di Franco Pezzini

Lorenza Ghinelli, La stirpe e il sangue, illustrazioni (splendide) di Darkam, pp. 171, € 18, Bompiani, Milano 2022.

Cosa può spingere un’autrice certo eclettica, capace di muoversi disinvoltamente tra mainstream e genere e comunque di offrire un genere elegantemente letterario, ma non cultrice del romanzo storico in quanto tale, ad allontanarsi dagli sfondi e dalle storie pur tanto crudeli della nostra epoca per precipitare indietro fino al XV secolo? Se lo chiedeva lei stessa, Lorenza Ghinelli, in una presentazione di questo libro tenuta di recente a Torino. Cosa può spingere soprattutto a cercare in quel passato le dimensioni più oscure, umbratili e meno immediatamente attraenti per l’uomo della strada, persino per chi quegli sfondi – Valacchia, Anno Domini 1442 – studia per interesse alla nerissima saga dei Drăculeștii, ormai di dominio pop? Che qui invece resta assolutamente sullo sfondo e defilata. In scena sono invece gli ultimi e i senza storia, una madre Maria e i due piccoli Anna e Radu, sopravvissuti all’eccidio consumato nel loro villaggio al dilagare dell’esercito ottomano di Murad II: ultimi che dovranno reinventarsi un ritmo quotidiano per sopravvivere – mangiare, essere difesi, non impazzire – nelle circostanze più estreme: la foresta piena di pericoli concreti, poi la casa di un boiardo persino più insidiosa, quindi di nuovo la foresta e la casa di una “strega”.

Quel che si dipana – e l’immagine, considerando la visceralità, non va tanto a un gomitolo ma a intestini srotolati –, è una sorta di romanzo di formazione. Formazione per la madre, costretta a cambiare la propria vita in un modo drastico che mai avrebbe immaginato; per Anna, la piccola che però dovrà subire tutto, perché abbastanza cresciuta da non conoscere la pietà dell’incoscienza; per Radu stesso, che in mezzo a tutto ciò cresce, con il suo problema metabolico per cui solo il sangue può integrare davvero il suo vitto – o almeno di ciò è convinta la madre e dunque si convinceranno anche lui e (in qualche misura) la sorella. Una formazione terribile che, come nei riti di passaggio, vede consumarsi l’esplosione di ogni regola civile, in un’ostinazione a vivere che non pretende assoluzioni o simpatie di nessuno. Alla stirpe dei padri – i signori della storia, i coinvolti nella gestione di alleanze e voltafaccia ai tavoli dei principi e comunque gli amministratori della forza comunitaria – si oppone così la logica del sangue, delle madri, cioè le complicità e alleanze segrete delle donne, figure marginalizzate e ultime che però possono spalleggiarsi con effetti eversivi: e la storia (esilio, fughe continue e anzitutto da se stesse) è quella di una liberazione non condotta sotto le insegne della luce. Non per tutte le liberazioni è possibile, riflette l’autrice, e del resto la Storia invita a essere molto cauti verso chi pretenda di bandire gonfaloni luminosi. Più in generale è utile riflettere che nell’intreccio della Storia le lotte di liberazione possono conoscere dimensioni  oscure senza per questo perdere il loro valore di fondo (bene ribadirlo, in un tempo in cui per esempio la Rivoluzione francese è oggetto di una serie di scandalose svalutazioni da parte di bigotti, reazionari e ignoranti sempre più numerosi): ma il teatro simbolico qui in scena e volutamente enfatizzato (di fronte a certe trovate è impossibile non pensare all’amore, più volte dichiarato, dell’autrice verso il terribile Titus di Julie Taymor da Shakespeare, 1999) parla il linguaggio nero delle fiabe. Sia nel ritmo ipnotico, a tratti cantilenante, lucidamente eletto come cifra stilistica, sia nelle scelte estreme dei contenuti: il buonismo becero da società-chioccia confonde il sadismo inutile di Bambi con la necessità che una fiaba abbia connotati “impresentabilmente” neri. Del resto, chi non si fa inquietare all’infanzia dalle storie di ombre, ricorda Le Fanu in Carmilla, è candidato da adulto a farsi divorare dalle medesime, in quanto mancante di quel sacrosanto vaccino della fantasia che aiuta a tenervi testa.

Se, in un mondo estremo, il cuore della morale è rappresentato dalla sopravvivenza nostra e delle persone che amiamo – come quel cucciolo malriuscito e troppo pallido che la Morte stessa non ha toccato in vista di chissà quali progetti – a quel punto la lotta è aperta: ed è questa la fiaba nera che Ghinelli racconta. Dove l’ombra dilagante attribuita al voivoda arcivampiro si rivela invece, al netto di tutte le deformazioni dei fuochi notturni e della luna, quella esile di un ragazzo che le donne hanno fatto sopravvivere.

Per tornare dunque alle domande iniziali: da dove questa storia? Forse è normale che un’autrice come Lorenza Ghinelli, con una sensibilità accentuata al sentire dei ragazzi, l’allergia alle storie con la morale (manzoniana o meno) ma lo sguardo ben oltre quelle esaurite in un nero fino a se stesso, andasse prima o poi a sgattare nelle ombre e nel terriccio retrostanti l’antico mito vampirico: a stanare quei bambini perduti nell’orrore organizzato dai padri, e costretti a trovare nel sangue sghembe formule di sopravvivenza (c’entra fino a un certo punto, ma mi pare inevitabile ricordare Il vampiro di Ropraz di Jacques Chessex, con la sua Svizzera/Transilvania). E insieme vien da pensare a un calare sciamanico tra i morti per coglierne le voci con la medianità della letteratura, e riportarle a noi, e traversare i mondi col suo fiato di rivolta.

Tanto più che il romanzo finisce col costituire insieme una potente, fiabesca metafora della sete di sangue di noi lettori, nelle terre occupate del neocapitalismo ostaggio di voci educatamente esangui, di romanzi da salotto tantopresentabili, di rovelli ombelicocentrici terreno di mamozzi altoborghesi le cui paturnie vengono paludate come spasmodicamente interessanti. Un grottesco impoverirsi della letteratura che spinge allora gli assetati a cercare storie dove vengano imbandite, magari di cattiva qualità o di cattive idee, perché quella sete di sangue (cioè di vita vera, di storie vere) c’è, e in sé è sana. E certo non vi sovvengono gli uomini delle Alte Poltrone, che hanno solo interesse a confermare questa forma del mondo. Mentre le storie terribili dobbiamo conservarle, tanto più se raccontano che i poteri cattivi si possono sovvertire: fiabe di formazione di cui, in momenti difficili come questo, abbiamo un gran bisogno.

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