di Sandro Moiso
Filippo Focardi – Santo Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, pp. 425, 39 euro
«Una nuova retorica patriottarda o pseudo-liberale non venga ad esaltare la formazione dei purissimi eroi: siamo quel che siamo: […] gli uomini sono uomini». (Emanuele Artom, Diario di un partigiano ebreo)
In tempi in cui anche i rappresentanti della destra più conservatrice e reazionaria possono, e devono, fare professione di antifascismo con la benedizione di una sinistra istituzionale esangue, le parole di Emanuele Artom appaiono davvero profetiche. Una Resistenza spogliata, quasi fin da subito e dai maggiori partiti rappresentati nell’agone parlamentare fin dalla caduta del regime fascista, della sua reale valenza di classe, rivolta e rifiuto dell’ordine costituito, allora dagli ordinamenti mussoliniani e di quelli pericolosamente in essere nel passaggio alla repubblica borghese, è diventata così il cardine su cui articolare una narrazione immaginifica e interclassista della rifondazione patriottarda dello Stato nazionale dopo la fine dell’identitarismo nazionalistico che aveva ispirato sia il regime che le sue guerre e avventure coloniali. Una narrazione retorica che ne ha confuso l’immagine, offuscandola, e tradito le concrete motivazioni.
Ben vengano dunque ricerche come quelle accluse nel testo curato da Focardi e Peli che, nel solco degli studi iniziati da Claudio Pavone1 e della sua attenzione all’economia morale che aveva fondato l’insurrezione contro il governo non solo di Mussolini, del PNF e dei suoi gerarchi, ma anche contro l’ordine morale, economico e politico borghese che ne aveva costituito l’essenza e giustificato l’esistenza, riportano la storia e gli avvenimenti di quei tragici e convulsi anni sui binari delle concrete condizioni materiali sui quali effettivamente viaggiarono.
Una Storia che non solo deve liberarsi dalle incrostazioni con cui gli interpreti di destra hanno cercato di ridurre, in sintonia con quelli appartenenti ai partiti “nemici”, quel periodo ad una sorta di confronto tra fazioni politiche avverse, di cui i partiti sarebbero stata la forma naturale di espressione, ma anche delle interpretazioni mitopoietiche con cui tanta ricerca di parte avversa l’ha imbastardita riducendola a mera funzione del progresso degli organismi della democrazia parlamentare e dello Stato. Come sostengono da subito i due curatori, affermando come sia oggi necessario rivalutare, ricordare e ricostruire, le enormi fatiche della guerra partigiana che ne hanno segnato le «opere e giorni»:
Riportare al centro dell’attenzione la guerra partigiana nella sua concretezza, nella sua difficoltà e drammaticità, nel suo accidentato farsi, nel complicato intreccio tra spontaneità e organizzazione, di storia militare e storia politica, di localismi e di utopie, di durezze materiali e solidarismi trasversali: questo l’obiettivo che ci siamo prefissi progettando l’impegnativo lavoro collettivo da cui è nato questo volume. […] A stimolare l’”impresa” hanno concorso parecchi motivi.
Il principale, abbastanza evidente per chiunque segua con interesse il discorso pubblico sulla Resistenza, è costituito dal fatto che quasi esclusivamente, da almeno tre decenni, si è scritto e parlato di resistenza senz’armi, di resistenza civile o di resistenza dei militari (Cefalonia) […] Ma ciò non dovrebbe occultare il fatto che la più importante discontinuità della storia nazionale […] non si sarebbe realizzato senza la scelta di impugnare le armi compiuta da un’esigua minoranza, senza un esercito di volontari disposti ad assumere su di sé il compito arduo di combattere, di uccidere e farsi uccidere2.
Una considerazione che potrebbe apparire scontata se non fosse, come proseguono Focardi e Peli, che:
Nella narrazione mediaticamente vincente si tornano invece a privilegiare, a discapito dell’aspra, complicata e divisiva insurrezione antifascista, gli aspetti unitari, nazional-patriottici della Resistenza. La centralità della sanguinosa e divisiva guerra partigiana è stata via via edulcorata e di fatto sostituita da una Resistenza più rassicurante, che piace immaginare condivisa dalla maggioranza del popolo. Dunque, sconfortante eterogenesi dei fini, la Resistenza diviene paradossalmente anche veicolo di un’autoassoluzione collettiva, fondamento di un’illusoria identità nazionale miracolosamente votata alla libertà3.
E’ un messaggio forte quello dei due curatori che, per molti versi, si avvicina di più alla letteratura e alle memorie di Fenoglio, Calvino, Revelli, Bianco, Meneghello, Chiodi e tanti altri, che non alle ricostruzioni storiche troppo spesso ispirate alla necessità di superare le divisioni, un tempo tra PCI e DC (il cui risultato fu una costituzione spoglia del “diritto alla resistenza” proposto come articolo della stessa da Aldo Capitini e altri), e oggi, ancora più platealmente, tra”destra “ e “sinistra”, entrambe di governo grazie all’idea di “alternanza” che pervade il discorso politico moderno ispirato dal liberalismo, soprattutto, economico. In cui a contare non sono più le differenze tra i partiti e i loro programmi, ma la capacità di garantire continuità e la stabilità all’ordine esistente e alle sue “necessità” proprietarie, finanziarie e produttive.
Santo Peli si è laureato in Lettere nel 1973, ha insegnato Storia Contemporanea presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova, fino al 2013. I suoi campi di ricerca sono sempre stati costituiti dalla conflittualità operaia tra Prima e Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza italiana. Per Franco Angeli ha dato alle stampe La Resistenza difficile nel 1999, poi ripubblicato dalle edizioni dalla Biblioteca Franco Serantini (BFS) di Pisa nel 2018. Con Einaudi ha invece pubblicato, La Resistenza in Italia (2004), Storia della Resistenza in Italia (2006 e 2015), Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza (2014) e La necessità, il caso, l’utopia. Saggi sulla guerra partigiana e dintorni, ancora per BFS Edizioni (2022).
Filippo Focardi si è laureato nel 1993 e svolge la sua attività presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università degli Studi di Padova. Si occupa di storia moderna e contemporanea e la sua opera si è concentrata soprattutto sulla storia italiana durante la seconda guerra mondiale e sul recupero della memoria storica di quel periodo. Tra i suoi studi vanno ricordati: La guerra della memoria. La Resistenza nel dibattito politico italiano dal 1945 ad oggi (Laterza 2005), Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale (Laterza 2013) e Nel cantiere della memoria. Fascismo, Resistenza, Shoa, Foibe (Viella 2020).
I due storici, ancora nell’introduzione al testo, sottolineano infine come:
La messa in sordina degli aspetti divisivi fatalmente connessi alla guerra partigiana, e la forte sottolineatura di una coralità, di un afflato nazional-patriottico, ricorda in qualche modo, e con molte diverse sfumature sulle quali non è dato qui soffermarsi, la narrazione prevalente negli anni Cinquanta […]. In una narrazione di questo tipo, la concreta esperienza storica della guerra partigiana, per nulla esente da difficoltà e spinte contrastanti, rischia di evaporare, di disciogliersi in un astratto pantheon di eroi, a discapito di fare i conti con «il partigianato così com’era, non come vorremmo fosse stato4 » 5.
Considerazioni che ci devono far ricordare come Una guerra civile di Claudio Pavone, al suo apparire nel 1991, avesse fatto storcere il naso a molti rappresentanti dell’antifascismo istituzionale e sollevato numerose perplessità tra gli storici, quasi sempre di sinistra, che si occupavano della storia della Resistenza proprio per l’accento messo sullo scontro interno al paese che la guerra partigiana aveva suscitato, mettendo così in crisi e in discussione l’immagine edulcorata e priva di contraddizioni della stessa che sembrava aver ormai uniformato gli studi in materia.
Per raggiungere l’obiettivo dichiarato i due curatori del testo pubblicato da Carocci hanno messo insieme sedici saggi, suddivisi in tre parti: Combattere, Vivere, Narrare. Composte rispettivamente da sei la prima e da cinque saggi ciascuna per entrambe le altre parti. Chiamando a raccolta l’opera di storici, docenti e ricercatori di Eric Gobetti, Gabriele Pedullà, Maria Teresa Sega, Chiara Colombini e Nicola Labanca, solo per citarne alcuni, oltre ai due saggi scritti dagli stessi curatori.
Riuscendo a dare vita ad un complesso e intenso mosaico in cui vengono ricostruiti differenti aspetti della guerra partigiana e della sua memoria. Gli argomenti trattati vanno così dalla prima creazione delle bande partigiane ai loro nemici e alla presenza di stranieri nelle loro fila, oltre che il contributo, spesso sminuito, del Meridione alla storia della Resistenza oppure sul ruolo delle donne nell’esercito di liberazione. Oltre a questi, altri temi riguardano il vissuto e le passioni che alimentarono la Resistenza, la geografia degli studi storici sulla guerra partigiana, la violenza insita nella stessa, il “tradimento” dei manuali scolastici e il discorso pubblico sulla stessa, infarcito inevitabilmente di innagini di “martiri” e “patrioti”.
Tra questi, che non si possono certo riassumere tutti nel corso di una recensione, risaltano, almeno agli occhi di chi qui scrive il saggio di Santo Peli su Guerra partigiana e rifiuto della guerra ( pp. 139-161), quello di Francesco Fusi su La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio (pp. 179-195) e, ancora, quello di Chiara Colombini intitolato «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana (pp. 163-177). Non certo a discapito della validità degli altri tredici, ma soltanto perché riguardanti argomenti spesso disattesi dalla ricerca storica sul periodo 1943-1945 in Italia e, invece, molto importanti per aprire un confronto più approfondito sulle cause e conseguenze della “guerra civile”.
Nel primo dei tre qui indicati, Santo Peli torna su un argomento di cui si era già occupato in altri suoi testi e in particolare nella parte finale della sua Storia della Resistenza in Italia ovvero ristabilire una verità spesso rimossa, quella del peso del rifiuto della guerra nell’alimentare la scelta di molti giovani italiani di aderire alle fila o, almeno, alle motivazioni della Resistenza, che venne ancor prima di una scelta di carattere ideologica o politica, che troppo spesso viene ancora indicata come motivazione primaria, forse per un malinteso senso del dovere nei confronti della patria che alimenta ancora oggi, in tempi di nuove e imminenti guerre, un certo immaginario patriottardo non soltanto di “destra”.
Peli cita, come riassunto della sua tesi, le riflessioni e le memorie di una partigiana piemontese, Tersilla Oppedisano (nome di battaglia Trottolina), risalenti alla metà degli anni Settanta del ‘900.
Non so se la popolazione fosse tutta dalla nostra parte, non lo so. Certo, la gente era stanca del fascismo e quindi sentiva inconsciamente che eravamo i loro, anche perché la presenza dei partigiani aveva impedito che molti ragazzi del posto finissero in Germania. D’altronde, il grosso dei partigiani non era formato di volontari ma di ragazzi che erano stati costretti a scappare per non arruolarsi, perché la repubblica di Salò aveva fatto la coscrizione obbligatoria.
La Resistenza è proprio la guerra dei disertori, la guerra degli imboscati, cioè gente che va nei boschi perché non la piglino. «E se venite a pigliarmi afferro un mitra e vi sparo!». Imboscati proprio in questo senso. E’ il primo momento della storia in cui ci si ribella alla guerra e ai fautori della guerra. In questo senso è importantissima la Resistenza. Io non so se sia opportuno dire queste cose, ma penso che bisogna dirle, anche per demistificare la figura dell’eroe che si butta nella guerra, il nazionalismo, il milite ignoto e mille storie di questo genere. Io mi trovo un po’ isolata a dire queste cose, perché al partito non si dicono, nella scuola non si dicono, e si fa l’elogio del volontarismo della massa del popolo italiano che si arma e combatte, mentre, quando si va a vedere sotto sotto, appare quell’aspetto del rifiuto della guerra, che pure è importantissimo6.
Peli prosegue poi ancora affermando che:
La guerra partigiana, guerra di volontari che «si adunarono per dignità e non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo», è un’immagine magnifica e tranquillizzante, che rischia di scambiare la parte con il tutto. Ci furono questi volontari, eccome, e senza di loro poco o nulla di politicamente ed eticamente significativo sarebbe accaduto. Ma forse sono più numerodi i protagonisti cui dà voce la partigiana Trottolina: una turba di sbandati in fuga dalla guerra, che in modi e in tempi diversi, e in buona parte all’inizio senza ideali motivazioni, si trasformano in partigiani, certo non tutti, e conservando caratteristiche e modi di intendere la lotta e i suoi obiettivi assai diversificati. Che la genealogia della guerra partigiana vada ricercata anche in una confusa ed eterogenea massa di italiani in fuga dalla guerra è immagine assai poco seducente, perché evoca uno stato di passività, una regressione o una permanenza nel particulare, e anche un’incerta, scarsa propensione all’amor di patria, al riscatto dell’onore militare tracollato nell’implosione dell’8 settembre […] Eppure una ricca memorialistica partigiana lascia pochi dubbi in proposito7.
Il saggio di Fusi, sottolineando le difficoltà di approvvigionamento delle formazioni partigiane e dei problemi che ciò causò talvolta con le popolazioni dei territori in cui operavano, non cerca sicuramente di mitizzare o edulcorare il fatto che i partigiani si comportassero talvolta come “banditi” anche solo per necessità logistiche.
Oltreché una guerra contro tedeschi fascisti, quella partigiana è al contempo una lotta contro le avversità: fattori ambientali proibitivi, scarsità di alimentazione e di vestiario, rischi fisici e psicologici dovuti alla forzata mobilità e ai continui pericoli. E’ perciò una guerra per la sopravvivenza, individuale e di gruppo, la cui urgenza talvolta ogni altra considerazione: «in molti casi sono più importanti le scarpe che le conferenze politiche». […] In ogni caso, sopravvivere fu la prima preoccupazione di chi salì in montagna. Oltre all’incognita della morte inflitta dal nemico, stava quella legata alle disagevoli condizioni di vita: «I fascisti sono un di più, ci ammazza da solo il freddo», sentenzia Ettore nel Partigiano Johnny. E così Giambattista Lazagna, il partigiano Carlo: «la lotta più terribile deve essere condotta contro le difficoltà di nutrirsi, di vestirsi, di armarsi, di nascondersi. […] Ci voleva a quel tempo, oltre ad un certo coraggio, un fisico molto robusto, uno stomaco molto piccolo, una buona dose di fantasia per andare ai monti». […] La memorialistica partigiana e le pagine di scrittori partigiani quali Fenoglio, Calvino e Meneghello sono popolate di questa umanità partigiana spesso sofferente, incerta o inadeguata in cui i resistenti sono presentati come «uomini simili ad altri nei loro meriti e nei loro difetti». Raffigurazioni che le prime stagioni storiografiche sulla Resistenza avevano lasciato spesso in ombra, per dare spazio ad immagini più edificanti, se non eroiche. Parlando della “sporca” vita del partigiano giova perciò l’avvertimento di Nuto Revelli a guardare a loro come a «gente comune», non a «un esercito di santi», e a contrapporre alla vulgata che vuole i «partigiani in gamba, tutti robusti, tutti perfetti, politicamente ben inquadrati, che di mangiare non parlavano mai» un più aderente e disincantato sguardo sul vero partigiano, afflitto quotidianamente «da un’infinità di piccoli problemi – le scarpe, il sacco di farina, il chilo di sale, il partigiano lazzarone, il partigiano fifone, il comandante sfessato e mille altre diavolerie» e nel quale «sovente i problemi logistici erano più impegnativi di quelli militari»8.
Chiara Colombini, nel suo saggio, continua necessariamente sulla linea interpretativa tratteggiata fino ad ora:
Qualsiasi tentazione di monumentalizzare eventi e persone diventa impraticabile qualora ci si affidi alle «scartoffie di allora». Perchè, facendo ricorso ai documenti prodotti durante la guerra partigiana, ci si ritrova immersi in un presente forzatamente scandito da incertezze e contraddizioni, quelle che accompagnano un sentiero sconosciuto, senza sapere esattamente dove condurrà»9.
Una memorialistica, letteraria e non che non esclude affatto sentimenti e stati d’animo, in particolar modo presenti in quella delle donne e che serve a riscoprire, come fece Claudio Pavone nella sua monumentale imprescindibile opera, la soggettività che operò nelle scelte partigiane e che, sempre, opera nella Storia.
Lo spazio di una recensione non può espandersi oltre, ma rimane inconfutabile il fatto che l’opera di Santo Peli, Filippo Focardi e di tutte le autrici e di tutti gli autori coinvolti è destinata a segnare un ulteriore passo in avanti nello studio e nella comprensione delle condizioni concrete e materiali che stanno alla base degli eventi sociali, in cui spesso ad intervenire per ultime sono proprio le motivazioni ideologiche o dichiaratamente politiche. Una lezione importante per l’oggi e per il domani.
Si vedano: C. Pavone, Una guerra civile. Saggio sulla moralità delle Resistenza (1991 e 2006) e, ancora, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato (1995 e 2025). ↩
F. Focardi – S. Peli (a cura di), Resistenza. La guerra partigiana in Italia (1943-1945), Carocci editore, Roma 2025, p. 15. ↩
Ivi, pp. 15-16. ↩
Nuto Revelli, lettera ad Alessandro Galante Garrone del 1° luglio 1955. ↩
Focardi – Peli, op. cit., p. 16. ↩
T. Fenoglio Oppedisano (Trottolina), in A. Bruzzone, R. Farina (a cura di), La Resistenza taciuta. Dodici vite di partigiane piemontesi, Bollati Boringieri, Torino 2003 (prima edizione 1976), pp. 162- 163, cit. in S. Peli, Guerra partigiana e rifiuto della guerra in F. Focardi, S. Peli, op.cit., p. 139. ↩
S. Peli, op. cit., p. 141. ↩
F. Fusi, La “sporca” guerra del partigiano: alimentazione, salute, territorio in Focardi – Peli, op. cit., pp. 181-184. ↩
C. Colombini, «Non un esercito di santi». Vissuto e passioni della guerra partigiana in Focardi – Peli, op. cit., p. 164. ↩