di Anna Da Re
David Szalay, Nella carne, tr. it. Anna Rusconi, Adelphi, pp. 330, euro 20 stampa, euro 10,99 epub
Che libro bellissimo, questo Nella carne di David Szalay.
Lo dico subito perché non è una cosa che capita spesso, di leggere un romanzo che, dopo che lo abbiamo finito, ci rivisita con piccoli squarci di comprensione, ci si riaffaccia alla memoria con frasi di eccezionale chiarezza, o ci risveglia sensazioni dimenticate.
D’altro canto Nella carne (Flesh nell’edizione originale) è il vincitore del Booker Prize 2025, e alla presentazione milanese, a cui ero felicemente presente, Szalay aveva come partner Marco Balzano. Tutti segnali di buon auspicio.
Nella carne è la storia di István, che incontriamo quindicenne in una piccola città ungherese, e che seguiamo nel corso di una vita che forse è una vita come tante, che si svolge tra l’Ungheria e Londra, e che è avventurosa e normale, ricca e vuota, fortunata e disgraziata. István parla poco, la parola che pronuncia con più frequenza è okay. Il corpo , la carne, sono il suo modo di esprimersi, di interagire con gli altri, di essere contento e di soffrire. Non ci viene mai descritto, István, non sappiamo se è biondo o moro, alto o basso, bello o brutto. Possiamo immaginarci che sia piuttosto forte, visto che a un certo punto della sua vita lavora nella sicurezza. Possiamo anche immaginare che sia seducente, attraente, perché i suoi incontri cominciano e finiscono con il sesso. Sesso piuttosto crudo, silenzioso, essenziale. Sesso che serve a comunicare in tutte le situazioni in cui mancano le parole. Sesso che avvicina, scalda, consola.
Dal primo incontro con una donna molto più grande di lui alla relazione con Helen, István cresce e diventa un uomo, si trasferisce dall’Ungheria a Londra, diventa ricco e diventa padre. Poi un incidente interrompe il flusso della vita, porta una devastazione in cui tutto viene perso e si torna al punto di partenza, e in Ungheria. Gli “okay” che István pronuncia nel corso della sua vita sono ognuno diverso dall’altro, ed è sorprendente come una sola parola possa assumere significati così diversi e variegati. Gli okay sono il suo accettare la vita e quello che succede come inevitabile e fuori dalla nostra portata.
Szalay afferma di avere creato deliberatamente un protagonista non politicizzato, che non ha valori che gli permettano di schierarsi da una parte o dall’altra, che si fa attraversare e passare sopra dalla storia, proprio come simbolo di uno smarrimento storico e sociale, di un disagio interiore profondo, non esprimibile ma sempre presente in ogni gesto. Dall’Ungheria a Londra e ritorno, dal crollo della cortina di ferro alla pandemia, passando per la seconda guerra del Golfo e l’ingresso nell’Unione Europea dei Paesi dell’ex blocco sovietico, la storia determina e modella la vita di István come quella di chiunque, in modo concreto e tangibile e indipendentemente dai comportamenti o dalle attitudini che si possono avere.
La scelta di affidare alla fisicità il racconto della vita di István, il predominio del corpo sui pensieri, che non vengono mai descritti o analizzati, il sesso come modo di entrare in rapporto con gli altri, se in un primo momento fanno pensare alla mancanza di una dimensione psicologica, poi di fatto risultano avere l’effetto opposto. Come lettori, siamo vicini a István fin dalle prime righe. Viviamo con lui con la stessa sua intensità, restiamo sbalorditi di fronte agli improvvisi cambiamenti della vita, ci sentiamo come lui in balia degli eventi e sballottati senza poter far nulla, meno che mai scegliere. E non sentiamo l’esigenza di analizzare i motivi, di chiederci da dove vengono certi comportamenti. Perché ci rendiamo conto che ogni altra persona è inconoscibile, anche noi siamo per molti versi opachi a noi stessi, e quello che possiamo fare è guardare, osservare, e partecipare silenziosamente dei drammi altrui. Forse avvicinarci in un abbraccio. Forse dire “okay” e fare quel che bisogna fare. Dice lo stesso Szalay che non voleva mettere in scena un personaggio che si autospiegasse, come facciamo noi in continuazione, fino a perdere il senso di quello che siamo, cioè umani e animali al tempo stesso. Troppo spiegarsi tende a mascherare la vera umanità, che è anche animalità, che è Nella carne. Non a caso questo titolo, che era all’inizio quello di lavorazione del romanzo, poi è rimasto. Non se ne poteva trovare uno che esprimesse meglio quello che viene raccontato.
Ci sono molti silenzi, nella vita di István e nel libro. Dice Szalay nel suo incontro pubblico a Milano, che tutto il romanzo è un tentativo di avvicinarsi al silenzio. I dialoghi sono realistici e reali, non sono un modo per introdurre dei contenuti a cui l’autore tiene. Sono la rappresentazione della realtà, quegli scambi vuoti e inconcludenti, che girano a vuoto, che pratichiamo abitualmente nella vita, che a volte hanno anche un effetto comico. Ma soprattutto i dialoghi sfiorano il silenzio, così difficile da raccontare ma così importante anche nella letteratura.
Concludo dicendo che alla presentazione l’atmosfera era bellissima, perché le parole di Marco Balzano erano ricercate (nel senso letterale, di avere scelto accuratamente quelle più adatte) e precise, quelle di David Szalay erano inglesi ma ben tradotte da Sonia Folin, ed erano tutte parole nate da una necessità, interiore e di comunicazione e condivisione.



