di Cesare Battisti
Alla madre delle mie figlie, stralcio di una biografia.
Piove anche stamattina sul carcere di Massa. Una pioggerella fredda e appiccicosa che da due mesi si accanisce a rendere, se possibile, ancor più grigia la già monotona esistenza da recluso. Cerco oltre le sbarre uno spiraglio, un tono di grigio speranza che mi aiuti a ritrovare l’emozione, le parole giuste per affrescare di ricordi lo schermo ostinatamente bianco del mio PC. Dopo aver fin qui ripercorso le stagioni più turbolente della mia vita, chiedendo a ogni pagina consiglio e un po’ di comprensione, mi ero illuso che sarebbe stato più semplice abbordare la parte riguardante il lungo periodo d’esilio latitante, durante il quale mi ero ricavato una dimensione umana, una nicchia di persona adulta e responsabile.
Avevo creduto che questa libertà rubata, ciò che per me più si approssimava a una vita normale, sarebbe stata la conclusione fluida e scontata di una biografia piuttosto accidentata. Ma sarà il respiro grave di queste mura gonfie di pioggia e di lamento, oppure qualcosa che non ho capito bene, come di una nota che sfugge allo spartito e trasforma in contrattempo una melodia. Ho cosi creduto di conoscere la musica per suonarla infine come romanza all’italiana. Invece sto qui a guardare il tempo, perché non riesco a guardarmi dentro, finché non torni rosso il sole all’orizzonte. Per riprendere quel viaggio a ovest, verso un tramonto che non finiva mai, volando dietro alla speranza di una vita nuova, fatta di coscienza condivisa.
Sarà stato tutto questo tempo chiuso in cella, con la pena che distrugge la ragione, a farmi credere di non aver più il diritto di raccontare anche le gioie, oltre ai dolori dati e ricevuti. Di dire al mondo e a chi mi ha condannato che una persona non nasce e muore il tempo di un reato. O che mi è stato dato il tempo di vivere e partecipare, di tirare su una famiglia, di ravvedermi e rimediare, di far crescere sulle rovine di una guerra infame un uomo che ha infine imparato ad amare. Tutto questo mi pare che non si possa dire. Sarebbe come se un’immagine fissata nell’orrore, che serve a dire a tutti è questo il male, si mettesse a vivere tra la gente, si confondesse e si annulla nel normale.
E mentre il giorno si ritira stanco dalla cella e il corridoio mormora le solite promesse, mi rimetto in volo per il Messico. Per bagaglio lo sguardo illuminato di Laurence, che mi segue sulla passerella d’imbarco all’aeroporto d’Orly. Parto solo, lei mi raggiungerà tra quattro mesi, se lo vorrà ancora, dopo aver sbrigato la sua vita in Francia. È stato il compromesso che sono riuscito a strapparle, una mezza bugia il cui bruciore attenuava la paura del mio primo volo.
Volavo alto, stavo andando via per sempre, finiti i sentieri sulle Alpi, oltre le quali arrancava la mia Italia, dove moriva d’attesa la famiglia. Andavo in Messico e non mi sembrava vero, avere respirato la polvere dei film western che andavo a vedere alla casa parrocchiale. La terra di Pancho Villa e di Zapata a Laurence non diceva niente, era solo l’America di sotto. A lei piaceva New York, la musica dei grattacieli, ci era andata in gita con i colleghi della banca. Ma sarebbe venuta lo stesso tra i mangiatori di tortillas, lei sarebbe venuta ovunque. Anche in Madagascar, se questo fosse stato il posto sicuro che mi era stato indicato in un primo momento. Era stufa di effettuare trasferimenti di milioni altrui da una banca all’altra, lei voleva vivere la vita così com’era e voleva farlo con me.
Una sera, quando già ero sicuro che mi sarebbe stato facilitato l’imbarco a Orly, lei tornò a casa con un grande atlante patinato. Misuravamo le distanze: Parigi-New York-Mexico City, migliaia di km, tanti, quasi come da una sponda all’altra dell’Atlantico. Si poteva andare ancora più giù, diceva lei, come se fossimo in discesa, andiamo fino alla terra del fuoco e poi torniamo su, fino in Alaska, da un Polo all’altro a dorso d’asino. Rideva e mi chiedeva perché facevo quella faccia.
Quando si accendeva d’entusiasmo in quel modo, non ce la facevo più a seguirla, nemmeno per gioco: sarebbe stato più difficile trovare il momento giusto per dirle che lei non poteva venire. Non subito, volevo che si desse un tempo di decompressione, pensarci su, prima di bruciarsi i ponti dietro. La paura di non farcela io stesso, di scoprirmi diverso dall’immagine che credevo di averle dato, era tanta l’angustia che preferivo amputarmi il cuore, piuttosto che assumermi anche un suo possibile fallimento personale.