costituire una prova dell’esistenza di un piano di sterminio» (p. 67). Ma è lecito a uno storico dare una simile, personale e ristretta definizione di genocidio, senza mai citare quella condivisa e firmata da tutti gli stati membri dell’ONU, dunque anche da Turchia e Armenia?
Ciò che a Lewy sembra premere è mantenere una sorta di marchio di unicità sul genocidio degli ebrei: come se, invece, il genocidio degli armeni non gettasse luce, nel Novecento, sulla prima costruzione empirica di un nemico assoluto da sterminare. Costruzione che militari e diplomatici tedeschi osservarono con attenzione, pur senza probabilmente avervi parte attiva: non sarebbe più fruttuoso indirizzare la ricerca verso l’utilizzo di quella banca di dati osservativi negli anni Trenta?flores.jpg
Proprio sui rapporti tra genocidio armeno e genocidio ebraico Flores cita una serie di documenti (ignoti, sembra, a Lewy, anche se pubblicati nel 2003 nella Revue d’histoire de la Shoah) nei quali il genocidio degli armeni è testimoniato “in tempo reale” dagli stessi ebrei di Palestina, preoccupati dalla politica turca: a giusta ragione, perché anch’essi furono poco dopo (con conseguenze di minore gravità, stante la disfatta dell’Impero Ottomano) sottoposti alle medesime misure di deportazione, come in modo diverso furono vittime della politica genocida ottomana le comunità curda (che pure avevano avuto un ruolo di primo piano nello sterminio degli ameni) e assiro-caldea. Scrivono i curatori nella presentazione del fascicolo: «Le differenze tra queste due memorie lacerate sono sufficientemente numerose ed identificabili da evitare che la comparazione rimetta in causa la singolarità della Shoah e che la commemorazione dell’una non sia intesa in concorrenza con l’altra». (9)
Rimane la questione dell’uso politico del genocidio. Certamente l’ipocrisia politica vorrebbe che prevalenti ragioni di breve momento facessero calare un velo d’oscurità sul Metz Yeghérn, il «Grande Male» (come lo chiamano gli armeni). E lo stesso vale per la Cecenia, per il dissenso cinese, e via dicendo. E non viene detto lo stesso per i misteri della strategia della tensione, in Italia? Ma che destino politico avrebbe una comunità fondata sulla menzogna e sull’occultamento? Al contrario, un discorso di verità sul genocidio degli armeni potrebbe essere l’occasione per parlare anche delle atrocità commesse in Bulgaria e in Anatolia (durante l’occupazione greca) contro i turco-mussulmani, squarciando il velo di ipocrisia romantica ed eurocentrica che ammanta la secolare questione balcanica. Dopo tutto l’Italia è il paese dell’armadio della vergogna — ma è anche il paese di Giacomo Leopardi, per il quale solo sull’arido vero e sulla franca lingua possono essere radicate giuste e solidali istituzioni.
Bisognerebbe proprio farglielo leggere, Leopardi, a certi ingenui riduzionisti.

* Questo intervento è parte di un progetto scolastico (clicca qui ed entra nel sito per il dettaglio) sul genocidio degli armeni. Una versione più breve è stata pubblicata su Liberazione del 08 novembre 2006.

(1) Testimonianze del carattere premeditato e intenzionale del genocidio armeno emergono dai rapporti diplomatici degli ambasciatori americano Morghentau e austriaco Pallavicini, e dei consoli tedesco Mordtmann e italiano Gorrini: non solo diplomatici di Stati nemici, dunque.
(2) Come il senatore turco Ahmed Riza, leader dell’ala moderata e liberale del partito Ittihad (i cosiddetti “Giovani Turchi”), che nel 1915 denunciò in parlamento le violenze contro gli armeni. Diversamente da Flores, Lewy non prende in esame questi interventi.
(3) Alle pp. 84-85 del suo libro, Lewy nega valore documetario a cinque telegrammi nei quali Talât Pasha emanava direttive per il massacro, adducendo tra le altre ragioni il fatto che nel corso del processo all’assassino di Talât «i telegrammi, oltre a non essere acquisiti come prova, non furono neppure autenticati». Nello stesso capitolo Lewy critica però l’operato delle corti marziali turche, a suo dire condizionate dalle pressioni anglo-francesi, e nega credibilità anche ai documenti acquisiti dai tribunali perché gli originali sono oggi andati perduti. Flores, diversamente da Lewy, ritiene che «la figura di Talât Pasha come coordinatore generale del genocidio [emerge] con chiarezza nel corso del processo cui [fu] sottoposto dalla giustizia ottomana alla fine della guerra», e osserva che «nel suo ruolo di ministro dell’Interno, Talât non poteva evidentemente che avere un ruolo di primo piano nella soluzione violenta della questione armena» (p. 143). Il processo intentato nel giugno 1921 al giovane armeno Soghomon Tehlirian che aveva giustiziato a Berlino Talât Pasha si concluse con l’assoluzione d Tehlirian. La difesa di Tehlirian impotò la propria linea di condotta sul riconoscimento che «durante il governo di Talât fu versato un mare di sangue», e che la questione non era se Tehlirian avesse ucciso Talât, ma se dovesse essere considerato colpevole. Affermò infine l’avvocato Werthauer che Talât era un militarista, e i militaristi «non appartengono solo a una nazione o a un paese, ma formano una casta, una classe unita e omogenea, composta d chi crede nel diritto alla forza e si oppone a coloro che credono invece nella giustizia» (Flores, p. 205).
(4) Nel 1936 Henri Lévy-Bruhl pubblicò sull’importante rivista Recherches philosophiques un saggio in appoggio alla nascente scuola storiografica degli Annales, dal titolo emblematico: Une notion confuse: le fait historique.
(5) Jacques Le Goff, voce Documento/monumento, in Enciclopedia Einaudi, vol. 5.
(6) Carr non ricorda l’autore della frase che cita, ma è convinto che sia pronunciata da un personaggio di un’opera di Pirandello.
(7) Risoluzione ONU 260 A (III), 9 dicembre 1948.
(8) Concediamo pure che l’epidemia di tifo non sia stata intenzionalmente causata dal governo turco: ma deportare gli armeni in zone nelle quali si ammalano di tifo (epidemia che non colpisce le città armene); continuare a deportarli una volta accertata l’epidemia; usare per la deportazione gli stessi vagoni dai quali erano stati scaricati i cadaveri dei morti per tifo; non prendere alcun provvedimento per arginare l’epidemia: tutto ciò non denota una volontà genocida?
(9) Riporto per intero il passo traducendolo: «Questo studio comparato d’una tragedia al tempo stesso vicina e lontana apre una riflessione sull’irreversibilità della distruzione generata da un genocidio e sulla complessità del lavoro di rammemorazione che si impone ai sopravvissuti e agli eredi. Essa offre inoltre un’opportunità per avviare un dialogo tra due comunità che conoscono ancora troppo poco l’una dell’altra, e che dovrebbero invece essere riunite da un tragico passato. Le differenze tra queste due memorie lacerate sono sufficientemente numerose ed identificabili da evitare che la comparazione rimetta in causa la singolarità della Shoah e che la commemorazione dell’una non sia intesa in concorrenza con l’altra. L’omaggio reso agli scomparsi, alle vite spezzate dei genitori o dei figli è quanto di sacro esiste in queste due memorie. Commentare l’una non significa offendere l’altra». Il titolo del fascicolo (nn. 177-178, è Ailleurs, Hier, Autrement: connaissance et reconnaissance du génocide des Arméniens.