di Danilo Arona

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Giorgio Bona, Ciao, Trotzkij, Edizioni BESA, 2003, pp. 104, € 10,00

Piccolo caso letterario del 2003, Ciao Trotskij dell’alessandrino Giorgio Bona è una raccolta di racconti “piemontesi”, tutti — tranne l’ultimo — ambientati nella campagna che si apre attorno alla città grigia, perlopiù nota ai media per le natalità di Umberto Eco e Gianni Rivera. Un libro importante e coraggioso, per diverse ragioni. Da un titolo che superficialmente potrebbe autoemarginarsi all’esclusivo consumo di un target militante all’uso della lingua, un italiano secco ed essenziale, spesso e volentieri contaminata da improvvise e filosoficamente “illuminanti” frasi in dialetto alessandrino: la lingua di quei protagonisti, divertenti e patetici, che, come leggiamo in quarta di copertina, sembrano il contrappunto contadino di quei pionieri americani, abitatori di una dimensione mitica, “grandi lavoratori, taciturni, ossessionati dai soldi e dal sesso, dalle infedeltà che in un mondo così naturale arrivano e si consumano con le stagioni”..

Giorgio Bona in verità nella campagna ci abita e ci lavora (a Frascaro, in collina, verso Acqui Terme) e ha spesso tradotto in italiano importanti autori russi. In Ciao Trotzkij i due mondi si si fondono: quello poetico che in qualche modo fa capo alla connessione spirituale che lo scrittore mantiene con quegli autori sovietici, piuttosto “negletti” soprattutto in patria, e quello più fisicamente presente – carnalmente si potrebbe dire – che deriva non tanto da un’acuta osservazione del mondo contadino piemontese, quanto proprio dall’averci vissuto dentro e dal viverci tuttora. E’ una fusione sospetta e indicativa, in grado di svelare che Bona nel profondo s’identifica non poco con questi autori “tenuti a bada” quando non passati al silenziatore da un regime che mal li ha digeriti come del resto qualsiasi regime mal digerisce le voci autenticamente libere. Non solo, quindi, un’antologia “piemontese”, anzi “basso-piemontese”, viene ammirevolmente conclusa con un breve elzeviro sullo scrittore Vladimir Vysotskij, Cosa ha sognato Volodja prima di morire?, che all’apparenza nulla sembrerebbe spartire con i quatto racconti precedenti (Giuanen Mandrognu, Bel Ninen, Canton di Rus, Ciao Trotskij ), ma la stessa opera, nel titolo, contiene un rimando “motivato” al mondo russo proprio nel “soprannome” di uno dei protagonisti più indovinati del libro.
Questi richiami agli scrittori perseguitati e artisticamente uccisi dalla madre Russia sono con evidenza il leit-motiv sotterraneo del libro: una generazione o un pezzo di cultura scomparsa, dimenticata o “fatta dimenticare” da un sistema spietato e burocratico diventa così la metafora che illumina anche le storie “alessandrine” – che sono sì divertenti soprattutto per la contaminazione linguistica messa in atto dai protagonisti “selvatici” contadini, ma che restano perennemente affogate in un’amarezza esistenziale che pare invincibile e facente parte di un fato doloroso al quale non resta che rassegnarsi.
Di cosa ci parla in ultima analisi Giorgio Bona? Della paura della scomparsa, di “non essere presente” sulla scena della vita come in quella artistica, del grigiume in cui la vita di provincia tende a soffocare l’anelito artistico e la voglia di rappresentare in positivo quella stessa provincia che tanto bene ha fatto alla letteratura italiana. Proprio nel racconto che dà il titolo all’antologia, la metafora da palpabile diventa sin troppo spietata tanto è evidente: attraverso la progressione incrociata di più voci che ne testimoniano l’esistenza “effettiva”, la vita grama del felizzanese Eugenio detto “Trotskij” si dipana tra fascismo, guerra e periodo post-bellico tra i chiaroscuri del riscatto sociale e la voglia di gridare al mondo “Occhio che ci sono anch’io e anche la mia vita non è da meno di chi per sua fortuna o per nostra sfortuna se ne sta sempre sotto il riflettore…”. In quest’ottica l’autore s’identifica totalmente con Trotskij e ci costringe a una riflessione non banale attorno al gioco di specchi tra realtà e letteratura. Ciao Trotzkji, alla fine, parla di tutti noi.