di Domenico Gallo
Philip K. Dick, Opere Scelte, Meridiani Mondadori (2 volumi), a cura di Emanuele Trevi e Paolo Parisi Presicce, traduzioni di Gabriele Frasca, Marinella Magrì, Gianni Pannofino e Paolo Parisi Presicce, pp. 3.340, euro 140,00 stampa
Partiamo da lontano. Come è nato il tuo interesse per la fantascienza?
Se devo partire proprio…da lontanissimo, non posso che individuare il punto di partenza nel mondo della Marvel, e specialmente dei Fantastici 4 e dell’Uomo ragno. Da lì, la transizione verso la pagina scritta era abbastanza naturale per le persone della mia età (sono nato nel 1964) – gli Urania con le copertine di Karel Thole erano un oggetto di desiderio molto simile, in fin dei conti, agli albi della Marvel. Solo che contenevano un prodigio ulteriore, e decisivo: l’atto della lettura comportava il piacere e la fatica di immaginare la storia, e dunque di ricrearla, facendone qualcosa di completamente personale.
A partire dalla tua formazione, questa passione per la fantascienza come ha convissuto con il tuo percorso di studi classici?
Io sono totalmente immune dall’idea, puramente sociologica, che esistano “livelli” diversi della letteratura. Magari mentre andavo a caccia di tutti i libri di Robert Sheckley che riuscivo a trovare in giro, ero lo stesso adolescente che scopriva L’armata a cavallo di Isaac Babel’, o i romanzi di Jack Kerouac o i manifesti del Surrealismo di André Breton. L’unica distinzione che per me è sempre stata efficace è tra un libro che accende l’immaginazione, come accennavo prima, e uno che non ne è capace, o magari non va bene per me.
Come è nata l’idea del Meridiano su Philip K. Dick? Ci sono state delle difficoltà a inserire uno scrittore di fantascienza tra i santi della letteratura mondiale?
Durante uno dei primi giorni del lockdown, nel 2020, ho ricevuto una telefonata di Renata Colorni, che per molto tempo ha guidato i Meridiani con imprese memorabili in tutte le direzioni. Era quasi arrivato il momento della meritata pensione, per lei, e voleva avviare un progetto di cui aveva perfettamente intuito l’interesse culturale. Alessandro Piperno, arrivato alla direzione della collana dopo Renata, ha poi sostenuto il lavoro con grande complicità. Il bello è che né Renata né Alessandro sono persone interessate alla fantascienza. Della fantascienza si può parlare per anni senza arrivare a nessuna conclusione definitiva. Anche se posso dire di averla sempre amata, è una categoria troppo vasta ed astratta per me, che ho una mentalità, forse antiquata, più legata all’ammirazione dell’eccellenza, al culto del singolo artista, che scriva una poesia lirica o una saga horror non mi interessa molto preventivamente.
Come è stato organizzato il lavoro tra te e Paolo Parisi Presicce, tra l’altro autore di una bibliografia critica dalla precisione sbalorditiva?
Paolo ha la passione delle bibliografie, e conoscevo già bene un suo lavoro notevole su Herman Melville uscito da Mimesis (herman Melville. Racconto di un tipo strano, 2019). È stato un amico comune, Beppe Sebaste, uno scrittore molto appassionato a Dick, a suggerirci di lavorare insieme al Meridiano. Devo a Paolo molte conoscenze importanti riguardo a Dick: volumi e articoli in riviste difficilmente accessibili. Anche il suo lavoro di traduzione e commento alla Trilogia di Valis, se vogliamo impropriamente chiamarla così, è stato decisivo. Poi c’è stata l’esperienza bellissima delle schede critiche dedicate ai singoli romanzi che abbiamo scelto per il Meridiano. L’idea di partenza è stata quella di far parlare direttamente Dick dei suoi romanzi, attingendo sistematicamente alla sua mania di auto-interpretarsi. In primo luogo, quindi, abbiamo attinto all’Esegesi, curata e tradotta da un gigante nella storia italiana di Dick, Maurizio Nati (anche se a volte il ricorso all’originale ci è servito per uniformare meglio il lessico e le informazioni veicolate…); poi i saggi e le conferenze di Dick; poi ancora ovviamente le interviste, perché Dick ne ha concesse di memorabili che ormai fanno parte della sua opera, prima fra tutte quella del 1974 a Paul Williams. Perché metto le interviste all’ultimo posto di questa scala di attendibilità decrescente ? Solo perché c’è un lato istrionico di Dick, in tutti i suoi rapporti umani, che rende necessaria molta cautela nel citare questa o quella risposta! Gestire in modo sensato questa enorme massa di parole è stato un lavoro nello stesso tempo, scusate l’ossimoro, paziente e spericolato. Però, nonostante tutto il fascino del suo lavoro di auto-interpretazione, che diventa colossale dal 1974 al 1982, ovvero negli ultimi otto anni della sua vita, il critico deve resistergli, non dimenticare il proprio punto di vista. Poi c’erano altre questioni che abbiamo approfondito libro per libro: i modelli di riferimento, stratificati e complessi come si addice a uno scrittore coltissimo e onnivoro come Dick, la frequente trasformazione di un racconto breve in un romanzo, la storia editoriale…p.s. devo dire che l’Enciclopedia dickiana, ovvero il Caronia-Gallo (La macchina della paranoia, Agenzia X, 2006) come lo chiamavamo alla maniera dei dizionari del liceo, è stato un modello utilissimo, soprattutto per certe voci che attraversano l’opera da capo a fondo («droghe», «poteri psi» eccetera eccetera).
Sandro Veronesi sul Corriere della sera lamenta che lo strano non è che sia uscito un Meridiano su Dick, ma che non fosse uscito già da tempo. Ed elenca una compatta schiera di scrittori che, secondo lui, devono molto alla scrittura di Dick. Tu cosa ne pensi? Davvero ha avuto quell’influsso sulla letteratura statunitense? E se sì è accaduto dopo Blade Runner?
Io sono molto vecchia maniera in queste cose, nel senso che non mi piace generalizzare. Che Thomas Pynchon, al momento di scrivere L’arcobaleno della gravità, sia montato sulle spalle di Time Out of Joint (c’è un bellissimo saggio di Umberto Rossi al proposito) mi sembra un esempio indiscutibile e molto interessante di trasformazione geniale di un’eredità. Lo stesso direi dell’Incal di Moebius e Jodorowsky. È da notare che in questi due esempi non sono solo la trama o la logica narrativa, ma un’attenzione al personaggio e alla sua psicologia che mi sembrano il contributo maggiore di Dick alla fantascienza. Detto questo, Veronesi ha ragione. La lista degli scrittori che qualcosa hanno attinto da Dick è impressionante.
Parliamo un po’ del rapporto tra PKD e la fantascienza. Mi viene in mente un autore poco studiato come Alfred E. Van Vogt. È Dick stesso che dichiara un legame tra la sua narrativa e quella del mostro sacro che verrà poi associato alla Dianetica e a saperi parascientifici. Certamente il tema dei mutanti, quello del potere e dei complotti, ancora un eccezionale dinamismo della trama sembrano accumunarli. Come ti sembra che fosse composta la cassetta degli attrezzi di Dick all’inizio della carriera?
Allora, Van Vogt era già un autore di culto quando ero un ragazzino, e Dick gli ha sempre tributato una giusta ammirazione. L’ho un po’ riletto durante il lavoro al Meridiano, trascinato dai suoi colpi di scena e dalla sua inquietante idea dell’umano. Senza essere ingiusto verso un grande maestro, riprendo l’accenno fatto nella risposta precedente: Van Vogt è un Dick senza psicologia, le sue trame scandite dai famosi colpi di scena (praticamente uno a pagina) sono perfetti fuochi di artificio ma sono quasi del tutto prive di spessore umano, e dunque di possibilità di identificazione. La mia convinzione è che lo scrittore al quale Dick abbia guardato con più ammirazione e invidia sia sempre stato Kurt Vonnegut.
Dick pur essendo nato come scrittore di fantascienza, tra i pulp più popolari, si rivela immediatamente affascinato dai capovolgimenti di punto di vista che, in seguito, diventeranno i capovolgimenti dell’intera realtà nell’ambito della dialettica che guida la tua analisi tra koinós kosmos e ídios kosmos, vale a dire tra realtà condivisa e realtà individuale. È attirato dal falso sin dai suoi primi scritti. Il suo primo romanzo, Solar Lottery, è basato su una truffa elettorale e su altri elementi legati alla falsificazione e alla bugia. Dick mi ha spesso ricordato Orson Welles. Altri scrittori di fantascienza usavano queste tecniche, come il capovolgimento grottesco, il paradosso, la parodia, penso Fredric Brown, Robert Sheckley, Cyril Kornbluth e Fredrik Pohl, ma lui sembra più coerente verso la logica del complotto prima politico poi ontologico. È questo che lo rende una figura sostanzialmente anomala in quel mondo molto contraddittorio della fantascienza? Un cane sciolto?
Non ci avevo mai pensato ma sì, è vero, in Dick c’è una certa grandiosità della concezione che può ricordare Orson Welles. La differenza è che in Welles, per motivi intrinseci all’industria del cinema, l’inespresso finì per prevalere decisamente su quello che riuscì a fare (la lista dei suoi progetti è lunga venti volte più della sua filmografia !), mentre a noi scrittori, per quanto sfigati possiamo essere, nessuno impedisce di finire il nostro libro che non costa nulla. Riguardo al complotto, direi che in Dick qualsiasi manipolazione politica è anche, per necessità, una manipolazione ontologica, una manomissione del principio di realtà. Un aspetto della mia introduzione al Meridiano che avrei voluto approfondire è l’analogia tra le distopie di Dick e l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt. Non mi interessa tanto la conoscenza diretta, ma la convergenza del pensiero.
Nel tuo Profilo mi sembra che prediligi la lettura antropologica/filosofica a quella politica di scrittore che nasce letterariamente durante il maccartismo e poi si libera negli anni della contestazione e delle proteste contro la Guerra del Vietnam e la denuncia di un potere poliziesco e imperialista. Ritieni il riverbero della situazione politica del suo contemporaneo dentro la sua scrittura come un elemento non particolarmente caratterizzante e originale?
Vedi, forse non tutti i lettori di questa rivista (che seguo fedelmente da tantissimi anni) saranno d’accordo, ma a me nella letteratura interessa la reazione soggettiva alla pressione del mondo, reazione che è sempre deformante e inattendibile, dunque priva di attendibilità. Quello che privilegio nel mio lavoro di critico, se vuoi che lo riassuma in maniera brutale, è l’essere soli al mondo e non capirci nulla, si tratti di Flannery O’ Connor o di Philip K. Dick.
Alla fine mi sembra che interpreti gli ultimi cinque romanzi di Dick come una riconciliazione tra il suo mestiere di scrittore di fantascienza e l’aspirazione a essere un letterato realista. Possiamo dire Dick raggiunge inconsapevolmente (o consapevolmente?) una dimensione postmoderna come Kurt Vonnegut? Sembrerebbe il percorso inverso di letterati come Philip Roth, Cormac McCarthy, Don DeLillo e molti altri…
No, c’è qualcosa di intrinseco al suo misticismo e al suo gnosticismo che mi sembra tenerlo legato alle sue origini – l’idea della salvezza come informazione più che come redenzione. Non mi stupisce la sua terminale scoperta dei testi gnostici, che conosceva in maniera molto approfondita. Il Cristo degli gnostici è colui che dissolve le tenebre dell’ignoranza, è un maestro molto più che un pastore. Ora tu mi chiederai che cosa c’entra questo con la fantascienza…ebbene, c’entra moltissimo, perché l’informazione salvifica è un segnale, difficile ma non impossibile da decifrare.
Una lettura un po’ piccata del Meridiano PKD che circola soprattutto nelle arene dei social sostiene che Dick sia stato inserito nella collana perché erroneamente non è un autore di fantascienza ma un letterato. Mi sembra che il tuo lavoro, invece, dimostri esattamente il contrario, ovvero che la fantascienza fa parte della letteratura e alcuni suoi autori abbiano dignità di essere accostati ai grandi romanzieri del Novecento. Sbaglio io o…
Guarda, io non seguo i social, e non per snobismo, ma perché non ho tempo e sono poco tecnologico, però è un errore rinchiudersi in un ghetto! Allora Stephen King cos’è, horror o un grande scrittore ? E H.P. Lovecraft ? E l’immensa Agatha Christie di cui Antonio Moresco ha curato un Meridiano che considero gemello del nostro ? La verità è che tutto è un genere, anche i libri che scrivo io sono una specie di genere con i suoi fan e la sua stampa specializzata.
Pier Paolo Pasolini. La tua lettura che accomuna Dick e Pasolini è estremamente interessante. Io aggiungerei che entrambi hanno praticato una ricerca religiosa convulsa, sincera ed eretica, ognuno nel contesto della tradizione e cultura del proprio continente, ma anche la loro critica alla tecnologia rivela comunanze sorprendenti. La ricerca del valore essenziale dell’umano che viene soffocata dalla società dei consumi (che è convergenza di tecnologie produttive e della comunicazione), il divenire macchina e le macchine diventare umani (ma umani scadenti…). Dick, da scrittore di fantascienza, letteralizza e brutalizza le metafore rendendole vicenda avventurosa, Pasolini invece usa il giornalismo e il pensiero critico per denunciare questa sottile invasione che sostituisce umani con ultracorpi… Per Pasolini è una visione nostalgica della civiltà contadina rivisitata soprattutto nel suo cinema, per Dick è una ricerca tutta statunitense del cristianesimo originale in una nazione in cui l’invenzione religiosa contemporanea era, ed è diffusa. Oltre a Pasolini, quali intellettuali europei vedi inconsapevolmente legati all’uomo di Ubik?
Sono molto d’accordo, e aggiungo un dettaglio significativo – la passione di entrambi per le interviste, praticate come un vero e proprio genere letterario. Aggiungerei un terzo nome a creare una costellazione decisiva, ed è un artista molto legato (a modo suo) all’immaginario fanatscientifico: Andrej Tarkovskij. Non sono maestri nostalgici, perché sanno bene che il passato perduto è irrecuperabile. Li vedo come grandi custodi dell’umano, che è sempre minacciato da forze avverse. Il loro erede più significativo mi sembra Anselm Kiefer.
Per finire, immaginario dickiano. A un certo punto lettori e critici impongono termini come shakespeariano, kafkiano, orwelliano. È il segno vero di una partecipazione all’universo della cultura mondiale, ma quanto è un tradimento?
Beh, ci sono uomini politici e militari che hanno dato il nome a un cappotto o a un panino, la nostra gloria è passare dal nome all’aggettivo. L’importante è ricordare che c’è sempre poco di Kafka nel “kafkiano” e di Dick nel “dickiano”. Ma con una differenza: basta aprire l’Esegesi per toccare con mano quanto il concetto di “dickiano” provenga dal diretto interessato, che ne parla con inquietudine e vero e proprio disagio…